Persone, pre-persone, non-persone

di Stefano Martinolli

Pubblichiamo lo studio del dott. Stefano Martinolli, medico chirurgo e bioeticista, pubblicato in 3 puntate dall’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân.

Parte prima: La “pre-persone” di Philip Kindred Dick

Philip Kindred Dick nasce a Chicago il 16 dicembre 1928 e muore a Santa Ana (California) il 2 marzo 1982. È stato uno dei più importanti scrittori di fantascienza, tanto da conquistare rapidamente la critica e il grande pubblico, non solo americano ma anche europeo, ed essere apprezzato soprattutto postumo. Dai suoi scritti hanno tratto ispirazione film di successo come Blade Runner del 1982 (liberamente tratto dal racconto «Il cacciatore di androidi»), Atto di forza del 1990 (tratto dal racconto «Ricordiamo per voi»), Minority Report del 2002 (tratto dal racconto «Rapporto di minoranza»), Paycheck  del 2003 (tratto dal racconto «I labirinti della memoria»), Next del 2007 (tratto dal racconto «Non saremo noi»). Autore visionario e innovativo, ha ridisegnato in maniera assolutamente personale i classici canoni di questo genere letterario. Al Festival di Metz del 1977 ha affermato che i suoi racconti sono in un certo senso «veri». Ed è proprio questa la capacità rivoluzionaria dello scrittore: abbattere i confini tra reale e immaginario, creando mondi fantastici che si immergono, si mescolano e si confondono con la realtà, inserendo originali riflessioni filosofiche sull’ontologia umana, discutendo della teologia cristiana (lui che si professava ateo), della storia, della società statunitense, dei nuovi problemi della postmodernità e della globalizzazione capitalistica.

Nel 1974 scrive un racconto sconvolgente: «Le pre-persone». L’autore immagina un’America del futuro dove le organizzazioni abortiste si sono spinte fino a creare leggi che hanno reso legali anche i cosiddetti «aborti post-partum», cioè l’uccisione di bambini già nati. Il criterio discriminante è l’assenza o la presenza dell’anima. Scrive Dick: «Il Congresso aveva elaborato un test molto semplice per determinare il momento approssimativo d’entrata dell’anima nel corpo: la capacità di risolvere problemi di matematica superiore, di tipo algebrico» e l’età in cui questo avveniva era intorno ai 12 anni. Prima non si era considerati persone ma «pre-persone» con «un corpo, istinti animali, riflessi e risposte a stimoli esterni». I genitori pertanto potevano chiamare il furgone bianco, detto «il furgone dell’aborto», per far portare via i loro figli, destinati ad essere «terminati» in una Clinica di Stato. Un pre-adolescente, terrorizzato alla vista del furgone, si rivolge alla madre per essere tranquillizzato. Fortunatamente lui è «umano», «Tu hai 12 anni. Sei a posto». Le domande del ragazzo si fanno incalzanti e rivelano la cruda realtà di un mondo dove – come ha scritto Renato Farina in un articolo su Libero nel 2005 – il limite tra pre-persona e persona può essere spostato per convenzione sempre più avanti: «E se cambiassero la legge?». «Come mai – si chiede – più una creatura è indifesa, più facile è per certa gente ammazzarla? Come un bambino nel grembo, nei primi aborti […] Come potevano difendersi?». In questo mondo del futuro, un altro modo per salvarsi è il possesso del foglio D: uno dei genitori o il tutore legale deve riempire il modulo 36-W che rappresenta una dichiarazione formale di desiderabilità.

