Dedizione e sacrificio per educare alla vita. La dimensione umana del lavoro. L’esperienza di Daniela Santanchè

Daniela Santanchè è imprenditrice nel campo della comunicazione e del sociale, prima donna relatrice della legge finanziaria nella storia parlamentare. È impegnata nella difesa dei diritti delle donne musulmane e dal 2006 è seguita da una scorta armata. È stata attiva per anni nel mondo delle cooperative sociali che lavorano nelle carceri. Attualmente è sottosegretario all’attuazione del programma e lavora nel marketing dei gruppi editoriali. Cosa l’ha spinta a mettersi in moto fin da giovane? La mia ricerca d’indipendenza e di libertà parte da lontano, fin da quando, all’Università, per mettere insieme un po’ di soldi, trattavo svariate attività, dall’infilare perline per collanine o bracciali, a piccoli lavori a maglia -di cui mi è rimasta la passione- a pubblicità o vendite porta a porta. Compiti che svolgevo di notte o nei ritagli di tempo dopo aver studiato e che mi hanno permesso anche di conoscere meglio l’universo umano, ampliando quella limitata sfera studentesca a cui in quegli anni di piombo in una Torino targata Fiat non mi sentivo legata e che non mi rappresentava. Quali sono state le sue convinzioni di base e da dove le derivano? La volontà di “decidere” di me stessa come desideravo mi ha fatto interpretare il fattore lavoro nella vita come emancipazione, comunicazione, stabilità e punto di riferimento. Ho sempre lavorato per costruire il mio futuro. D’altronde, a sventare il rischio di abbandonarmi all’inerzia della studentessa foraggiata dai genitori sono stati i miei stessi famigliari, che, quando seppero che volevo frequentare la facoltà di Scienze Politiche, stabilirono di sovvenzionarmi soltanto l’alloggio: per il resto avrei dovuto provvedere da sola. E così feci, tra mille paure, ma con la convinzione che indietro non sarei tornata. Ricordo poi quando aprii, nel 1992, la “Dani Comunicazione”, avevo trent’anni. E’ stata una sfida esaltante ma anche una strada obbligata da percorrere per sfruttare l’esperienza acquisita dalle realtà aziendali precedenti e per mettere a frutto il mio know-how. E anche se molti mi hanno “appiccicato” addosso l’etichetta di signora dei salotti sono andata avanti per la mia strada che mi ha portato ad essere quella che sono, senza falsità e ipocrisie, orgogliosa degli oneri che mi sono assunta e degli obiettivi raggiunti. Ho ricondotto poi la mia esperienza nell’ambito del sociale fondando l’associazione no profit Solidarietà 2000, che ha promosso diverse iniziative a favore di persone portatrici di handicap e, in collaborazione con le Cooperative sociali Alice e Granserraglio, anche in favore di persone detenute. Ritengo che il lavoro di queste ultime rappresenti da una parte la condizione imprescindibile per l’inserimento sociale di chi intende voltare pagina, e dall’altro uno degli strumenti che lo stato e la società devono perseguire al fine di assicurare maggiore sicurezza ai cittadini. L’idea del lavoro proviene soprattutto dalla cultura occidentale (ora et labora) ed è quindi un nostro bagaglio culturale. Perché secondo lei il lavoro è un aspetto fondamentale della vita? Al contrario di ciò che era il pensiero antico, in cui il lavoro fisico era considerato non onorevole, nella cultura moderna è riconosciuto che il lavoro dell’uomo, fisico o intellettuale che sia, fa parte della sua dignità specifica. Anche la nostra Costituzione, nell’art. 4 sancisce che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Sono parole importanti che hanno un percorso lungo, di fatto iniziato con l’era cristiana. La rivoluzione che attuò Gesù Cristo, con la sua umile provenienza e poi con il suo lavoro di carpentiere, ha elevato l’idea stessa del lavoro oltre che come ode e preghiera al Signore, anche come evoluzione dell’essere umano e solidarietà verso il prossimo. Scomodando uno dei “grandi” del nostro tempo, Giovanni Paolo II, ritrovo lo stesso pensiero della tradizione contadina della mia famiglia, nella sua lettera sul lavoro umano intitolata Laborem exercens del 1981 e scritta per il novantesimo anniversario dell’enciclica Rerum novarum. Oggi, con occhi adulti di donna e genitore, sono grata a mia madre e mio padre per tutto ciò che mi hanno insegnato; offrendomi esempi di vita per farmi capire in cosa consiste il merito della parola lavoro e ciò che comporta: dedizione e sacrificio. A non averne paura o sconforto ma a carpirne l’essenza che racchiudono. Molti ragazzi di oggi non si impegnano per alcun ideale ma si aspettano il piatto pronto, convinti che tutto sia loro dovuto. Oggi i tempi sono cambiati e la grave crisi che ha colpito l’economia mondiale si ripercuote maggiormente sui soggetti più deboli come i giovani e le donne. Inoltre, nella nostra cultura si è radicata da decenni una mentalità di approccio al lavoro completamente sbagliata e concetti come flessibilità, lavoro a progetto, job sharing hanno acquisito un’accezione completamente negativa, sia a causa degli abusi e per la mancanza di regole e tutele da parte degli operatori, sia per una forma mentis da parte dei salariati improntata sull’omologazione di quelli che si ritengono standard sociali invariabili e intoccabili. Tutti fattori che, insieme all’esasperato consumismo della nostra epoca, hanno destrutturato la vita lavorativa e reso i soggetti di entrambe le parti poco motivati. Infine, se da un lato gli imprenditori non hanno compreso che, oltre alla prospettiva del guadagno, è necessario anche un apprezzamento sociale, dall’altro i lavoratori si sono spesso lasciati trasportare da diktat sindacali e politici che dovevano invece restare estranei ai processi aziendali. Potrebbe tracciare una possibile strada di speranza? Per il bene del futuro dei nostri ragazzi è fondamentale una seria rimodulazione dell’istituto del lavoro. Con riforme strutturali che diano modo di ritrovare la giusta collocazione dell’effettivo valore del lavoro stesso inteso come bene comune e manifestazione della persona e non mera “produzione economica”. Non esistono ricette speciali ma soltanto la volontà di far convergere sinergie, responsabilità e disciplina in un unico progetto che dia modo di trasformare e modificare l’assurda condizione di caos attuale. Ci si deve riappropriare della dimensione umana del lavoro per poi fondare su di esso una nuova solidarietà, libera da interpretazioni ideologiche e tesa al rispetto della vita.

Print Friendly, PDF & Email
Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Autore: Irene Bertoglio

Grafologa iscritta all’Associazione Grafologi Professionisti (A.G.P), specializzata in consulenza aziendale, Irene Bertoglio è perito grafico giudiziario, educatrice e rieducatrice della scrittura, socia A.N.G.R.I.S. Ha pubblicato "Intervista ai maestri Vol. 1" (LeoLibri 2012) e ha partecipato al volume "Contro-canti". Collabora con diverse testate cattoliche.