Ettore Vernazza: un santo per gli incurabili

…È tutto l’ospedale moderno che nasce così, anche in una città ricca, di mercanti e navigatori, come la potente e discorde Repubblica marinara di Genova.

Qui, pochi anni prima di Cristoforo Colombo, nacque, nel 1447, Caterina Fieschi. Sua madre si chiamava Francesca de Negri, il padre era Giacomo Fieschi, già viceré di Napoli e membro del Consiglio degli Anziani della Repubblica. Caterina, nobile, ricca e bella, sposò, a sedici anni, in un matrimonio combinato, un membro della potente famiglia degli Adorno.

Ma ben presto iniziò a sfuggire la vita mondana, gli ambienti che le erano più consoni per nascita, e a dedicarsi ai poveri e ai malati. All’epoca Genova possedeva un ospedale che sarebbe stato per secoli il più importante della città, il Pammatone, fondato dal giurista Bartolomeo Bosco, nel 1420, e da lui affidato alla Congregazione della Beata Vergine della Misericordia.

Come nota il De Negri, nella sua Storia di Genova, Bosco fu il classico esempio del sorgere di “forme di carità pubblica, ispirate alla spiritualità cristiana”. Fu, inoltre, uno dei tanti benestanti che in epoca medievale e rinascimentale donarono parte dei loro averi per il servizio dei bisognosi.

Spesso questi benefattori erano sovrani, o regine, che fondavano o mantenevano xenodochi, nosocomi, ricoveri di vario genere. Talora erano ricchi banchieri o mercanti o semplici artigiani, che volevano contribuire al bene della loro città, o che nello stesso tempo desideravano scontare dinanzi a Dio, con tali gesti, guadagni peccaminosi (ottenuti con l’inganno, o con l’usura). Tra questi si possono ricordare, andando più indietro nel tempo, il francese Verimboldo, un usuraio morto a Cambrai nel 1150 e il mercante fiorentino Folco Portinari.

Il primo aveva condotto una vita piuttosto agiata, mentre la moglie si era dedicata a nutrire i poveri. Alla morte di questa, Verimboldo “si ritirò in un monastero con i suoi quattro figli, promuovendo un numero sempre maggiore di opere di beneficenza, mantenendo 25 ospiti nella abbazia di Saint-Hubert, pagando personalmente la manutenzione di un ponte ed elargendo una dote ad un ospedale; ridotto in miseria terminò i suoi giorni tra i poveri e al servizio dei poveri”[1].

Il secondo, noto anche come il padre della Beatrice amata da Dante Alighieri, fu il fondatore dell’importantissimo ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova. Egli lo fondò nel 1288, dietro suggerimento della sua domestica, Monna Tessa, nel clima di grande fervore religioso e di carità cristiana della Firenze del Trecento, quando era ancora vivo il ricordo della venuta fiorentina di Francesco d’Assisi. Monna Tessa, infatti, era una terziaria francescana, fondatrice delle Oblate Ospitaliere di Santa Maria Nuova, che furono per secoli le infermiere laiche e volontarie dell’ospedale fondato dal Portinari. Le Oblate di Monna Tessa – che avevano nello stemma la frase di Cristo: “Fui Infermo e mi visitasti” – pulivano e fasciavano le piaghe dei malati, facevano e disfacevano i giacigli, somministravano cibi e pozioni di erbe, alloggiavano i pellegrini di passaggio verso Roma. Insomma, tutto quello che fecero per secoli le infermiere, prima dell’avvento graduale di una sempre maggior specializzazione, da loro abbracciata con entusiasmo[2].

Ebbene, tornando a Caterina, costei venne presto nominata Rettore dell’Ospedale Pammatone: ivi prese dimora, abbandonando i suoi ricchi palazzi. Ella redigeva la contabilità; provvedeva alle necessità dei ricoverati e del personale; e grazie alle sue importanti conoscenze, e al suo fascino spirituale, riusciva ad attirare aiuti, donazioni e il sostegno di importanti personalità della città. Inoltre scriveva di argomenti spirituali, in particolare Il trattato del Purgatorio[3].

Un giorno, abbracciando una terziaria francescana appestata, Caterina rimase contagiata, ma riuscì ugualmente a sopravvivere per alcuni anni, sino alla morte, avvenuta nel 1510.