Il racconto si snoda poi lungo un dialogo tra un bambino di circa 6 anni, Tim, che sta girando in cerca di cibo, e Oscar Ferris, autista del furgone bianco numero 3. L’autista, dopo aver constatato che il bambino è privo del foglio D, cerca di caricarlo sul furgone, ma viene interrotto dall’ingresso in scena di un uomo, Ed Gantro, che si qualifica come genitore non in grado di pagare «i novanta dollari necessari» per il foglio. Ne segue un battibecco ove emergono gli elementi salienti del racconto. Ferris afferma che «a causa della crisi energetica dobbiamo diminuire la popolazione in maniera radicale. Questa è la prima fase di…». Poi, dopo aver aperto il furgone e fatto vedere che vi sono già due bambini al suo interno sottolinea che «tra un feto di 5 mesi e questi non vi è nessuna differenza, perché sono non desiderati». Il padre del bambino, a quel punto, dopo aver polemizzato sulla possibilità di uccidere per legge, si autodenuncia affermando di non avere un’anima e richiede di essere portato alla Clinica. L’autista, imbarazzato, chiede istruzioni ai propri superiori e, alla fine, carica l’uomo sul furgone. Durante il tragitto, il padre continua a discutere con i ragazzi sulla presenza o assenza dell’anima, mentre l’autista Ferris esprime a voce alta i suoi pensieri, lamentando il fatto che l’uomo è il principale responsabile dell’inquinamento dell’ambiente naturale e augurandosi che con gli aborti, anche post-partum, si potrà «vivere di nuovo in una terra vergine». Il racconto si conclude con l’intervento delle Autorità che si vedono costrette a lasciare liberi tutti gli ospiti del furgone numero 3 a causa della presenza del padre di Tim, che risulta persino laureato  in matematica all’Università di Stanford.

Scrive Antonio Benvenuti nel suo blog «Berlicche»: Chi l’ha detto che la fantascienza non ha nulla da dire sul presente?

Dal racconto di Dick emergono con forza numerosi spunti di discussione sull’argomento aborto:

  • Il confine tra pre-persona e persona è labile e può essere facilmente modificato, a seconda dei momenti; verrebbero così a mancare elementi di giudizio oggettivi e realistici, secondo la legge naturale, stabili nel tempo e non influenzabili dai cambiamenti culturali;
  • I genitori, nel racconto, sono rappresentati come individui egoisti, capaci di abbandonare i figli al loro destino; è messa in evidenza l’odierna crisi della paternità e maternità; come in molti racconti distopici, è denunciato il pensiero dominante che vede l’individuo umano sganciato dalle proprie origini;
  • L’ideologia ambientalista, nella sua componente più negativa e «ideologica», considera, come unico modo per salvare la natura e il mondo, quello di eliminare i bambini; l’aborto è pertanto inserito fra le pratiche utili per un ridimensionamento demografico mondiale e fa parte del più vasto global family planning;
  • Emerge con forza quel mutamento antropologico che oggi vediamo realizzato su vasta scala; il mondo sarebbe così composto da individui soli, dediti a conservare in ogni modo la propria vita, diffidenti e perfetti consumatori di beni imposti da altri;
  • Si fa strada poi l’idea che, una volta rinunciato al principio che la vita umana è tale in qualsiasi sua fase, sia impossibile definire la persona in modo oggettivo e universalmente accettato e che pertanto si tratti di convenzioni, come tali modificabili e piegate agli interessi dei soggetti più forti;
  • Ci si può facilmente riallacciare al problema della legalizzazione dell’eutanasia infantile per i disabili che, secondo il neonatologo John Wyatt, «snaturerebbe il senso della cura medica e la medicina si trasformerebbe in una forma di ingegneria sociale, il cui scopo è massimizzare i benefici per la società e minimizzarli per coloro la cui vita è giudicata priva di valore»; si intravvedono così tutti gli elementi tipici dell’eutanasia per gli adulti, ispirata dal senso di «pietà» e dalla svalutazione completa del dolore, incomprensibile e superabile solo con la morte dell’individuo;
  • La nascita (e la morte) sarebbero legate solo al desiderio (il foglio D firmato dai genitori), visto come «percezione assoluta», indiscutibile e massima espressione della libertà umana; viene così a mancare il senso del dono e dell’accettazione, atteggiamenti identificati come superati, vetusti e non in linea con l’epoca post-moderna dove tutto dipende dal sentire e dai suoi continui mutamenti.

