L’omelia è malata

Il cardinale Yves Congar, uno dei più importanti uomini di Chiesa del XX secolo, alla fine degli anni sessanta disse: “Nonostante trentamila prediche domenicali la Francia è ancora un paese cattolico”.

Anche chi non crede ai miracoli dovrebbe porsi qualche interrogativo. Se poi si pensa che dopo più di quarant’anni da questa affermazione le cose non sono cambiate in meglio, è auspicabile che gli addetti ai lavori comincino a preoccuparsi e interrogarsi sul livello della predicazione. Pochi sono coloro che tra i fedeli esprimono sinceramente il proprio pensiero su che cosa ascoltano la domenica andando alla messa.

 La maggior parte delle persone preferisce sorbirsi il panegirico del prete di turno in religioso silenzio, magari estraniandosi e pensando a tutt’altro, considerandolo come una sorta di penitenza ormai abituale. “Si subisce la predica, perché non se ne può fare a meno, fa parte di un copione obbligato” (don Alessandro Pronzato).

Non tutti, però, hanno la pazienza di continuare ad essere sommersi dalle troppe parole che cadono dai nostri pulpiti. Va detto che un confronto leale, con quella franchezza tanto auspicata nella Chiesa, sia un servizio quanto mai opportuno da rendere ai tanti predicatori che hanno come missione l’annuncio della Parola ed il suo commento. Il disagio nelle nostre parrocchie è sempre più crescente e anche le statistiche, quanto mai di moda in questi anni, sottolineano che l’omelia è malata e urgono dei rimedi. Non si può continuare a far finta di niente, sorbirsi il sermone senza capo né coda e poi tutti a casa.

Con rispetto verso chi ha il dovere della predicazione, e con l’umiltà che si è tutti in cammino e che si può sempre migliorare, penso che i laici debbano esprimere la propria convinzione riguardo a quel momento della liturgia volgarmente chiamato predica. Esiste nella Chiesa un grave problema di comunicazione e molti fedeli abbandonano le comunità cristiane perché non trovano un linguaggio che sappia interessarli e coinvolgerli. Molte persone borbottano e poi tengono per sé il disagio provato in anni e anni di omelie noiose e inutili. Pochi sono coloro che tra i fedeli hanno il coraggio, in tutta sincerità, di esprimere le loro perplessità e le critiche per cercare di migliorare un certo linguaggio ecclesiale.

Mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI, a fine 2009 ha rincarato la dose affermando che le omelie domenicali sono ridotte a “una poltiglia melensa”, quasi “una pietanza immangiabile” o, comunque, ben “poco nutriente”. D’altra parte, come sottolineato da Sergio Zavoli, “…è da tutti risaputo che il 95% della formazione cristiana (dopo il periodo della catechesi) passa – o non passa – quasi esclusivamente attraverso l’omelia domenicale e festiva, e le diverse forme di predicazione”.

Il cardinale Silvano Piovanelli, presentando il monumentale Dizionario di omiletica edito in collaborazione tra l’Elledici e la Velar, scrisse: “Effettivamente, almeno a giudicare dalle critiche che ci vengono mosse da persone semplici e da persone colte, non sembra che noi sappiamo cogliere quest’ di salvezza, di forza, di gioia. Parliamo troppo difficile: i nostri discorsi sembrano fatti in gergo, come alcuni dicono, in . “Anche se spesso le omelie mancano di qualità dottrinale ed espositiva per una inadeguata preparazione remota e prossima dei predicatori, diamo l’impressione di recitare una lezione imparata a memoria. Le parole passano sopra le teste senza entrare nella vita, percuotono le orecchie senza toccare il cuore. Siamo maestri – e neppure bravi maestri! – ma non siamo testimoni: la gente ascolta, ma non si convince e non cambia in conseguenza la propria vita”.

Chi osserva le persone uscire dalla messa domenicale si accorge subito che non hanno l’aria festosa. Talvolta danno l’impressione di essersi liberate di un peso, ma quasi mai si legge sui loro volti ciò che andava ricercando Julien Green prima di convertirsi al cattolicesimo.

Lo scrittore francese era solito appostarsi fuori dalle chiese al termine della celebrazione eucaristica e si domandava: “Se questi veramente credono a quello cui partecipano, dovranno venir fuori da qui con facce splendenti, occhi incendiati di luce, il fuoco nel cuore”.

Green rimaneva immancabilmente deluso: volti tristi, musi lunghi e chiacchiere futili. La cosa che più preoccupa e che se si appostasse adesso nei paraggi delle nostre chiese il risultato sarebbe pressoché identico. “Il motivo per cui la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato” (card. Tomáš Špidlik). (da Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie – Effatà Editrice 2011)

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