Il suo nome sarebbe divenuto assai famoso, come quello dell’altra santa omonima, Caterina da Siena, consigliera di papi ma anche solerte infermiera nel lebbrosario di san Lazzaro, nella sua città. Caterina, che venne nominata patrona di Genova e patrona degli ospedali italiani, fu maestra per varie personalità influenti della città. Tra queste il notaio, anch’egli genovese, Ettore Vernazza, fondatore della Compagnia del Divino Amore. Il Vernazza era un ricco e potente notaio genovese del XV secolo, rimasto vedovo, che decise di dedicare la sua vita a Dio e al prossimo, insieme a personaggi che diverranno dogi, senatori, papi. Oltre che alla carità, costoro si dedicavano a contrastare la generale decadenza della Chiesa, cui appartenevano con molta devozione, propria di quell’epoca.

In particolare, l’azione di instancabile organizzatore del Vernazza fu quella di creare, per primo in Europa, i cosiddetti “Ospedali degli Incurabili”, prima a Genova (1497), poi a Roma (1515) e Napoli (1517), e di conseguenza: Palermo, Firenze, Bologna, Savona, Brescia, Padova, Venezia[4].

Chi erano, a quest’epoca, gli “incurabili”? Erano i sifilitici. La sifilide era entrata in Italia, probabilmente, al seguito degli eserciti di Carlo VIII e delle migliaia di meretrici che lo accompagnavano. Si trattava di una malattia trasmessa per contagio sessuale, che colpiva prima le parti intime, per poi estendersi a tutto il corpo, sino ad intaccare la psiche e il sistema neurologico. “Propiziata da Venere – scrive il Cosmacini –, è micidiale come Marte”. Fu la lebbra, o meglio, la peste dell’età rinascimentale. Era un male dilagante, dichiara un testimone dell’epoca: “Le persone si coprivano di grandi vesciche, pustole e ascessi su tutto il corpo ed erano talmente trasformate che guardarle era cosa orribile e spaventosa”.

Gli ospedali, compreso il Pammatone, rifiutavano questi “incurabili”, maleodoranti, contagiosi e fetidi. Vernazza, invece, si dedicò proprio a loro e invitò a guardarli “come se fossero non uomini, ma quasi portatori in sé della persona stessa di nostro Signore”.

Egli fu sostenuto, in quest’opera, a Genova, dalle sue influenti relazioni; a Napoli dalla nobile catalana Maria Lorenza Longo, della quale fu saggio ispiratore[5]; a Roma dal Papa Leone X, che gli mise a disposizione l’antico Ospedale di san Giacomo in Augusta, allora fatiscente e bisognoso di completa ristrutturazione, dotandolo di privilegi fiscali ed economici, e persino offrendo “l’indulgenza plenaria per quanti avessero versato almeno dieci ducati d’oro per la cura degli infermi”.

Instancabile nella preghiera e nell’azione, questo notaio che avrebbe potuto fare ben altra vita, si occupava anche degli orfani, dei poveri vergognosi, degli schiavi da riscattare, finché alla fine della vita, fu chiamato a costruire il Lazzaretto di Genova, alla foce del Bisagno.

Vernazza conosceva bene la peste, implacabile nemica sempre pronta ad infiltrarsi in una città portuale come la sua, ed era proprio a causa di questa che aveva conosciuto la Compagnia del Mandilletto e Caterina stessa. Il lazzaretto, voluto anche dal doge, venne edificato, soprattutto grazie alle ricche donazioni di personaggi altolocati, ma anche di un’umile benefattrice, di un calzolaio di nome Paolo de Soprano, del Banco di San Giorgio e di tanti altri generosi donatori privati.

“Alla Compagnia della Carità, una nuova istituzione scaturita dal genio cristiano di Vernazza e che Leone X ha nel frattempo approvato, il 28 gennaio 1520, con la bolla Illius qui charitas est, viene affidato il compito di sovrintendere al completamento dei lavori e di convogliare altre eventuali aliquote, derivate da lasciti pubblici, nella pentola comune. Insomma, quando, all’inizio dell’estate del 1524, la grande Eguagliatrice proietta l’ombra della sua falce sui cieli d’Italia, le strutture ospedaliere a Genova sono ormai pronte per il collaudo. Ed è pronta anche, per riprendere l’espressione di padre Cassiano, la principale delle vittime sacrificate nel simbolico olocausto. Si chiama Ettore Vernazza. Ha cinquantaquattro anni, tre figlie claustrali e una instancabile storia di bene alle proprie spalle”.