Parte seconda: L’infanticidio teorizzato e realizzato. Non solo Singer

L’infanticidio (oggi chiamato aborto post-partum), filo conduttore del racconto di Dick, un tempo avrebbe suscitato orrore e sbigottimento, oggi invece sta diventando oggetto di dibattito «rispettabile», con l’introduzione di nuove pratiche ritenute «giustificabili». L’argomento è il solito: l’interruzione della vita di neonati o infanti affetti da malattie gravissime, senza speranza di miglioramento o destinati ad una vita piena di sofferenze insopportabili, è ritenuta, oltre che lecita, quasi doverosa moralmente. In questa direzione va il protocollo di Groningen, pubblicato da un gruppo di medici pediatri olandesi su The New England of Journal of Medicine il 10 marzo 2005. I neonati e gli infanti sono divisi in tre gruppi a seconda della gravità delle loro patologie e delle probabilità di sopravvivenza. Gli autori, pur riconoscendo che il dolore e le sofferenze non possono essere misurati con precisione, sostengono però che i medici e i genitori sono in grado di valutare il destino di questi bambini e che tale decisione è considerata «una buona pratica per i medici in Europa ed accettabile per quelli in USA» anche perché «la maggior parte di questi infanti muore immediatamente dopo che i trattamenti sono stati interrotti». «Detti trattamenti, specie quelli intensivi, non dovrebbero avere come finalità solo la sopravvivenza, ma anche un’accettabile qualità di vita, nel best interest del bambino». Gli autori sono però costretti a ricordare che il protocollo, anche dopo approvazione della Procura distrettuale, contiene solo linee guida generali e specifici criteri medici e non garantisce completa copertura da successive problematiche legali.

Uno dei principali sostenitori dell’infanticidio è Peter Singer, professore di filosofia presso l’Università di Princeton (New Jersey). Si tratta di un filosofo utilitarista, pioniere del movimento per i diritti degli animali, che ha messo in discussione il concetto di «sacralità della vita». Egli sostiene che «l’essere umano» non ha alcuna importanza morale di per sé. Il suo valore dipende piuttosto dal fatto che un individuo mostri i tratti cognitivi di una persona nel tempo, come la consapevolezza di sé. Così alcuni esseri umani non sono persone (nascituri, neonati disabili, ecc.) e pertanto non possiedono il diritto alla vita. Singer ha elaborato la «tesi della sostituibilità» («Replaceability argument») in cui l’eutanasia neonatale attiva, in caso di grave disabilità, è preferibile perché il bambino può essere sostituito con un «nuovo progetto creativo». Quando affronta la questione del dolore insopportabile, il filosofo australiano equipara gli uomini agli animali, affermando che potrebbe essere più grave uccidere uno scimpanzé piuttosto che un essere umano gravemente menomato. Le sofferenze poi sono viste «sempre come negative», quindi da abbattere ed evitare, e nella valutazione dell’atto eutanasico «è necessario considerare non solo la specie, razza o sesso, ma anche il desiderio dell’essere di continuare o meno a vivere e la qualità di vita che sarebbe in grado di condurre».

Un altro filosofo, Michael Tooley, americano, ora emerito dell’Università del Colorado, conosciuto per i suoi contributi ai problemi della metafisica, ha lavorato sul problema dell’aborto post-partum sostenendo che tra aborto e infanticidio non vi siano differenze di carattere morale e che entrambi siano ammissibili («Abortion and Infanticide» Oxford, 1985). L’autore inizia la sua analisi chiedendosi prima di tutto quali proprietà debbano essere possedute per avere «un serio diritto alla vita». Egli procede a dimostrare, con un generico «principio morale di base», che i feti e i neonati non possiedono le proprietà per avere tale diritto; nel suo ragionamento si spinge ad affermare che alcuni animali possono invece possedere tali proprietà ed avere pertanto diritto alla vita.

John Morley Harris, bioeticista e filosofo inglese, ha ribadito queste considerazioni difendendo gli approcci «liberali-consequenzialisti» sulle tematiche bioetiche. Harris, affrontando l’argomento aborto/infanticidio critica pesantemente e rifiuta tutte le posizioni che si presentano non mutevoli in virtù di assunti religiosi o di emozioni e sentimenti che si sono eletti a criteri morali. Il filosofo inglese invece segue una sua linea bioetica razionale teorica che lo porta a non vedere le differenze tra aborto e infanticidio. «Quando io difendo l’aborto, io non insisto nel chiamarlo interruzione di gravidanza. Io sono preparato a dire di credere nell’uccisione di bambini non nati».

Nel 2017 Jerry Coyne, biologo evoluzionista, ha affermato che, per una questione di logica squisitamente evolutiva darwiniana, uccidere un neonato o abortire un feto dovrebbe essere vista attraverso la medesima prospettiva morale (Why evolution is true – Should one be allowed to euthanize severely deformed or doomed newborns?). L’eutanasia è da lui descritta come una «azione misericordiosa», giustificata dal fatto che «i neonati non sono consapevoli della morte, non sono dotati di sensi e di sensibilità, alla pari di un bambino più grande o di un adulto, e non hanno facoltà razionali per formulare giudizi». Nel suo articolo, l’autore pone al centro della questione la filosofia, individuata come disciplina capace di dare un grande contributo a sostegno della ricerca scientifica ed esalta il protocollo di Groningen.

