Mons. Negri si insedia a Ferrara: “Signore, Tu sai che Ti amo”

Pubblichiamo la trascrizione dell’omelia pronunciata da Mons. Luigi Negri domenica 3 marzo, in occasione della Santa Messa celebrata presso la Cattedrale di Ferrara per il  suo ingresso ufficiale quale arcivescovo dell’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio.

Sia lodato Gesù Cristo.
Nella inevitabile fatica, trepidazione, incertezza di questi mesi ho sentito profonda nella mia coscienza e nel mio cuore risorgere l’antica e sempre nuova domanda: “Mi ami Tu?”.
Nell’orizzonte di questa domanda – questa domanda che segna il filo conduttore della vita cristiana, perché si assesta sul fondo della coscienza di ogni giornata, si dovrebbe dire di ogni momento, ma certo investe la nostra coscienza nei momenti più significativi, più impegnativi, quando emerge con chiarezza la Grazia di cui siamo fatti oggetto e la responsabilità che nuovamente ci si apre di fronte –, con la totale umiltà della mia vita, ma con la certezza che sostiene i miei passi da tanti anni, ridico questa sera, davanti a questa mia chiesa: “Signore, Tu sai che Ti amo”.
Nel rinnovarsi della Fede, in Cristo, come unica ragione della vita, dell’esistere, dell’agire, di fronte a questo riscopro questa sera, con profondità nuova – lasciatemelo dire –, la Grazia assoluta dell’episcopato e la responsabilità tremenda che ad essa consegue.
Il vescovo, secondo l’intuizione folgorante dei padri del Concilio di Trento, rappresenta nella sua Chiesa Cristo: Lo rappresenta, cioè Lo rende presente con la sua vita, con la sua testimonianza, con le specifiche funzioni episcopali, ma al di là di essa con la convivenza concreta e quotidiana con il suo popolo, il vescovo fa accadere nel mistero della Chiesa, nel mistero profondo della Chiesa, fa accadere sempre di nuovo il Mistero di Cristo, redentore dell’uomo, fonte di Verità e di Salvezza per tutti coloro che Lo incontrano e Lo seguono. Fa nascere e rinascere il Mistero di Cristo, ma attorno al Mistero di Cristo, cuore della Chiesa e del mondo, il vescovo genera il popolo santo di Dio, il popolo che nasce, che è nato, e rinasce continuamente dal Sacrificio e dalla Resurrezione del Signore. Un popolo che si stanzia nella storia, un popolo che ha una sua specifica identità, una sua cultura, l’ethos della carità e non della violenza, e sente come unica ragione del suo essere l’annunzio di Cristo a tutti gli uomini, fino agli estremi confini del mondo.

Chiesa di Ferrara, accogliendo il nuovo arcivescovo, chiedi allo Spirito Santo del Signore di partecipare anche ora, in modo nuovo, al rinascere del popolo cristiano, in noi e fra di noi. Questa è l’entità etnica sui generis, come ebbe a definirla in modo straordinario papa Paolo VI nella indimenticabile Udienza del 28 giugno 1972: noi siamo popolo del Signore. Genero questo popolo ogni giorno a Dio nel sacrificio della vita, nella celebrazione eucaristica, nella parola proclamata senza indugi e senza riduzioni, nella carità vissuta senza nessuna mistificazione, senza nessuna emarginazione. Tutto di Cristo e tutto per la Chiesa, senza possibilità che altre preoccupazioni si inseriscano fra me e il Signore Gesù Cristo.
E questo popolo che nasce dal mio sacrificio per Lui e di fronte a Lui, questo popolo di Dio è chiamato – in questo momento così grave della vita ecclesiale e sociale – a prendere ancora più coscienza della sua assoluta originalità. Non è una qualsiasi formazione sociale, come ha ricordato con durezza il santo padre Benedetto XVI durante il suo intervento al Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione: la Chiesa non nasce per volontà di nessuno, per nessuna assemblea costituente, ma nasce dallo Spirito Santo di Dio che, invocato, investe la carnalità e la spazialità della vita fisica e morale di un gruppo e lo rende popolo santo di Dio. Non dalla carne e dal sangue, non dalle misure umane, non dai progetti umani, non dalle visioni ideologiche, sociali, politiche e culturali, non dalla fiducia nella scienza e nella sua capacità manipolatrice, ma dal Mistero del Verbo di Dio fatto carne che effonde il Suo Spirito. Sono qui le radici del nostro essere popolo di Dio. È qui tutta la nostra dignità, che supera infinitamente tutti i nostri limiti. È qui che rinasce continuamente la fiducia nella vita che ci è data: non per affermare noi stessi, ma per affermare Lui, che è morto e risorto per noi.

La Chiesa è nel mondo, la Chiesa è per il mondo. Incontra ogni giorno l’uomo di questo tempo, come lungo i venti secoli della sua storia, grande e miserevole, ha incontrato gli uomini di ogni tempo. E il primo servizio che il popolo di Dio in questo tempo non può non fare all’uomo e al mondo è di proporre un giudizio chiaro sulla vita e sul destino dell’uomo e della società. Questo giudizio si formula secondo l’insegnamento costante del Magistero della Chiesa – soprattutto dei grandi papi del secolo scorso e dei primi decenni di questo secolo –, si formula in questo modo: Cristo è necessario all’uomo, perché l’uomo possa essere se stesso.
Cristo è necessario all’uomo e il senso profondo del Concilio Vaticano II, secondo la lettura straordinaria e acuta di Giovanni Paolo II, è stato proprio il punto in cui la Chiesa ha ripreso coscienza che solo nel riferimento a Cristo e alla sua Chiesa l’uomo della fine del secondo millennio e del terzo millennio avrebbe potuto trovare la strada della pienezza, della propria intensità umana e cristiana.