Morì chino come fra Cristoforo sui bubboni dei suoi malati, assistendo i quali contrasse la peste. Fu testimone, come tanti, del carattere soprannaturale della carità di Cristo[6].

da: Francesco Agnoli: Case di Dio e ospedali degli uomini. Perchè, come e dove sono nati gli ospedali (Fede & Cultura)

 


[1] M. Mollat, op. cit., p. 116.

[2] Le oblate di Monna Tessa hanno ricevuto il Fiorino d’oro, simbolo della città, nel 2003. Oltre ai due personaggi citati si possono ricordare altri laici fondatori: sant’Omobono, patrono di Cremona, morto nel 1197, che donò i suoi beni per l’assistenza ai poveri; il ciabattino san Raimondo Zanfogni, detto Palmerio, di Piacenza (morto nel 1200), fondatore di case per nullatenenti e di un ospizio per malati e bambini abbandonati. Citiamo anche san Gerardo Tintori (morto nel 1207), a cui è dedicato l’attuale ospedale di Monza, figlio probabilmente di tintori: utilizzò il cospicuo patrimonio paterno per fondare, nel 1174, un ospedale, tramite un accordo col Comune e il Capitolo del Duomo (l’ospedale fu diretto da lui stesso, con l’ausilio di un gruppo di laici legati da vita comune ed impegno al celibato); san Gualtiero da Lodi (morto nel 1223), che dopo aver lavorato a Piacenza presso l’ospedale di Raimondo, fondò un ospedale a Lodi e uno a Vercelli, con il sostegno delle locali autorità pubbliche.

[3] P. Lingua, Caterina degli ospedali, Ed. Camunia, Milano, 1986. Benedetto XVI ha ricordato santa Caterina in un’udienza pubblica, il 12 gennaio 2011, affermando, tra le altre cose: “Il luogo della sua ascesa alle vette mistiche fu l’ospedale di Pammatone, il più grande complesso ospedaliero genovese, del quale ella fu direttrice e animatrice. Quindi Caterina vive un’esistenza totalmente attiva, nonostante questa profondità della sua vita interiore. A Pammatone si venne formando attorno a lei un gruppo di seguaci, discepoli e collaboratori, affascinati dalla sua vita di fede e dalla sua carità. Lo stesso marito, Giuliano Adorno, ne fu conquistato tanto da lasciare la sua vita dissipata, diventare terziario francescano e trasferirsi nell’ospedale per dare il suo aiuto alla moglie. L’impegno di Caterina nella cura dei malati si svolse fino al termine del suo cammino terreno, il 15 settembre 1510. Dalla conversione alla morte non vi furono eventi straordinari, ma due elementi caratterizzarono l’intera sua esistenza: da una parte l’esperienza mistica, cioè, la profonda unione con Dio, sentita come un’unione sponsale, e, dall’altra, l’assistenza ai malati, l’organizzazione dell’ospedale, il servizio al prossimo, specialmente i più bisognosi e abbandonati. Questi due poli – Dio e il prossimo – riempirono totalmente la sua vita, trascorsa praticamente all’interno delle mura dell’ospedale”.

