«Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile»: così affermava Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae. I frutti di tale mentalità si stanno manifestando tragicamente soprattutto nelle questioni di bioetica: in quale direzione si sta dirigendo il progresso scientifico? Quali sono i parametri per giudicarlo, riconoscendone anche le derive? Chi stabilisce i criteri di giudizio sulla qualità della vita o tra vite degne e vite indegne di essere vissute? Sono domande che interpellano le nostre coscienze. Il principio che attualmente non è più scontato sottolineare è la dignità della vita: essa non è mai inutile ma è sempre degna di essere vissuta e il suo valore prescinde dalle circostanze in cui ci troviamo.
I mass media diffondono l’idea che la vita abbia senso solo finché si è sani e in grado di autogestirsi. In una società in cui ciò che conta sembra essere solo il fattore estetico, diventa sempre più difficile accettare l’altro per quello che è, senza mettere in gara anche le sue capacità. Viene così affermato un concetto di qualità della vita che concepisce la dignità in senso discriminatorio e che non considera più ogni singola vita dotata di valore. Si sente spesso dire che le persone in condizioni gravi siano sempre pronti a richiedere che sia loro “staccata la spina”.
A questo proposito, spiega Mario Melazzini, medico di successo travolto dalla SLA (sclerosi laterale amiotrofica): «ci sono cento persone che, in nome di altre migliaia, invocano il diritto a essere riconosciute invalide, a essere ammesse alle sperimentazioni, a essere prese in carico, ma nessuno se ne accorge. Poi c’è uno che evoca la morte come un diritto e non si parla d’altro». Proprio sull’etica di fine-vita, Giovanni Paolo II osservava che «gravi minacce incombono sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l’anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno».
Salvatore Crisafulli aveva testimoniato in un bellissimo libro la sua storia, diventando simbolo delle battaglie del Movimento per la Vita italiano: nel settembre 2003, all’età di 38 anni, fu travolto da un furgone insieme al figlio tredicenne. La diagnosi è di stato vegetativo post-traumatico: viene portato in Toscana a casa del fratello Pietro, dove poi avverrà il risveglio. Salvatore ci ha lasciati ieri dopo aver sostenuto la dignità della vita in qualsiasi condizione, come testimonia in un passo di questa intervista, insieme al fratello.
Nelle parole commoventi di Salvatore ritroviamo un forte senso della propria dignità e del proprio valore umano, unico e irripetibile, come ci ricorda il Cardinal John Henry Newman: «qualsiasi cosa e dovunque io sia, non posso mai essere buttato via. Se sono ammalato, la mia malattia può servire a Lui; se sono nel dolore, il mio dolore può servire a Lui. La mia malattia, o perplessità, o dolore possono essere cause necessarie di qualche grande disegno il quale è completamente al di sopra di noi. Egli non fa nulla inutilmente; può prolungare la mia vita, può abbreviarla; sa quello che fa. Può togliermi gli amici, può gettarmi tra estranei, può farmi sentire desolato, può far sì che il mio spirito si abbatta, può tenermi celato il futuro, e tuttavia Egli sa quello che fa».
Con gli occhi sbarrati è il libro scritto da Salvatore attraverso gli occhi e un computer con appositi sensori. Quanto tempo ha impiegato per scrivere il suo libro? Cosa ha sostenuto questo immenso sforzo?
Pietro Crisafulli: Prima che Salvatore terminasse di scrivere la sua esperienza è passato quasi un anno, durante il quale noi fratelli ma anche nostra madre gli siamo sempre stati vicini. Lo sforzo di Salvatore è stato possibile grazie all’aiuto di tutti noi fratelli, che non lo abbiamo mai lasciato solo, neanche per un attimo.
Quando Salvatore si sveglia, si rende conto che tutti lo ritengono incosciente, compresi i suoi famigliari. Vive così la drammatica esperienza di non poter comunicare, mentre riesce a sentire perfettamente tutto ciò che viene detto, comprese le parole dei medici che, a proposito del movimento dei suoi occhi o del suo pianto, affermano che sono soltanto riflessi incondizionati involontari. Quando avete cominciato ad avere il sospetto che fosse cosciente?
