L’intervista che Papa Francesco aveva concesso qualche settimana fa ad Eugenio Scalfari è stata tolta dal sito della Santa Sede. Lo ha annunciato un paio di giorni fa Padre Lombardi, portavoce della sala stampa vaticana. Ecco le motivazioni: «L’intervista è attendibile in senso generale, ma non nelle singole valutazioni: per questo si è ritenuto di non farne un testo consultabile sul sito della Santa Sede. In sostanza, togliendola si è fatta una messa a punto della natura di quel testo. C’era qualche equivoco e dibattito sul suo valore. Leggi tutto “Il Papa misurato”
Autore: Tommaso Scandroglio
L’illogico Odifreddi manca di coerenza
Fino all’altro ieri l’aborto era un delitto, ieri una condotta da tollerare, oggi un diritto. E domani? Per scrutare il futuro in modo scientifico cosa c’è di meglio che chiederlo ad un matematico come Piergiorgio Odifreddi? Questi preconizza che l’aborto debba diventare un dovere; sì, un dovere sociale. In un post del 9 dicembre pubblicato nel suo blog, Leggi tutto “L’illogico Odifreddi manca di coerenza”
Lo chiameremo Facebook. E il bebè diventa oggetto
“Hai Facebook? “. “Certo che ce l’ho. Mio figlio è Facebook”. Il verbo “essere” non è un refuso di stampa ma è la vera e propria notizia. Nel giro di pochi mesi due coppie hanno chiamato il proprio figlio Facebook (qualche tempo fa nacque un bimbo di nome Yahoo).
La prima coppia è egiziana: si tratta di un omaggio al social network più famoso al mondo il quale ha reso possibile la coordinazione on line tra i vari gruppi di rivoltosi che hanno rovesciato il governo di Mubarak.
La seconda è brasiliana. In quello spazio virtuale si sono conosciuti e lì è sbocciato il loro amore fatto di milioni di bytes. In realtà il figlio di quest’ultima coppia si chiama esattamente Facebookson, cioè figlio di Facebook. Questo perché la preoccupazione degli ufficiali dell’anagrafe non era tanto rivolta al cattivo gusto dei genitori, ma alla possibilità che il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, potesse fare loro causa per questioni di copyright sul marchio. Il risultato è che questo bebè sembra essere più figlio di Zuckerberg che di mamma e papà.
Qualche considerazione. Innanzitutto ci mettiamo dalla parte di queste povere creature che dovranno per tutta la vita spiegare agli altri perché si portano appresso un simile castigo di nome. Soprattutto quando Facebook forse non esisterà più, dato che queste invenzioni informatiche durano meno di un governo della vecchia repubblica (chi si ricorda ad esempio di My Space, social network che guadagnò cifre da capogiro e che usavano tutti?). In secondo luogo non è proprio il massimo della vita chiamarsi “Annuario scolastico”, perché questo è la traduzione letterale del termine “facebook”. Infatti Zuckerberg prese spunto da questi annuari, nei quali ci sono tutte le foto degli studenti di un liceo o di un’università, per inventare la sua piattaforma. Infine è indubbio che i due piccoli diventeranno loro malgrado testimonial della creazione di Zuckerberg, spot viventi di questo prodotto.
E qui sta il punto. Si è deciso di assegnare un nome ad un essere umano che identifica un prodotto. E’ un altro segnale della cosificazione della persona (per la proprietà transitiva va da sé che ora agli animali diamo nomi cristiani). In particolare – e le pratiche di fecondazione artificiale e clonazione comprovano ciò – il figlio è percepito come “bene mobile”, oggetto magari di lusso che arrederà l’esistenza. Nuovo il figlio, nuovo il nome dunque a designare un “articolo” che prima non c’era. E se nascesse a queste coppie un secondo figlio, logica vorrebbe che si assegnasse loro il nome di Facebook.2, la versione avanzata. La generazione è ormai sottoposta ad update.
Ma questa vicenda dai tratti tragicomici è paradigmatica anche perché ci dà la misura di quanto stia accelerando il processo di scristianizzazione. Siamo passati in poco tempo dai santi ai numi tutelari virtuali. Fino a ieri si poneva al neonato un nome di un santo. Farlo era come vincolare quel cittadino del Paradiso a fare bene il proprio dovere di santo e cioè a proteggere il piccolo, nella speranza poi che potesse infondergli un po’ delle sue virtù. Appena venuti su questa terra già si pensava alla patria celeste, già si sottoscriveva con l’assegnazione del nome del santo un’ipoteca per il Cielo. Il santo-beato-martire di cui portiamo il nome, nella prospettiva cristiana, è un membro di un club esclusivo assai influente per gli affari terreni e il cui aiuto dunque deve essere sempre invocato. I piccoli Facebook a chi potranno mai rivolgersi? A Zuckerberg? E poi quando festeggiare l’onomastico? Il giorno di fondazione di Facebook?
Inoltre la prassi consolidata, almeno fino all’altro ieri, di scegliere un nome comune privilegiava più la tradizione che l’eccentricità. Il nome non veniva scelto perché di moda o perché “suona bene” o perché originale, bensì perché era il concentrato di una cultura sapienziale vecchia di secoli se non di migliaia di anni. Innanzitutto a motivo del significato del nome stesso: “Emanuele” Dio con noi, “Alessandro” protettore degli uomini, “Riccardo” audace, “Mirella” degna di ammirazione. Ora, ad essere sinceri chiamarsi “faccia-libro” è davvero assai svilente. In secondo luogo l’ultimo arrivato in casa portava in genere un nome che era appartenuto ad un suo ascendente, al fine di perpetuare in lui lo spirito di una famiglia. Un segno della continuità delle tradizioni familiari. Il nome così diventava intriso di affetto, pronunciarlo era evocare la stessa persona del nonno o dello zio che non c’era più.