[4] Nel 1517 Gaetano da Thiene, amico del Vernazza, “fondatore dell’ordine dei Teatini e Santo, riuscì a farsi assegnare un terreno poco distante dalla chiesa dello Spirito Santo, sul quale egli costruì un ‘ospissio’ in legno, al fine di dare accoglienza a uomini e donne affetti da quello che veniva allora chiamato il morbo gallico od anche mal francese, quindi i malati di sifilide. Con i proventi di una questua in seguito autorizzata dal Consejo dei Diese e con il generoso sostegno economico offerto dalle nobildonne Maria Malipiero e Marina Grimani, nel 1522 Gaetano da Thiene riuscì ad intraprendere la costruzione in muratura di un più vasto complesso ospedaliero, paragonabile per mole a quello dei Mendingoli (ma sorto con un secolo di anticipo rispetto a quest’ultimo), lungo la fondamenta delle zattere allo Spirito Santo, prospiciente il canal de la Zueca… La partenza da Venezia di Gaetano da Thiene diede alla Repubblica l’occasione per porre al vertice dell’‘ospeal’ il nobiluomo Girolamo Miani (poi divenuto anch’esso Santo), che a sua volta già aveva istituito due asili per fanciulli abbandonati (a San Bastian e a San Rocco) ed un ‘ospeal’ per i febbricitanti, detto all’epoca il Bersaglio. Per poter meglio accudire sia gli orfani che i malati, Girolamo Miani chiese ed ottenne nel 1527 di riunire in questo ‘ospeal’ gli orfani delle due case (che continuarono ad essere accolti fino alla chiusura). Per meglio tutelarne l’attività e facilitare i lasciti testamentari, nel 1538 il Consejo Mazor sottoponeva l’ospeal allo juspatronato del Dose, affidandone nel contempo il governo ad un apposito comitato, formato da nobiluomini e da cittadini, composto da non meno di dodici e non più di ventiquattro membri. Nell’ospeal profusero la loro opera di carità anche Ignazio di Loyola e Francesco Saverio (entrambi santi), mentre nei secoli che seguirono la gestione venne dapprima affidata ai chierici di san Gaetano, poi ai gesuiti e infine ai chierici regolari di Somasco. L’assistenza ai malati era inizialmente effettuata da dodici nobildonne per le donzelle e le inferme, da nobiluomini per gli infermi; più tardi da personale salariato cui soprintendevano i Governatori” (http://www.veneziamuseo.it/TERRA/Dorsoduro/Gregorio
/greg_osp_incurabili.htm; Alvise Zorzi, La Repubblica del leone, Rusconi, Milano, 1979, pp. 324-325).

[5] “Di nobile famiglia catalana, Maria Requenses sposò nel 1483 Giovanni Longo, funzionario di Ferdinando II d’Aragona, e nel 1506 seguì il marito a Napoli: rimase vedova poco tempo dopo, nel 1509. Affetta sin dalla giovinezza da una forma di artrite reumatoide, nel 1516 si recò in pellegrinaggio al santuario della Santa Casa di Loreto, per impetrare la grazia della guarigione: guarita, fece voto di dedicare il resto della sua vita alla cura degli infermi ed entrò nel Terz’ordine secolare di san Francesco assumendo il nome di Maria Lorenza. Tornata a Napoli, iniziò a prestare servizio presso l’ospedale di San Nicola, presso il Castel Novo, ma poi ebbe l’idea di fondarne uno nuovo per soddisfare le richieste dei sempre più numerosi infermi. Grazie al sostegno dei suoi potenti amici, fondò l’ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, presso Porta San Gennaro, inaugurato il 23 marzo del 1522: per intercessione del vescovo di Chieti Gian Pietro Carafa, l’ospedale ottenne numerosi privilegi dai papi Leone X ed Adriano VI; i suoi statuti vennero approvati da Papa Clemente VII con la bolla Ex supernae dispositionis dell’11 dicembre 1523. La Longo resse l’ospedale come Rettora per dieci anni” (fonte: Wikipedia). Inoltre la Longo organizzò un corpo di 33 infermiere che dovevano dedicarsi ad una struttura con 600 letti, nella quale venivano assistiti oltre ai sifilitici, malati di asma, sciatica, deliranti e anche le donne incinte e le prostitute. Su una pietra all’entrata dell’ospedale, era scritto: “Non importa che tu sia ricca o povera, se sei gravida bussa a questa porta e ti sarà aperto”.

[6] A. Massobrio, Ettore Vernazza. L’apostolo degli incurabili, Città Nuova, Roma, 2002; Giorgio Cosmacini, Le spade di Damocle, Laterza, Bari, 2006, p. 70.

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Autore: Francesco Agnoli

Laureato in Lettere classiche, insegna Filosofia e Storia presso i Licei di Trento, Storia della stampa e dell’editoria alla Trentino Art Academy. Collabora con UPRA, ateneo pontificio romano, sui temi della scienza. Scrive su Avvenire, Il Foglio, La Verità, l’Adige, Il Timone, La Nuova Bussola Quotidiano. Autore di numerosi saggi su storia, scienza e Fede, ha ricevuto nel 2013 il premio Una penna per la vita dalla facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione tra gli altri con la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana). Annovera interviste a scienziati come  Federico Faggin, Enrico Bombieri, Piero Benvenuti. Segnaliamo l’ultima pubblicazione: L’anima c’è e si vede. 18 prove che l’uomo non è solo materia, ED. Il Timone, 2023.

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