Noi affermiamo questo giudizio e lo viviamo, perché questo giudizio passa dalla nostra vita quotidiana: dal nostro mangiare e dal nostro bere, dal nostro vegliare e dal nostro dormire, dal nostro vivere e dal nostro morire, passa dalla concretezza della nostra esistenza, perché noi dimostriamo con la nostra vita che Cristo ci cambia. Rende più profondo il nostro sguardo su di noi, rende più benevolo il nostro cuore su noi stessi e su quelli che ci circondano, rende utile la nostra esistenza, che non è percorrere – come dice il mio grande amico Robert Spemann – non è percorrere il sentiero tortuoso del nulla, ma percorrere il sentiero che conduce alla vita.
Su questo giudizio che mette in evidenza dunque, fratelli e figli, una radice velenosa del mondo in cui viviamo che è l’apostasia dal Signore Gesù Cristo, che è il rifiuto di Lui. Ma noi vediamo tutti i giorni, con i nostri occhi e con lo sgomento del nostro cuore, che – come ha detto Benedetto XVI – l’apostasia da Cristo finisce per essere l’apostasia dell’uomo da se stesso.
Ma qui fratelli occorre uno scatto nuovo di intelligenza e di verità cristiana: questo giudizio non è per la condanna, questo giudizio non esclude, questo giudizio non mette in evidenza una negatività insormontabile. Questo giudizio si fa carità, si fa compassione. Questo è il cristianesimo autentico: un giudizio che si fa carità, e una carità che esprime nel mondo la novità del giudizio della Fede. Perché la Fede senza carità è un’ideologia, ma una carità senza Fede e senza Verità è un emotivismo, come ha detto il papa nella Deus Caritas Est.

Allora noi non dobbiamo giustificarci, dobbiamo semplicemente dire che noi amiamo quest’uomo. Amiamo quest’uomo che ci vive accanto, che ci passa accanto, custodiamo il fondo profondo del suo cuore, là dove ogni cuore ama – anche senza saperlo – il Mistero e lo cerca come a tentoni, perché ogni uomo – secondo l’intuizione formidabile di Blaise Pascal –, ogni uomo supera infinitamente l’uomo.

Noi vogliamo custodire il senso religioso che detta il cammino di tanti, di tanti uomini di buona volontà. Ma noi vogliamo custodire anche il cuore di coloro che sono lontani, che si sentono o si presentano come nemici di Cristo e della Chiesa. E li aspettiamo, come il padre del figliol prodigo aspettava insonne il ritorno del figliol prodigo. Noi amiamo l’uomo di questo tempo, nella concretezza irriducibile del suo essere, del suo cuore che cerca Dio, della sua libertà che deve poter esprimersi fino in fondo, della sua responsabilità che deve prendersi di fronte a Dio e alla storia; di fronte alla sua indubitabile e innegabile capacità di vivere la vita in comunione con una donna, dando luogo a quella famiglia – una, unica, indissolubile, feconda – su cui si fonda non solo la Chiesa Santa di Dio, ma l’intera società. Noi non possiamo non difendere l’uomo nell’esercizio dei suoi diritti fondamentali: di libertà religiosa, di libertà di cultura, di libertà di istruzione, di libertà di scuola. Rimanessimo soli, gli uomini del nostro tempo devono sapere che la Chiesa è accanto a loro, perché come disse il beato Giovanni Paolo II in una pagina straordinaria della Centesimus Annus: la Chiesa ha lavorato per secoli per la propria libertà, ma lavorando per la propria libertà ha lavorato e si è sacrificata per la libertà di tutti.

Questo vogliamo umilmente, ma fermamente essere in questa nostra società, perché gli uomini del nostro tempo percepiscano che la vita non è inutile. Vorremmo riecheggiare al cuore di tutti i nostri fratelli uomini l’intuizione bellissima del grande filosofo Gabriel Marcel: ama chi dice all’altro “Tu puoi non morire”. Noi diciamo agli uomini del nostro tempo che non sono nati per morire; sono nati per ritrovare, se vogliono, la suprema dignità dei figli di Dio, la loro responsabilità, la loro capacità di amore, la loro capacità di creazione. Una Chiesa fatta di laici – ci disse Benedetto XVI nel giorno indimenticabile della sua venuta fra noi a San Marino Montefeltro –, un popolo di laici, vivi, attivi, creativi, intraprendenti. Non cerchiamo egemonie, non cerchiamo potere, cerchiamo solo la suprema grande libertà: quella di essere, di esistere. Noi conosciamo una sola libertà, che è stata illustrata in questi due millenni innanzitutto dal sangue di coloro che allora come oggi hanno offerto la propria vita perché Cristo fosse predicato agli uomini. Noi vogliamo la libertà di essere il popolo santo di Dio, che rivolge agli uomini di questo tempo il grande annunzio: se tu vuoi, puoi salvarti.

Ci aiuti Dio, e mi aiuti particolarmente Lui, in cui ripongo ogni mia fiducia. Conosco i miei limiti, conosco le mie difficoltà, conosco la fatica dell’esistenza, che è stata segnata per me da grandi doni, da grandi successi, ma anche da grandissimi dolori.
So che la mia vita vale poco, ma è consegnata da me questa sera nelle mani di Dio: Egli ed Egli solo è la nostra forza: “Tu fortitudo mea”. E così sia.

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