La notizia dei genitori che infliggono questa condanna anagrafica ai figli si sposa bene con un’altra notizia simile proveniente dall’Inghilterra: lì si può cambiare nome al costo di 33 sterline (consigliamo ai piccoli Facebook di trasferirsi in Inghilterra appena possibile). Nel giro di un anno c’è stato un boom di richieste, con un’impennata del 30%. I motivi sono dei più vari: cercare di sfuggire ai creditori e al fisco, anglizzare il proprio nome se straniero, fondere in unico cognome quello della moglie e del marito. Ma ovviamente ci sono anche ragioni ben più bizzarre. Tra queste svettano gli omaggi allo star system. E così si contano 30 Michael Jackson, 5 Amy Winehouse, 15 Wayne Rooney e 5 David Beckham. Una sorta di sbattezzo a favore di nuovi santi popolari non canonizzati. Già era accaduto al tempo dei futuristi tra i cui adepti si trovavano figli chiamati Ascensore o, con meno ardimento, Luce. Anche i comunisti in spregio alla tradizione cattolica chiamavano i propri pargoli ad esempio Primo, Secondo, Terzo ed Ultimo: meglio i numeri che i beati.
Ma perché cambiare nome? Da una parte questa moda è espressione delle derive di un certo capitalismo libertario: come si cambia auto così il nome, se è superato, se c’è ne uno più in voga, se è più trendy. Ma facendo così il nome diventa un gadget, un accessorio e perde la sua specificità, cioè l’individuazione della persona, la caratterizzazione semantica di un’unicità.
D’altro canto tale prassi è forse sintomatica del fatto che non vogliamo più accettare di essere chi siamo. E’ segno che l’identità è percepita come un vincolo, un fardello di cui liberarsi. Se posso decidere di cambiare con la chirurgia plastica la mia faccia (la parte più identificativa di noi), il mio sesso, se posso scegliere di avere un figlio con gli occhi celesti e i capelli color dell’oro, perché non decidere di mutare ciò che nominalmente mi identifica? Sbarazzarsi del vecchio, non scelto da me, per far posto al nuovo. E’ solo il soggetto l’unico artefice della sua vita: l’imposizione da parte dei genitori del nome viene percepita come ostacolo alla propria libertà. Nasce l’autonomastica, l’autodeterminazione onomastica.
Da La Bussola Quotidiana , 24 ottobre 2011
Trans e coppie gay, le priorità di Bersani & C.
Equality Italia è un’associazione che secondo statuto “si adopera per il superamento di ogni discriminazione e disparità”. Tanto per non discriminare tra le discriminazioni, Equality stila una serie ampia di ragioni che potrebbero essere motivo di trattamenti non equi: età, sesso, religione, etnia, etc. Ma il più importante riguarda “l’orientamento sessuale e identità di genere”. Diciamo che è la sua bandiera, tanto che lo slogan più citato nel sito è “La nostra identità di genere? Umana”.
Ad un anno di distanza dalla fondazione si è tenuto sabato scorso il suo primo congresso. L’associazione è neonata secondo l’anagrafe ma può già vantare vecchi e noti amici. Ed ecco allora giungere in occasione di questo congresso i saluti di alcune tra le più importanti istituzioni e personalità politiche. Spigoliamo qua e là. Donato Marra, Segretario generale della Presidenza della Repubblica, ricorda l’ “impegno profuso” da Napolitano nel “tutelare la parità di genere”. Gli fa eco Walter Veltroni: “condivido il rifiuto di quella politica che pensa di poter affrontare le questioni relative alla vita, agli affetti e ai diritti delle persone omosessuali, guardandole con la lente deformante dell’ideologia”. Sulla stessa linea ovviamente Nichi Vendola che con un tono un po’ più poetico ricorda che “il filo spinato sui sentimenti delle persone può essere spezzato”.
Ma forse l’intervento più significativo è quello di Pierluigi Bersani: “tra i punti principali del programma con cui il PD si presenterà di fronte agli elettori saranno contenuti impegni chiari: penso all’approvazione di una legge contro l’omofobia e la transfobia, al riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso … al varo di una buona legge sul testamento biologico che impedisca improprie forzature contro i diritti del malato.” E conclude: “Tutti questi temi vanno tenuti assieme in un grande capitolo che afferisce all’idea che noi abbiamo dell’Italia di domani”.
Questa brevissima carrellata del pensiero rosso-levantino parla chiaro. Se alle prossime elezioni vince il Partito Democratico le priorità non saranno costituite dalla tutela della vita, della famiglia, della salute, della libertà di educazione. Nemmeno in modo più prosaico dal rinvenimento di soluzioni per uscire dalla attuale crisi economica. L’Italia ha bisogno di ben altro. Le sue urgenze sono prima di tutto sanzioni penali maggiori per chi insulta o reca lesioni personali ad un transessuale. Perché è cosa nota che l’eterosessuale soffre meno di un omosessuale quando riceve percosse e offese verbali.
In secondo luogo è ormai scoccata l’ora di parlare di “matrimonio” omosessuale o comunque di riconoscimento giuridico delle coppie composte da due lui o due lei. Si badi bene: un bel salto propone Bersani, dato che ad oggi il nostro ordinamento non riconosce neppure le coppie di fatto eterosessuali.
In terzo luogo i tempi sono maturi per legalizzare l’eutanasia. Come questo tema possa poi interessare quello delle discriminazioni non ci è chiaro, ma forse è da addebitarsi al nostro limitato e conservatore orizzonte cognitivo. Ecco questa è l’ “idea che noi abbiamo dell’Italia di domani”. Aspettiamoci allora di vivere in un’Italia piena di trans e priva di malati terminali. Rimane chiaro come il sole che l’italiano dal medio buon senso ha ben altri pensieri assai meno progressisti: il mutuo, star bene di salute, aver qualche soldo per campare, la speranza di veder i figli sistemati. Bersani, Napolitano e gli altri accoliti che portano nel loro cuore tatuate la falce e il martello sono ben consci che il popolino nutre altre preoccupazioni assai più infime e meno ardite.
Ma loro, come insegnano Marx e Lenin, sono i “rivoluzionari di professione” cioè quell’avanguardia di militanti che a tempo pieno si occupano di trascinare in avanti la massa incolta, di farla transitare dall’oggi crepuscolare all’alba di domani. E se l’oggi è composto da famiglie con un padre e una madre, domani ci saranno due papà o due mamme a figlio. Se oggi finisci in galera se stacchi la spina al nonno morente, domani riceverai una medaglia dal Quirinale perché avrai tutelato il diritto civile di morire con dignità.
