Niente cannabis per il figlio del ministro

Livia Turco, come madre, è portata a sconsigliare a suo figlio l’uso di droghe, anche leggere; come ministro decide di raddoppiare la quantità detenibile di cannabis per uso personale.

Ma l’uso di droga, comunque si voglia girare la frittata, e indipendentemente dai costumi dei propri elettori, è un tentativo di fuga dalla realtà. Per quale altra ragione altrimenti la Turco dovrebbe salvaguardare il figlio dai “mali” di questa società?

Eppure che la droga sia un male è diventato impossibile dirselo. Il “vietato vietare” nasconde dunque un più letale “vietato giudicare”. Non si può più dire pubblicamente che cosa è bene e che cosa è male, avere un’idea della libertà diversa da quella della pura assenza di vincoli, che poi significa soltanto che ci ritroviamo tutti più soli.

La posizione della Turco è l’emblema di una schizofrenia diffusa: quella tra opinione privata e giudizio pubblico, che copre l’incapacità a dar credito a ciò che si rende evidente nella propria esperienza.

La prima e comune responsabilità che abbiamo di fronte a ciò che accade è allora quella “per il retto uso della ragione”, come ha detto di recente Benedetto XVI, a partire non da preconcetti, ma dall’esperienza che tutti facciamo di ciò che è più vero, più giusto, più buono.

È di questo che bisognerebbe tornare a parlare, pure tra i politici. Perchè giudicare è l’inizio della liberazione. Anche dalla droga.

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