Pietro Crisafulli: Quasi fin da subito. Dopo che abbiamo portato Salvatore a casa mia, in Toscana, ci siamo accorti, accudendolo giorno e notte, che sembrava reagire ai nostri stimoli. Apriva e chiudeva gli occhi a comando e piangeva spesso. Più volte abbiamo interpellato i medici, portandolo in camper anche nei migliori centri dell’Europa, per accertare le reali condizioni di Salvatore, ma loro dicevano sempre la stessa cosa: che era un vegetale, una foglia di lattuga. Una sera, stanchi di aspettare un ricovero in ospedale che non arrivava mai, ci riunimmo tutti a casa mia, dove vivevo prima a Monsummano Terme. C’eravamo io, mia madre, mia moglie, mio fratello Marcello e un cugino. Decidemmo di mettere alla prova Salvatore. Gli chiedemmo di aprire gli occhi se ci sentiva. Lui li aprì. Poi cominciammo a fargli tante domande. Lui doveva rispondere sì o no semplicemente aprendo o chiudendo gli occhi. Così accertammo che Salvatore c’era, era presente e capiva tutto. Ma per la scienza medica europea erano riflessi incondizionati, in poche parole si trattava di nostre illusioni.
Nel viaggio del lettore attraverso le pagine sembra di vivere insieme a Salvatore tutti i momenti drammatici di questa incredibile storia. Oltre all’angoscia da lui provata, viene descritta molto bene la condizione di estrema solitudine e di povertà in cui tutta la vostra famiglia si è ritrovata. Ad esempio, per ritardi burocratici, non viene riconosciuta la pensione di invalidità a Salvatore. Come avete trovato la forza per andare avanti?
Pietro Crisafulli: Nell’amore che ci unisce tutti e che tutti proviamo per Salvatore. Abbiamo fatto di tutto, anche l’impossibile. Dovevamo lottare per lui, perché arrenderci significava condannarlo a rimanere per sempre un vegetale, come dicevano i medici, se non a morte certa.
Lei e l’altro vostro fratello, Marcello, avete rinunciato al vostro lavoro per seguire Salvatore. Durante il periodo di rianimazione durato 53 giorni, avete anche dormito sulle panche della sala d’attesa. Nel suo libro, Salvatore non smette mai di fare riferimenti alla dedizione con la quale è stato da lei accudito. Diversi sono i passaggi di questa testimonianza: «Io e Pietro eravamo molto uniti e ci facevamo forza l’un l’altro, siamo diventati indivisibili e lo siamo rimasti fino ad oggi»; «l’altro giorno (Pietro) è arrivato nella mia stanza tutto contento portando con sé un materasso antidecubito». E ancora: «ha sistemato la telecamera davanti al mio letto, che trasmette la mia immagine sugli schermi di alcuni televisori sistemati in ogni stanza della casa. Non mi perde d’occhio un attimo, neanche di notte»; «per acquistare i macchinari necessari per curarmi Pietro ha dato fondo a tutti i suoi risparmi». Potremmo andare avanti con questi esempi all’infinito. Quanto è importante la relazione d’amore in casi come questi? Quanto vi ha sostenuto il ruolo giocato da vostra madre?
Pietro Crisafulli: Vorrei precisare che dopo i primi 53 giorni di rianimazione ci sono stati altri 81 giorni di rianimazione in un altro ospedale: la bellezza di oltre 4 mesi in rianimazione. Certamente senza l’amore che ci unisce non avremmo mai portato Salvatore a casa, e mai avremmo scoperto che era cosciente. È stato con la vicinanza e con le cure continue che gli abbiamo prestato che ci siamo accorti che Salvatore capiva tutto. Nostra madre è stata la prima a crederci, non si è mai arresa, neanche quando i grandi luminari ci dicevano che per Salvatore non c’era niente da fare. Lei non ha mai smesso di lottare. Il ruolo di mia madre Angela è stato fondamentale.
Salvatore fa molti richiami alla preghiera: «Prego Dio di aiutarmi» (p. 35), «trascorro il tempo ad osservare i miei famigliari, a pregare e a dormire» (p. 36), «prego Dio che sblocchi questa situazione» (p. 47), «Signore, fa che serva a qualcosa» (p. 60), «ho pregato tanto, per l’ennesima volta ho chiesto al Signore di aiutarmi. Pietro e mia madre mi hanno promesso che mi porteranno ancora in Chiesa e che d’ora in poi ci andremo tutte le domeniche». Quanto è stata importante la fede?