Bersani & Co. già si trovano in quell’ “Italia di domani” popolata di uomini travestiti da donna, di torte nuziali con in cima le figurine in marzapane di due lui in frac e di malati lasciati agonizzare fino alla morte nei letti degli ospedali perché privi di acqua e cibo. Lasciamoli dunque lì all’ombra di questa spettrale Italia, e noi invece continuiamo ad occuparci del caro benzina e dei voti che prendono a scuola i nostri figli.
da www.labussolaquotidiana.it
11-10-2011
Zapatero, colpo di grazia al matrimonio e alla famiglia
Sempre meno riti nuziali e sempre più riti processuali per divorzio in Spagna. Lo dice un rapporto dell’Istituto di Politica Familiare spagnola (IPF). Nel 2010 si registravano 4 matrimoni contro 3 separazioni. Negli ultimi vent’anni i matrimoni sono scesi da 220mila a 170mila e di contro i divorzi aumentano. Ciò accade per molte ragioni secondo il presidente dell’IPF Eduardo Hertfelder. In primis per motivi di ordine culturale: “Ci è stata trasmessa l’idea – afferma Hertfelder all’agenzia Zenit – che la fedeltà e l’indissolubilità sono un’utopia, che il matrimonio è una questione esclusivamente di affetto e che quando questo si esaurisce posso cambiare, che è un contratto che in un dato momento posso annullare”.
In secondo luogo non vi sono ostacoli giuridici né burocratici di particolare spessore che impediscano di mandare a gambe all’aria il proprio matrimonio con una certa facilità. In Spagna è più facile separarsi che recedere da un contratto di telefonia: la separazione può arrivare in soli 3 mesi, invece con il gestore devo rimanergli fedele almeno 18 mesi. Sono gli effetti della legge sul divorzio, chiamata “divorzio espresso”: possibilità di rompere il legame matrimoniale unilateralmente, senza alcun motivo e in modo immediato. Questa disciplina ha fatto impennare i divorzi in solo cinque anni da 50mila a 100mila.
Insomma un bel bilancio per il governo Zapatero che ormai ha i giorni contati e che sta affrontando la corsa per le elezioni del 2012 con una certa ansia. E il segno meno lo possiamo trovare anche sotto altre voci quali aborto, fecondazione artificiale ed identità di genere. Basta andare a vedere quali nuove leggi il governo in carica ha saputo varare: la Legge contro la Violenza di Genere, la Legge sull’Uguaglianza, la Legge sulla Salute Sessuale e Riproduttiva e sulla Interruzione Volontaria della Gravidanza, nonché le modifiche al Codice Civile in materia di separazione e divorzio. Tutti temi su cui il premier iberico è riuscito nell’intento di trasformare a colpi di legge l’ideologia in prassi, in costume diffuso.
Tanta cura ha avuto Zapatero nell’affossare il sacro vincolo, quanta ne ha avuta parallelamente per gettare nel cestino dei rifiuti l’istituto familiare nel suo complesso. Il leader del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) da cattivo progressista quale è si è dimenticato che gli operai secondo la dottrina più prettamente comunista vengono definiti come proletari. Cioè il loro unico bene, la loro unica ricchezza è la prole, i figli. Zapatero conscio di ciò ha pensato di irridere i padri e le madri di famiglia concedendo loro un assegno di natalità di ben 24 euro al mese, quando la media europea è di 125 euro. Un regalo che però non è a beneficio di tutti i nuclei familiari ma solo di quelli che possono vantare il triste privilegio di aver un conto corrente in banca che piange miseria . Infatti potrà ricevere l’assegno familiare quella coppia che sommando i propri redditi non superi gli 11mila euro lordi. Un aiuto che suona come una beffa.
C’è forse un disegno occulto dietro questa moria di matrimoni e a questa pratica legislativa volta all’omissione di soccorso per le famiglie disagiate? Risponde sempre Hertfelder: “Immaginiamo una società senza famiglie, senza matrimonio: sarebbe una società di individui soli, amorfa, priva di relazioni interpersonali, in cui sarebbe solo lo Stato a educare, legiferare e determinare ciò che è buono e ciò che è cattivo, secondo i suoi interessi. La prima cosa che un bambino dice è ‘papà’ e ‘mamma’; non dice Zapatero”. Lo Stato che fa da madre e padre, da precettore dunque.
La volontà dello Stato di sostituirsi ai genitori nell’educazione dei figli trova anche una conferma nel Programma elettorale dello PSOE. Se lo si va a spulciare si scopre che questo è diviso in sezioni, capitoli e paragrafi. Alla famiglia è dedicato un solo paragrafetto di quattro paginette su 317 complessive. Tanto per intenderci al “cambio climatico” è dedicato un intero capitolo. In quel paragrafetto c’è un punto che occupa un paio di pagine in cui in modo esemplare si svela il vero piano pedagogico di Zapatero & Co. Particolare attenzione il Programma elettorale la riserva all’infanzia, consapevoli che prima lo Stato educa il cittadino e più docile sarà quest’ultimo ai suoi comandi.
Ed ecco allora l’istituzione di nuovi nido comunali che dovranno recepire il 90% dei bambini dai zero ai tre anni, “affinchè le madri e i padri possano inserirsi liberamente nel mercato del lavoro”. Cioè, detto in soldoni, mentre tu mamma sgobbi e stai lontana da casa, io Stato tira grande tuo figlio nelle mie scuole. Si prevede inoltre la creazione di strutture statali per l’infanzia per le vacanze e il tempo libero. L’educazione dei piccoli dovrà essere completa, cioè orientata su tre principi cardine: l’uguaglianza di genere (è il primo principio menzionato anche nel testo originale), quella sociale e il benessere del bambino.
Allora il cerchio si chiude: favorire i divorzi e asfissiare le famiglie non concedendo aiuti economici allenta anche la stretta di papà e mamma sui figli. Se io Stato faccio affondare la famiglia, mi sarà più facile recuperare da quel relitto alla deriva i figli naufraghi, per poi indottrinarli a dovere e farli crescere in una “società libera, uguale, solidale e in una pace che lotta per il progresso dei popoli”. Parola di Zapatero.
da www.labussolaquotidiana.it
03-10-2011
Amy Winehouse: l’estetica nichilista della morte
Nei media si eleva un peana generale intriso di lacrime e scoramento per la morte della cantante inglese Amy Winehouse. Intendiamoci bene: a tutti, anche al più incallito delinquente, va tributato un sentimento di pietas, se non cristiana perlomeno umana, allorchè si lascia questo mondo. Quindi anche alla Winehouse.