Qualche anno prima, nel 2013, due bioeticisti italiani che lavorano in Australia, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, sono stati autori di un articolo sconvolgente (After-birth abortion: why should the baby live? Journal of Medical Ethics) in cui sostenevano che i feti non avrebbero lo «status morale di una reale persona umana» e, di conseguenza, come è legalmente riconosciuto l’aborto intrauterino, dovrebbe essere eticamente ammissibile l’uccisione di un neonato dopo la nascita. Gli autori pongono precide indicazioni: se il bambino non ha il potenziale per avere una vita accettabile, se il benessere della famiglia è a rischio o se l’esperienza del dolore è insopportabile. Tutti questi criteri, come anche i costi (sociali, psicologici, economici), sarebbero – secondo i due bioeticisti – ragioni sufficienti per avere un aborto pre- o post-nascita anche se il feto fosse sano, eliminando pertanto qualsiasi paletto di tipo medico. Giubilini e Minerva ribadiscono poi che l’aborto dopo la nascita dovrebbe essere una buona alternativa a quello pre-nascita. In seguito a numerose reazioni, anche scandalizzate, la redazione della rivista ha deciso di difendere queste posizioni: «lo scopo del nostro giornale non è quello di affermare la verità o promuovere qualche legge morale, ma piuttosto di presentare opinioni ragionevoli basate su premesse diffusamente accettate».

Nel 2017 gli stessi autori hanno pubblicato un saggio intitolato «L’aborto post-nascita» (Centro Einaudi) dove hanno potuto completare e «allargare» le precedenti considerazioni. «La questione della liceità morale dell’aborto post-natale sembra essere difficilmente separabile da quella della liceità morale dell’aborto. Quanti ritengono l’aborto moralmente lecito sembrano essere costretti ad accettare anche la liceità dell’aborto post-natale e le argomentazioni di quanti sono a favore dell’aborto ma si oppongono strenuamente a quello post-natale sono filosoficamente deboli. Allo stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche e in base ad un ragionamento filosofico rigoroso, è difficile trovare argomenti validi in base a cui si possa sostenere che il passaggio dallo stato intra-uterino a quello extra-uterino marchi una netta differenza morale (anche se, come abbiamo ripetuto più volte, questa convenzione è probabilmente molto utile da un punto di vista legale). Allo stesso modo, non sembra esserci una pietra miliare dello sviluppo fetale che abbia anche rilevanza morale per la distinzione fra persona e non persona. Il ragionamento dei due bioeticisti italiani porta a giustificare l’aborto post-partum con la scusa del «miglior interesse» del bambino. Nonostante la coerenza del ragionamento, le premesse e le conclusioni non sono assolutamente condivisibili perché di fatto aprono ad una vera e propria eutanasia neonatale.

Un altro autore, H.T. Hengelhardt, filosofo, biologo, medico statunitense di origini tedesche, ha sostenuto che, non evidenziando nell’embrione e nel feto quelle caratteristiche proprie della persona, come l’autocoscienza, la razionalità e il senso morale, è possibile dividere gli esseri umani in persone e non-persone; tutti sarebbero solo membri della specie umana, ma non tutti avrebbero lo status in sé e per sé di partecipare alla comunità morale delle persone umane («The Foundation of Bioethics»).

Parte terza: Indisponibilità della vita contro desiderabilita come criterio assoluto

Per tentare di rispondere a queste linee di pensiero, è necessario valutare la questione della vita umana «alla sua sorgente», «a monte».  Non è possibile infatti, pur attraverso rigorosi ragionamenti filosofici, distinguere la vita pre- da quella post-partum. Si tratta di vita umana tout court. O accettiamo che la vita umana è la medesima dal concepimento fino alla morte, dato che la persona ha un suo unico DNA, ha una sua unica personalità, ha una sua unica capacità di comprensione e di comunicazione, oppure rischiamo di «scendere a valle», immergendoci in migliaia di classi e sottoclassi che tentano (inutilmente) di definire l’uomo e il suo valore vitale e che sono inevitabilmente mutevoli e soggette a possibili strumentalizzazioni (secondo la legge del più forte).