Pietro Crisafulli: A casa mia siamo molto legati alla patrona di Catania, Sant’Agata. Abitavamo proprio nel centro storico e per noi la festa di sant’Agata è sempre stata un grande evento, al quale abbiamo sempre portato Salvatore dopo l’incidente. La fede può essere un sostegno in momenti terribili come quelli che abbiamo vissuto.
In ogni pagina del libro emerge il grande desiderio di Salvatore di vivere. C’è stato un momento in cui lei ha pensato di urlare al mondo: o mi aiutate o uccido Salvatore. Nel suo racconto, Salvatore scrive: «Vorrei supplicarlo di non farmi del male, di lasciarmi vivere. Non voglio morire, voglio vivere […] Ragazzi, dico col pensiero, aspettate, non fate sciocchezze». Quante volte sentiamo dire superficialmente dalla gente: «se io fossi in quelle condizioni, vorrei morire!». Crede che la testimonianza di Salvatore possa essere una chiara battaglia contro il fronte dei sostenitori dell’eutanasia e del testamento biologico?
Pietro Crisafulli: La storia di Salvatore dimostra che anche la scienza può sbagliare e che quelle che ci vengono propinate come certezze a volte non lo sono affatto. La testimonianza di Salvatore vuole aiutare tutte le persone nelle sue condizioni: in Italia ce ne sono centinaia paralizzate, con la sindrome di Locked-in, in stato vegetativo, che vengono accudite a casa dai familiari, che non hanno nessun aiuto dallo Stato e dalle istituzioni. Non è accettabile che persone in queste condizioni vengano abbandonate a sé stesse. Chi lotta per la vita dovrebbe mettere al primo posto l’aiuto verso questa gente. La storia di Salvatore dimostra con certezza che dallo stato vegetativo è possibile uscire. In merito all’eutanasia lo stesso Salvatore si è ampiamente esposto, addirittura intervenendo con una sua diretta testimonianza che le faccio pervenire per correttezza: «Dal mio letto di quasi resuscitato alla vita cerco anch’io di dare un piccolo contributo al dibattito sull’eutanasia. Il mio è il pensiero semplice di chi ha sperimentato indicibili sofferenze fisiche e psicologiche, di chi è arrivato a sfiorare il baratro oltre la vita, ma ancora vivo, di chi è stato lungamente giudicato dalla scienza di mezza Europa un vegetale senza possibile ritorno tra gli uomini e invece sentiva irresistibile il desiderio di comunicare a tutti la propria voglia di vivere. Durante quegli interminabili anni di prigionia nel mio corpo intubato e senza nervi, ero io il muto o eravate voi, uomini troppo sapienti e sani, i sordi? Ringrazio i miei cari che, soli contro tutti, non si sono mai stancati di tenere accesa la fiammella della comunicazione con questo mio corpo martoriato e con questo mio cuore affranto, ma soprattutto con questa mia anima rimasta leggera, intatta e vitale come me la diede Iddio. Ringrazio chi, anche durante la mia “vita vegetale”, mi parlava come uomo, mi confortava come amico, mi amava come figlio, come fratello, come padre. Ma cos’è l’eutanasia, questa morte brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana solidarietà se coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità? E invece tu, caro Pietro, sfidavi la scienza e la statistica dei grandi numeri e ti svenavi nel girovagare con me in camper per ospedali e ambulatori lontani. E urlavi in TV minacce e improperi contro la generale indifferenza per il mio stato di abbandono. E mi sussurravi con dolcezza di mamma la ninna-nanna di “Caro fratello mio”, per me composta, suonata, cantata e implorata come straziante grido d’amore, ma non d’addio. Vi ricordate di quel piccolo neonato anancefalico di Torino, fatto nascere per dare inutilmente e anzitempo gli organi e poi morire? Vi ricordate che dalla sua fredda culla d’ospedale un giorno strinse il dito della sua mamma, mentre i medici quasi sprezzanti spacciavano quel gesto affettuoso per un riflesso meccanico, da avvizzita foglia d’insalata? Ebbene, mamma, quando mi coprivi di baci e di preghiere, anch’io avrei voluto stringerti quella mano, rugosa e tremante, ma non ce la facevo a muovermi né a parlare, mi limitavo a regalarti lacrime anziché suoni. Erano lacrime disprezzate da celebri rianimatori e neurologi, grandi “esperti” di qualità della vita, ma era l’unico modo possibile di balbettare come un neonato il mio più autentico inno all’esistenza avuta in dono da te e da Lui. Sì, la vita, quel dono originale, irripetibile e divino che non basta la legge o un camice bianco a togliercela, addirittura, chissà come, a fin di bene, con empietà travestita da finta dolcezza. Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato, anche da intubato, anche da febbricitante e piagato. Intorno a me, sul mio personale monte Calvario, è sempre riunita la mia piccola chiesa domestica composta da Mamma Angela, Marcello, Pietro, Santa, Francesca, Rita, Mariarita, Angela, Antonio, Rosalba, Jonathan, Agatino, Domenico, Marcellino: si trasfigurano ai miei occhi sbarrati nella Madonna, nella Maddalena, nella Veronica, in Sant’Agata in San Giovanni, nel Cireneo. Mi bastano loro per sentirmi sicuro che nessun centurione pagano oserà mai darmi la cicuta e la morte».
Commovente. Gli anni passano e altre vicende famigliari fanno sprofondare la vostra famiglia in forte depressione. La lotta per la vita non è sempre sicura, ma segue un corso tormentato: cosa vi ha dato la forza di continuare, nonostante tutto?
Pietro Crisafulli: L’amore nei confronti di Salvatore. Dopo che la sua storia è diventata “famosa”, tante persone ci hanno contattato, tante famiglie di pazienti che vivono come lui o similari. Persone che volevano raccontare la loro esperienza, che chiedevano consigli e aiuto. Gettare la spugna avrebbe significato abbandonare non solo Salvatore, ma anche tutta la battaglia che è nata intorno alla sua voglia di vivere.
La storia di Salvatore è molto importante per il fronte per la vita. Fa riflettere soprattutto quando, riferendosi a Terri Schiavo, scrive: «Anche nel mio caso è la mia famiglia che sostiene che sono cosciente e i medici, invece, ribattono che non è possibile […] Mi chiedo se per caso non significhi proprio questo essere in stato vegetativo permanente, cioè capire tutto e non poterlo dimostrare agli altri e vivere nell’incubo di essere considerato un vegetale». Voi avete fondato un’associazione per aiutare tutte le persone che si sono trovate nelle condizioni di Salvatore. Cosa chiedete alla sanità italiana?
Pietro Crisafulli: Tante famiglie adesso si rivolgono a noi. Per amore di Salvatore abbiamo fondato l’associazione Sicilia Risvegli Onlus, in collaborazione con la Fondazione Terri Schindler Schiavo, che ha come obiettivo quello di aiutare le persone e le loro famiglie vittime di gravi e gravissime lesioni cerebrali, traumatiche e non traumatiche, responsabili di stati di grande dipendenza fisica. Ciò include le persone in fase di risveglio, in stato di minima coscienza, in stato vegetativo breve o prolungato, con locked-in sindrome (che si risvegliano con funzioni cognitive preservate, ma con deficit fisici maggiori, costrette a comunicare tramite codici motori SI/NO, come i movimenti oculari o quelli di una parte del corpo). L’attività primaria dell’associazione è integrata da azioni di sensibilizzazione e di informazione dell’opinione pubblica, dei mass media, delle autorità politiche e amministrative, del personale medico e paramedico, del mondo scientifico e accademico. Abbiamo un grande sogno: costruire un centro risvegli in Sicilia. In particolare chiediamo di non abbandonare le persone come Salvatore, che devono invece essere curate a casa e avere tutto il sostegno possibile (medici, attrezzature, aiuti economici) per poter continuare ad avere una vita dignitosa.
[Questa intervista, realizzata pochi mesi prima della morte di Salvatore Crisafulli, sarà pubblicata nell’e-book Interviste ai maestri – volume II (Leo Libri), di imminente uscita, a cura di Irene Bertoglio]
Fonte: zenit.org