Detto ciò, quello che sconcerta è il fatto che il leitmotiv più ricorrente sia il seguente: è morta per la sua fragilità. Per nulla: è morta non perché fragile ma per le sue scelte che semmai l’hanno resa debole. Infatti il suo trapasso era cronaca di una morte annunciata (già scampata al dì letale una volta, più volte vista ubriaca o drogata in concerto etc.).
La Winehouse ha fatto la corte alla morte: perché poi stupirsi che ad un certo punto la Signora con la falce abbia accettato le sue lusinghe (tanto più che si vocifera che forse è stato suicidio)? Si è sposata con l’eccesso e questi – si sa – è coniuge esigente che prima o poi ti porta il conto da saldare. La libertà o il tanto decantato principio di autodeterminazione obbliga dunque anche ad un computo preciso delle responsabilità frutto della gestione di questa stessa libertà. Ci si lamenta poi che aveva tutto ma questo tutto non le bastava. In particolare si vocifera che negli ultimi giorni fosse ancora più depressa perché si era lasciata con il fidanzato.
Eppure in centro Africa, dove non si ha nulla, la parola depressione è sconosciuta e i bambini africani come quelli delle favelas in Brasile sorridono sdentati del loro niente, seppur la loro esistenza – quella sì – sia davvero tragica. Quindi il compatimento non è giustificato. Frasi come “i fan e i colleghi la rimpiangono pensando di non aver fatto abbastanza per lei” fanno venire solo l’orticaria e gridano giustizia al cielo perché l’ugola d’oro del soul non voleva essere aiutata sebbene molti venivano in suo soccorso e le voci di milioni di derelitti sparsi nell’orbe terracqueo che invece vogliono essere assistiti non vengono ascoltate. Ma a dire la verità e ad un esame più attento era comprensibile che la cantante fosse depressa: perché fama, successo, soldi e potere massmediatico sappiamo che non riempiono il cuore di nessuno.
La sua tristezza è la prova provata che senza Dio e l’Assoluto si può facilmente annegare in un bicchiere di wisky. E’ poi da rifiutare un’estetica di un certo tipo di morte. C’è quasi un’aura di soddisfazione che sia morta così perché è il perfetto completamento di un’esistenza dedita alla sballo. Insomma se doveva morire doveva farlo con un ago ficcato in braccio o le narici bianche di coca, perché nell’immaginario collettivo il rocker demoniaco che combatte le convenzioni non può spirare in un letto di ospedale circondato dall’affetto dei suoi cari. Eppure morire come un drogato di certo non è mai stato dignitoso per nessuno. E’ infine da rigettare il mito dell’artista romantico sofferente che alla vita della Winehouse si vuole associare. Tale mito non c’entra nulla con questa paladina dello sballo totale.
Le vite di Chopin, Schumann (morto pazzo), Listz (morto sacerdote), Schubert, e poi Brahms, Mahler, Bruckner erano piagate dal dolore a motivo della loro finissima sensibilità. Erano anime crepuscolari, forse a volte decadenti, però altresì anime elevate, nobili, che a causa della loro profondità sapevano cogliere con nitore quella parte di amarezza che l’esistenza inevitabilmente riserva a ciascuno di noi. Un’esistenza a volte drammatica ma ricca di senso. E poi spessissimo tale strazio del cuore era tutto interiore, un dolore che per pudore non si esternava se non nella musica, unico luogo adatto per comunicare appieno la loro infelicità. Insomma non si lasciavano andare in pubblico a poco edificanti e svilenti spogliarelli dell’anima in cui invece la cantante, tra fumi dell’alcol e tirate di coca, indugiava spesso compiacente.
E dunque all’opposto di questi grandi del passato la Amy Winehouse, insieme ai suoi colleghi morti per overdose o suicidi quali Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, John Belushi, Kurt Cobain dei Nirvana, Sid Vicious dei Sex Pistol, erano solo alfieri di un vuoto nichilismo, incarnavano unicamente vite eccessive fine a se stesse, erano adoratori dell’esistenza borderline intesa come farmaco contro il nonsense in cui erano volutamente sprofondati. Arrabbiati contro tutti e tutti ma non si è mai capito bene il perché. L’intemperanza nutriva la loro vita dal momento che ogni altro credo era stato escluso.
Erano vite, al contrario dei grandi geni del passato, che puntavano in basso, non al sublime. Anche Beethoven era un ubriacone (si racconta che alla sua morte nel suo pianoforte fossero state trovate alcune bottiglie vuote di vino), anche lui si stordiva con l’alcol perché schiacciato dalla consapevolezza che il destino gli era nemico: la sordità, la solitudine, il nipote tanto amato che non ricambiava il suo affetto, una visione dell’esistenza intristita dalle letture di Kant.
Di certo non beveva perché la sua ultima “fidanzata” lo aveva lasciato. Insomma la profondità del dramma di Beethoven si misura ascoltando la V Sinfonia, quella della Winehouse con la capienza della sua ultima bottiglia di whisky.
Coppie di fatto e mutui agevolati
Vi sono giunte che aprono i mutui agevolati per la casa anche alle coppie di fatto. E’ una decisione giusta? No, dal momento che lo Stato e quindi anche gli amministratori locali dovrebbero favorire il matrimonio perché è garanzia di solidità sociale, di coesione tra i consociati e quindi contribuisce fortemente alla sopravvivenza dello Stato stesso.
L’ordinamento giuridico e la comunità pubblica preferiscono le relazioni stabili e durature come il matrimonio piuttosto che le relazioni temporanee e incerte basate solo sull’affetto (Corte Cost. sentenza 352/2000; ordinanza 491/2000). Infatti il divorzio è previsto come eccezione, non come regola. La convivenza per sua natura è invece un legame più fragile e precario.
Nella convivenza infatti si sta insieme a tempo determinato dato che i conviventi o si lasceranno oppure si sposeranno. I conviventi affermano che staranno insieme finchè funziona, altrimenti si sposerebbero, perché, volenti o nolenti e per fortuna, nella testa di molti all’idea di matrimonio è associata l’idea “per sempre”. I coniugi a differenza di chi convive invece stanno insieme, perlomeno nelle intenzioni, anche se non funziona più. Nella convivenza non c’è volontà di assumere le responsabilità del matrimonio: si sta insieme solo per legame affettivo (Corte Cost. sentenza n. 8 del 1996) e non c’è progetto di vita (Indagine Cisf 2005).