Interessanti sono le argomentazioni attorno al questo tema sviluppate magistralmente nel Manuale di Bioetica volume 1 dal prof. Elio Sgreccia. Il primo dato inoppugnabile, fornito dalla genetica, è che dal momento della fertilizzazione si forma lo zigote, ovvero una nuova realtà biologica, che porta con sé un nuovo progetto-programma individualizzato, che inizia ad operare come una nuova unità, intrinsecamente determinata. È questo genoma che identifica l’embrione unicellulare come biologicamente umano e ne specifica l’individualità. Il processo di sviluppo è continuo, graduale, unidirezionale e coordinato. Pertanto l’individuo umano è biologicamente tale fin dall’inizio e non esistono linee di confine prima delle quali parliamo solo di cellule. Il nuovo individuo è autonomo e cresce secondo un suo progetto, indipendentemente dalla madre. Anche le teorie evoluzionistiche di matrice darwiniana, dove prima dell’uomo c’erano solo forme di vita vegetale o animale, sono facilmente contrastabili in quanto nell’embrione non si trova in nessun istante un dinamismo biologico di tipo vegetale o di essere indifferenziato di specie diversa, smentendo la distinzione fra essere umano e umanizzato. Cadono quindi anche tutte le soglie e i livelli che determinerebbero uno stadio di evoluzione, oltre il quale finalmente si potrebbe parlare di “uomo”. Ne sono testimonianza anche le difficoltà in ambito giuridico nell’individuare una univoca definizione di persona ai primi stadi di sviluppo.

Poiché l’argomento «essere umano, individuo umano, unico ed irripetibile» non sembra, da solo, essere sufficiente per superare le obiezioni relative al valore della vita nascente, è necessario entrare in un ambito più complesso: quello della relazione. Diversi autori (Commissione Warnock, Mc Laren, Grobstein, Ford, Goldening, Donceel, Shea, White) sostengono che l’embrione non può essere definito persona umana perché non ha ancora sviluppato organi o apparati (la cosiddetta «stria primitiva»,  sistema nervoso, terminazioni sensoriali, capacità uditive e vocali, ecc.) che lo pongano in relazione con gli altri e con il mondo esterno. La capacità di comunicare e di relazionarsi sarebbe un fattore discriminante per definire, o meno, l’essere come persona. In realtà tutti gli studi di embriologia e di neonatologia hanno individuato una comunicazione, via via sempre più complessa ed elaborata, tra madre ed embrione/feto. All’inizio, si tratta di scambio di sostanze chimiche finalizzate ad un’azione/reazione precisa (necessità di glucosio, attivazione di proteine con finalità metabolica, blocco della produzione di ormoni, ad esempio), poi il dialogo si amplifica attraverso nuove modalità, tuttora oggetto di nuovi studi (reazioni del feto agli stati d’animo della madre, ad esempio). Sgreccia afferma: «La tendenza a sminuire lo statuto biologico dell’embrione sì da non considerarlo individuo umano, se non a partire da alcuni momenti arbitrariamente fissati, si associa al tentativo di non considerarlo persona umana».  Esistono correnti filosofiche di tipo behaviorista che, oltre a negare la metafisica, affermano come unico criterio di riconoscimento della personalità o individualità umana l’esame del comportamento (behavior). Poiché nell’embrione/feto non sembrerebbe possibile cogliere un comportamento umano, almeno fino ad un certo punto, si utilizza come criterio oggettivo l’atteggiamento della madre, ovvero la sua accettazione o il suo rifiuto. La madre però, a causa di reazioni biologiche attivate in gravidanza (ormoni, ipofisi e ipotalamo), è quasi costretta a riconoscere la presenza del figlio, a prescindere dal suo consenso (relazione sociale). Va quindi affermato con forza che «non è la relazione che costituisce la realtà del soggetto, ma è la realtà del soggetto che rende possibile la relazione interpersonale».