Invece il matrimonio per sua natura è un legame più stabile perché il vincolo giuridico, espresso nei doveri presenti nel Codice Civile, rafforza il legame; perché è più difficile rompere un matrimonio che una coppia di fatto e in più nella convivenza non puoi contestare la decisione dell’altro, invece nel matrimonio sì facendo valere le tue ragioni nel procedimento per la separazione matrimoniale; perché il diverso atteggiamento dei coniugi, vincolati in un progetto di vita definitivo, rafforza l’impegno reciproco; e infine perché l’antropologia culturale dimostra che la ritualizzazione di un impegno e la manifesta assunzione di responsabilità nei confronti della società (per es. la cerimonia nuziale) accrescono la capacità di rispettarlo. Inoltre è il matrimonio, con le garanzie di solidità fin qui espresse, che è il luogo migliore per far crescere i figli ed è l’ambiente ideale per comunicare loro i valori civili così utili quando diventeranno cittadini adulti.
Tutti motivi questi che giustificano un particolare atteggiamento di favore dello Stato verso questa specialissima comunità di persone che è la famiglia fondata sul matrimonio, l’unica che può meritarsi simile trattamento di riguardo. Tutto ciò ci porta a dire che è ingiusto assegnare facilitazioni alle coppie di fatto insieme al fatto che in tal modo si agevoleranno le dichiarazioni mendaci di convivenza al fine di ottenere tali benefici e si sottrarranno queste risorse economiche alle famiglie formate da coppie sposate. Inoltre simili benefit vanno dati a chi si assume dei doveri giuridici, come i coniugi, non ai conviventi che non hanno nessun obbligo né verso la società né nei confronti uno dell’altra. Dare dei soldi a chi domani può rompere il rapporto di convivenza danneggia poi l’immagine del matrimonio, inserendo nell’immaginario collettivo una modello di vita a due assai concorrenziale perché più soft, meno impegnativo ma con uguali agevolazioni.
Accordare i mutui agevolati anche alle coppie di fatto mette sullo stesso piano due realtà che non hanno pari valore. Da ciò consegue che parificare in tema di mutui la convivenza al matrimonio significa prendere una decisione ingiusta. Sono queste affermazioni discriminatorie contrarie al principio di uguaglianza? No, perché il principio di uguaglianza prevede di trattare i casi uguali in modo uguale, e i casi diversi in modo diverso. Essendo il matrimonio e la convivenza due realtà differenti devono essere considerate in modo differente. E’ discriminatorio che un ragazzo di 14 anni non possa votare o che un uomo di 30 anni non possa andare in pensione? No, perché situazioni diverse devono essere regolate in modo diverso. I conviventi sono rispettati e quindi non discriminati dalla legge nei loro diritti fondamentali (artt. 2 e 3 Cost.): occorre tutelare il convivente, non perché convivente ma perché persona, e non la convivenza.
Per vietare l’aborto serve essere cattolici?
La campagna elettorale per le odierne consultazioni regionali e amministrative ha fatto riaffiorare ancora una volta la vexatissima quaestio della laicità versus confessionalità . L’argomento è frusto ed è ormai un vero e proprio tormentone culturale. Al recente richiamo di Bagnasco di orientare il voto secondo alcuni principi propri della morale naturale ecco la solita levata di scudi da parte di quella parte politica che si dichiara laica, anzi laicissima, e che rivendica un ruolo autonomo della politica dalla religione. Per tentare di fare un poco di chiarezza su concetti chiave quali laicità e confessionalità, partiamo da una domanda semplice semplice: ma per vietare aborto, eutanasia etc. serve essere cattolici? Risposta: no. I cattolici, ed ovviamente gli altri appartenenti a culti differenti, non hanno il copyright su tali argomenti perché i temi di morale naturale possono essere benissimo spiegati alla luce della ragione, strumento cognitivo in possesso di tutti gli uomini, credenti e non. Anche l’ateo può ben comprendere che ammazzare e rubare sono atti malvagi e quindi anch’egli li può condannare. Aborto ed eutanasia sono forme raffinate di omicidi e quindi chiunque, se non ha l’intelletto obnubilato, può riconoscere che aborto e eutanasia sono azioni assai gravi sul piano morale. I moniti che provengono dalla Chiesa fanno leva esattamente su questo elemento razionale e proprio per questo motivo sono rivolti a tutti. Non esiste quindi un’etica laica e un’etica religiosa. Esiste solo un’etica naturale, cioè razionale. E’ la mia stessa natura che mi dice di non uccidere e di non rubare, e, ordinariamente, non mi servirebbe altro per comprendere ciò. Il credente oltre alle prove che gli fornisce l’intelletto in ordine alle azioni da compiere e a quelle da evitare, ha anche una marcia in più, cioè la grazia di Dio, che illumina la sua ragione permettendogli, spesso ma non sempre, di giudicare meglio le questioni morali. Inoltre il credente troverà anche altre motivazioni, di carattere soprannaturale, per esempio per non uccidere: perché vede nell’altro uomo un fratello creato da Dio, perché ritiene la vita sacra, perché non vuole recare offesa a Cristo, perché teme il suo giudizio finale, etc. Ma tutti questi sono motivi che si possono aggiungere a quelli, di ordine naturale, che anche l’ateo, il laico si direbbe oggi, può scoprire in sé utilizzando correttamente la propria ragione. Cosa c’entra tutto questo con la politica? C’entra eccome, perché anche il politico laico sfruttando la retta ragione potrebbe arrivare a concludere che aborto e eutanasia sono attacchi letali al bene della vita. Non serve la fede dunque, ma solo la testa. L’omicidio, il furto, il sequestro di persona, la violenza sessuale, sono tutti reati contenuti nel Codice Penale, di certo non un testo di ispirazione teologica: tutte condotte le quali sono sanzionate perché lesive di diritti fondamentali e quindi del bene comune. L’affermazione in merito all’aborto di alcuni politici – tra cui sedicenti cattolici – che le leggi sono per tutti, credenti e non, e che quindi queste devono tenere in considerazione differenti sensibilità è da marchiare come evidente idiozia. E’ come affermare: facciamo una bella legge a favore della deportazione ed eliminazione degli ebrei, perché noi politici laici dobbiamo tenere in considerazione differenti sensibilità. Infatti nella nostra società ci sono cittadini non razzisti ma anche razzisti. Non permettere a quest’ultimi di veder deportati ed eliminati gli ebrei sarebbe un atto di grave discriminazione e un comportamento giuridico coercitivo della loro libertà di coscienza. Quale politico con un minimo di sale in zucca si arrischierebbe a fare un simile ragionamento? Nessuno. Perché tutti comprendono che la deportazione ed uccisone degli ebrei sono atti che ledono diritti fondamentali della persona quali quelli della libertà e della vita, e perciò devono essere vietati. Il discorso sul doveroso approccio laico – ma meglio dovremmo dire “approccio razionale” – si potrebbe allargare ovviamente a tutti quei comportamenti illeciti sul piano morale: divorzio, fecondazione artificiale, omosessualità, prostituzione, droghe, etc. Anche in questi casi non mi serve leggere la Bibbia o riferirmi al Magistero per comprendere che questi comportamenti o scelte sono atti che non corrispondono ai dettami della mia natura: è sufficiente usare bene l’intelletto. Una importante sottolineatura finale. Ciò non comporta che tutti gli atti immorali siano da sanzionare dal punto di vista giuridico. Il discorso è complesso e meriterebbe più spazio, ma in sintesi potremmo affermare che solo le condotte più gravi devono essere vietate e quindi punite, perché solo quelle più gravi possono mettere in serio pericolo l’ordinata convivenza, cioè il bene comune. E aborto e eutanasia ci paiono essere assai gravi…
Il Decalogo Nero dell’ideologia anti-life
Pirandello era dell’opinione che la vita fosse regolata dal caso. Tommaso D’Aquino gli avrebbe risposto che solo alcune cose avvengono per caso ma non tutte Tra queste ultime con sicurezza devono essere annoverate quelle sconfitte culturali e giuridiche subite, a livello nazionale e non, nel campo della bioetica e più in generale in quello della morale naturale. Aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, contraccezione, divorzio, riconoscimento giuridico delle convivenze comprese quelle omosessuali, legalizzazione della cannabis, et similia sono realtà su cui già si è legiferato – o si ha intenzione di farlo – oppure sono fenomeni ampiamente accettati dal sentire comune. Ma come si è arrivati a questo punto? Per caso? No di certo. Infatti per raggiungere simili risultati occorre una strategia coerente e ben strutturata.
Proviamo ora a vedere quali sono gli elementi di questa strategia, una sorta di decalogo nero che disconosce le verità fondamentali sull’uomo. 1. Un passo alla volta. E’ la soluzione tattica più frequentemente usata, dagli effetti assai perniciosi e su cui perciò ci soffermeremo un poco più a lungo. Parte da una constatazione evidente: la vetta si conquista pian piano, metro per metro. Di questo sono ben coscienti coloro che vogliono sovvertire l’ordine naturale del creato. Si tratta della famosa teoria del piano inclinato. Provate a mettere una biglia su un piano inclinato: questa all’inizio si muoverà lentamente ma poi acquisterà sempre più velocità. Tale principio è rinvenibile nella legge 194 che permette l’aborto procurato. Se si legge con superficialità tale norma, l’aborto risulta essere l’extrema ratio, l’ultima spiaggia, e non la prima soluzione a cui ricorrere per chi affronta una gravidanza indesiderata. Il fronte pro-choice in modo furbesco ha convinto un po’ tutti che è lecito abortire solo dopo aver percorso obbligatoriamente un iter che prospetta alla donna una serie efficace di alternative per ovviare alla scelta abortiva: non riconoscere il figlio, chiedere aiuto per mezzo dei consultori agli enti locali e non, obbligo dei consultori di rimuovere tutti quegli ostacoli, di qualsiasi natura essi siano, che possano impedire la nascita del bambino, etc.
Purtroppo la maggior parte di tali oneri vengono in essere solo se la donna si rivolge ai consultori. Se invece, come accade il più delle volte, si reca da un medico di fiducia (non necessariamente il medico di famiglia) o presso una struttura socio-sanitaria, molti di questi adempimenti evaporano. Così ai nemici della vita è bastato dipingere nella 194 la possibilità di abortire come ultima chance, o meglio: farla percepire alla gente come tale, ben sicuri che in poco tempo da ultima opzione si sarebbe trasformata in quella privilegiata, mutando poi gli eventuali obblighi di legge in mere formalità da trascurare. E’anche ciò che sta accadendo per il dibattito sull’eutanasia: molte forze progressiste hanno proposto progetti di legge in cui non si fa menzione esplicita della possibilità di ricorrere all’eutanasia ma si propone solo lo strumento del testamento biologico. Questo sarà il primo passo, la testa di ponte per avere l’eutanasia a tutti gli effetti. Così ha previsto Piergiorgio Welby nel suo Lasciatemi morire. Ecco infatti gli steps che egli suggerisce per arrivare alla legalizzazione della dolce morte. Avere una legge sul testamento biologico (fase giuridica); assegnare alla Commissione Sanità lo studio degli aspetti legati a nutrizione e idratazione (fase medica); indagine sull’eutanasia clandestina (fase sociologica); formare i medici (fase pedagogica); legge sull’eutanasia (fase finale giuridica). L’effetto domino – fai cadere una tessera e cadranno tutte le altre – è ben riscontrabile in questa materia fuori dai confini del nostro paese, dove sono venuti in essere scenari realmente inquietanti. In Olanda la depenalizzazione dell’eutanasia risale al 1993.