Un altro aspetto interessante, valorizzato dal prof. Sgreccia, è quello relativo al riconoscimento dell’immagine umana. La percezione della personalità dipenderebbe, secondo alcuni psicologi, dal riconoscimento di un’immagine umana: i genitori nell’attesa di un figlio creano di lui un’immagine fittizia (altezza, colore dei capelli e degli occhi) e soprattutto il riconoscimento inizia quando viene attribuito un nome. Si entra così nel relativismo: l’oggetto è costituito dalla conoscenza, esiste solo perché è conosciuto, negandone il suo valore oggettivo. In pratica, con questa mentalità, il figlio esiste se la madre lo desidera e se delinea il suo profilo, rendendolo umano, cioè persona. In caso contrario, esso rimarrà un semplice «grumo di cellule». Lo stesso principio può essere esteso ai bambini nati con gravi problemi o deformità: l’immagine che si crea di essi non permette di definirli «persone».

Altra definizione capziosa e vaga è il concetto di «qualità della vita». Nonostante molte teorie, a tutt’oggi, non è possibile definire con precisione il limite al di sotto del quale la vita avrebbe un così basso livello qualitativo da giustificare la sua interruzione. In realtà – afferma Sgreccia – è una distinzione di tipo «selettivo» in cui è possibile l’introduzione di un principio razzista. Il problema fondamentale è legato alla relativizzazione ontologica dell’uomo, non più visto come creatura, «immagine e somiglianza di Dio», bensì come «oggetto» disponibile e manipolabile da altri.

Vi è poi un ulteriore argomento più complesso: le intenzioni soggettive (decisione della madre o dei coniugi) non possono non tener conto della struttura oggettiva dei propri atti. Ad esempio, l’atto coniugale, che può generare un figlio, non può negare questa sua intrinseca possibilità strutturale. Qualsiasi azione in senso contrario (aborto) si configura come la negazione di questa possibilità. Del resto la Lettera Enciclica di San Paolo VI Humane Vitae scritta nel 1968, aveva già affrontato il problema (peraltro relativo solo alla contraccezione) affermando che qualsiasi atto coniugale «deve rimanere aperto alla trasmissione della vita» e che «l’uomo non può rompere, di sua iniziativa, la connessione inscindibile tra il suo significato unitivo e procreativo».

È paradossale in questa nostra epoca dovere riaffermare, con forza, l’ovvio, eppure l’aborto sia pre- che post-partum sembrano voler offuscare questa verità. Infatti, in ogni dibattito sull’interruzione volontaria di gravidanza si parla di tutto: della donna, della coppia, della scelta, delle difficoltà economiche e psicologiche, del «momento sbagliato». Il nascituro, l’embrione, il feto, il neonato, il bambino non sono mai inseriti come oggetto della controversia: è come se non esistessero. Ed anche la terminologia che si riferisce a loro è sempre più «tecnica» (prodotto del concepimento, blastocisti, cellule embrionali, ecc), con lo scopo evidente di privarli del profilo morfologico umano che li definisce.

Per rispondere esaurientemente a tutte le posizioni esaminate, è necessario riconoscere che la vita umana è un dono di Dio e, essendo ricevuta da «un Altro», non è disponibile secondo una logica soggettivistica e umorale. La vita è un bene universale e va sempre riconosciuto e tutelato. Questo genera la libertà dell’uomo, ovvero la sua capacità di decidere positivamente per sé e non può mai anteporsi all’esperienza esistenziale, perché «se non si è vivi non si può essere liberi».

Se la Verità non esiste, se Dio non esiste, allora tutto è permesso.

Fonti:

PRIMA PARTE: https://www.vanthuanobservatory.org/persone-pre-persone-non-persone-uno-studio-di-stefano-martinolli-parte-prima/?fbclid=IwAR12xM5esk3ffMGChXbjeAi4EozGERj7a9UAYSgT8eAade8hBlARVq0xYPo

SECONDA PARTE: https://www.vanthuanobservatory.org/linfanticidio-teorizzato-e-realizzato-non-solo-singer-uno-studio-di-stefano-martinolli-parte-seconda/?fbclid=IwAR2_AtYLcJnEbJp_8Re6XrC3mCYzdIW_Nk9fIk6amkqAdQQ0UCrtpg32rYo

TERZA PARTE: https://www.vanthuanobservatory.org/indisponibilita-della-vita-contro-desiderabilita-come-criterio-assoluto-uno-studio-di-stefano-martinolli-parte-terza/?fbclid=IwAR3XCDaN0wFPXbFQ0mkeMHym0dZ0bX92HIh9JXsZuqBNYQykZKSmHInXafo

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