Dieci anni dopo, nel giugno del 2003, la prestigiosa rivista scientifica Lancet ci comunica che il 2,6% certificati di morte redatti in Olanda nell’anno 2001 erano da addebitarsi ad atti eutanasici (3.647 persone) di cui lo 0,7% senza consenso del paziente (982 persone). Come vuole la logica del “un passo dopo l’altro” l’ordinamento giuridico del paese dei tulipani cercò apparentemente di mettere riparo alla situazione rendendo lecite nel 2001 le pratiche eutanasiche ma nel rispetto di rigorose condizioni. Tale legge infatti prevedeva per la richiesta di volontaria soppressione una serie di requisiti – i famigerati paletti tanto invocati anche da molti politicanti nostrani – così stringenti e severi che parevano a prova di bomba: soggetto cosciente e maggiorenne, volontà reiterata, firma di due medici, stadio terminale, solo per atroci sofferenze e senza prospettive di miglioramento. Passa qualche anno ed Eduard Verhagen, autore del protocollo Groningen sull’ eutanasia infantile in Olanda ci informa dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 Marzo 2005 che questi paletti sono saltati tutti: su 1.000 bambini che muoiono in un anno, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica. La libido di morte è poi di per sé diffusiva, ed è aiutata anche da una prassi abortiva che in Europa ha assunto i toni della normalità. Infatti all’inizio di quest’anno il Sunday Times rendeva nota un’intervista a John Harris, medico inglese, professore di bioetica dell’Università di Manchester, membro della Commissione Governativa Human Genetic, il quale si domandava retoricamente perché possiamo uccidere il feto malformato e non un neonato malformato. Sulla stessa scia omicida si pongono i recenti pareri del Royal College di Ostetricia e Ginecologia e del Nuffield Council on Bioethics. Il primo propone l’eutanasia attiva per i neonati disabili, così si risparmiano ai parenti shock emozionali e dissesti finanziari, affermando che una bambino disabile è una famiglia disabile. Il secondo suggerisce per i prematuri nati sotto la 23° settimana la non assistenza perchè hanno poche possibilità di salvezza. Proposte a cui fa eco la decisione della ginecologa Giovanna Scassellati del San Camillo di Roma, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza, la quale ha affermato che nel suo reparto chi decide per un aborto tardivo firma un "consenso informato" per non far rianimare il piccolo, qualora sopravvivesse. Insomma: provocate una fessura nella parete di una diga e prima o poi crollerà la diga intera.
Lo scivolamento verso il basso e sempre più accelerato è ben visibile nelle tecniche di fecondazione artificiale. Nate in principio per soddisfare il desiderio del figlio si sono trasformate ben presto in strumenti per soddisfare le voglie di maternità di donne single o appartenenti a coppie lesbiche, oppure di vedove che possono utilizzare gameti del marito morto da una dozzina di mesi (vedi per questi ultimi tre casi ad esempio la legislazione in Spagna ). Poi si sono involute in tecniche per l’uccisione di embrioni al fine di trovare improbabili terapie per malattie ad oggi incurabili, magari attraverso la cosiddetta clonazione terapeutica come avviene sempre in terra iberica. Ed infine in mezzi per creare mostri. Infatti all’inizio del settembre del 2007 la Hfea, forse la massima autorità di bioetica inglese, si era dichiarata favorevole alla creazione di cibridi attraverso un procedimento di clonazione: ovocita di mucca con all’interno DNA totalmente umano. Il risultato sarebbe un essere (umano?) con il 99,9% di patrimonio genetico umano e una minima frazione di percentuale, lo 0,01%, di patrimonio genetico animale. «Percentuale variabile di umanità» si legge sulla prima pagina de Il Foglio di mercoledì 5 settembre. Trascorrono pochi mesi e nel maggio del 2008 il Parlamento inglese ha votato a favore degli ibridi umano-animali.
Anche riguardo allo snaturamento dell’istituto matrimoniale si è scelto di procedere con prudenza. Grillini nel luglio del 2002 fu il primo firmatario di una proposta di legge che prevedeva sic et simpliciter il matrimonio omosessuale. Resosi conto che i tempi erano prematuri per un simile passo si risolse a chiedere successivamente forme attenuate dello stesso, cioè il riconoscimento delle convivenze anche per gli omosessuali. Infatti così lo stesso Grillini motiva la sua strategia nella Proposta di legge denominata “Disciplina dell’Unione affettiva” dell’aprile 2003 : «si è […] ritenuto di optare per un criterio gradualistico e realistico (tale cioè di rendere realistica la possibilità che la proposta di legge venga presa in seria considerazione, e che essa non possa anzi essere ignorata o accantonata […])».
2. Chiedi 100 per ottenere 50. E’ una strategia opposta alla precedente. Nel suo enunciato è semplice: se chiedi molto qualcosa avrai. Così le forze politiche, che oggi si ha il vezzo di chiamare “della sinistra radicale”, al tempo della legalizzazione dell’aborto procurato chiedevano che si potesse interrompere la gravidanza sempre e comunque. I cattolici, almeno quelli veri, si opponevano all’aborto, in modo esattamente speculare, sempre e comunque. Il legislatore si pose nel mezzo cercando, con malcelato spirito liberale, di accontentare tutti o scontentare tutti: aborto sì, ma a certe condizioni. Stessa idea è oggi perseguita dai radicali per il dibattito sul testamento di fine vita: chiedono l’eutanasia per avere perlomeno il DAT, le dichiarazioni anticipate di trattamento. Si possono rintracciare i segni di questa particolare tattica culturale anche nelle affermazioni dell’onorevole Fassino pronunciate nella puntata dell’8 Febbraio 2006 di Otto e Mezzo il quale ammise che se non fossero divenuti legge i PACS forse era sperabile che perlomeno i Contratti di Convivenza Solidale proposti da Rutelli potessero passare perché forma meno radicale rispetto ai primi.
3. Rendere lecito ciò che accade nella prassi. Se un comportamento è diffuso nei costumi delle persone vuol dire che è normale, quindi giusto. Se è giusto sotto il profilo morale allora non si vede la ragione per non renderlo lecito dal punto di vista giuridico. Il sillogismo per nulla aristotelico è stato applicato molte volte nel passato e suggerito spesso nel presente. L’aborto e l’eutanasia clandestina, le separazioni di fatto all’interno dei nuclei familiari, l’uso di droghe erroneamente definite leggere, la diffusione della convivenza prematrimoniale, il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale, legittimano di per sé il parlamentare a produrre norme per rendere lecito ciò che è già presente come comportamento tra la gente, o supposto come tale. L’ottica perversa attraverso la quale si vuole avere una legge afferma che è sicuramente buono ciò che accade. Lo Stato quindi non sceglie più quali azioni punire o semmai tollerare perché lesive del bene comune, ma semplicemente prende atto di “come vanno le cose”, registra le condotte degli individui e quando queste raggiungono un numero rilevante non può che legittimarle con tanto di carta bollata. Il ragionamento è diventato verità dogmatica soprattutto riguardo alla fecondazione artificiale. Quante volte infatti abbiamo sentito o letto che la legge 40 poneva ordine in una situazione da “far west” e quindi era da salutarsi come una buona legge? Pochi sono stati coloro che hanno invece obiettato che di fronte alle pratiche diffuse della procreazione artificiale l’opzione della legittimazione della stessa non era lecita moralmente dovendo il legislatore all’opposto vietarla. I costumi però mutano negli anni, o, come si sente spesso ripetere, se i tempi cambiano, cambia anche la morale. E’ di questo avviso Grillini che nella seduta del 21 Luglio 2005 della Commissione Giustizia fa intendere che la Costituzione non parla esplicitamente di coppie conviventi dato che il fenomeno sociale era pressoché inesistente. Oggi invece essendo le convivenze numericamente più diffuse lo Stato non può far altro che tutelarle giuridicamente. Seguendo dunque la logica che sono le condotte diffuse nella società a dettar legge è doveroso domandarsi a quando la legalizzazione di furti e omicidi, dato che – a quanto ci risulta – sono assai diffusi?
4. Rispettare l’opinione della maggioranza. In regime di democrazia l’unica voce che conta è quella del popolo, e poco importa che questo spesso, ma non sempre, sia bue. Caso paradigmatico in questo senso è quello della legge spagnola n. 35/88 in tema di tecniche riproduttive che parla di «un’ etica di carattere civico o civile con attenzione al consenso sociale vigente». Ed ecco allora per suffragare le proprie decisioni politiche snocciolare i dati di sondaggi i quali con previdenza non possono che portare acqua al proprio mulino. Per citare uno tra i tanti casi, facciamo riferimento ad un’indagine svolta dall’Eurispes su eutanasia, accanimento terapeutico e testamento biologico, svolta tra metà novembre e metà dicembre 2006. Ben il 74% degli italiani intervistati si mostrava favorevole all’eutanasia. Peccato che la domanda fosse equivoca, potendo essere interpretata dall’uomo della strada sia come rifiuto a trattamenti che configurerebbero l’accanimento terapeutico, sia come accettazione di pratiche eutanasiche. Peccato poi che il sondaggio si svolse proprio nel periodo in cui il caso Welby era caldissimo, influenzando molto le risposte, date sull’onda emotiva delle immagini di Welby sofferente che milioni di italiani vedevano quotidianamente in TV o sui principali giornali nazionali. Infatti proprio un anno prima era stata condotta un’indagine simile dando risultati ben diversi: solo 4 italiani su 10 si mostravano favorevoli alla dolce morte. Senza contare il fatto che i dati delle ricerche vanno resi pubblici unicamente se sono di conforto alle proprie tesi. Nella bufera sui DiCo di un anno fa circa fa ben pochi organi di informazione resero noto che, secondo un sondaggio della società Codres di Roma (febbraio 2007), su 1.000 intervistati solo il 6% riteneva i DiCo una questione importante. Tale risultato faceva da riscontro al dato della sparuta percentuale del 3,9% delle coppie di fatto che hanno voluto la registrazione della propria situazione di convivenza nel Registro delle Unioni Civili, già esistente in alcuni comuni italiani così come previsto da una legge del ’90. Ma se il destro non può venire dai sondaggi, rimangono sempre i referendum su cui fare affidamento. Quelli persi su divorzio e aborto vengono sempre citati per sostenere la tesi che “così vuole il popolo”. Quello invece riguardante la legge 40 sulla Procreazione medicalmente assistita, disertato da più del 70% dell’elettorato, chissà perché è già caduto in prescrizione. Insomma pare proprio che la maggioranza debba essere ascoltata solo se la pensa come il politico progressista.
5. Sfruttare l’emozione del caso limite. E’ la ragione che è deputata a determinare quali atti sono leciti o illeciti sotto il profilo morale. Non il sentimento. Far leva sulle emozioni è invece una strategia furba e iniqua. Argomentare che l’aborto volontario è sempre iniquo comporta passaggi logici complessi e spesso lunghi. Raccontare invece la storia di una donna violentata che ha scelto di abortire porta molti più consensi e più velocemente. Spiegare le differenze tra atti eutanasici e accanimento terapeutico è laborioso, sbattere in prima pagina il viso gonfio e privo di espressione di Welby invece cattura più facilmente l’attenzione del telespettatore e lo recluta all’istante tra le file dei filo-eutanasici. E’ inutile poi domandarsi perché solo alcuni casi pietosi hanno i meriti sufficienti per avere gli onori della ribalta. Che dire infatti di quel gruppetto di pazienti affetti dalla stessa malattia di Welby che nel settembre del 2006, mentre quest’ultimo scriveva a Napolitano, furono portati in barella davanti alla sede del Ministero della Sanità chiedendo non di morire ma più soldi per la ricerca? Che dire del professor Melazzini, primario oncologo, anch’egli colpito da sclerosi laterale amiotrofica, che muove solo tre dita e vuole continuare a vivere? Anche in questo caso i media hanno assunto come propria la regola del “due pesi e due misure”.
6. Mentire. E’ un trucco che si impara fin da piccoli. Il problema diventa serio quando tale comportamento viene assunto da persone adulte, con responsabilità pubbliche e su temi importanti. La menzogna è una specialità propria dei radicali. Ancor oggi è possibile ascoltare qualche loro esponente il quale asserisce con sicumera che grazie alla 194 gli aborti clandestini sono diminuiti del 79%. Questo è un clamoroso autogol. Infatti come si può sapere con tale precisione a quanto ammontavano, o a quanto ammontano, gli aborti clandestini dato che sono clandestini e che quindi non esistono documenti, carte o testimonianze le quali ci potrebbero fornire qualche numero a riguardo? Senza poi tenere in considerazione il fatto che all’anno vengono celebrati nel nostro paese dai 30 ai 50 processi per aborto clandestino. Segno inequivocabile che il numero di interventi praticati in strutture non idonee è assai più rilevante che 30 o 50, dato che si finisce davanti ad un giudice solo se qualcosa è andato storto. E’ insomma una prova indiretta che la 194 è ben lungi dall’aver eliminato il fenomeno delle interruzioni delle gravidanze “al buio”. Falsa è anche la cifra di 25.000 donne che ogni anno morivano per aborto clandestino prima della 194. Se il numero di aborti clandestini non si può contare, non così avviene per il numero di donne che muoiono nell’arco di 12 mesi. E’ bastato andare a vedere le statistiche sulle cause di morte e si è scoperto che la mortalità femminile annua, delle donne in età fertile, negli anni Settanta era attestata sui 10.000-15.000 decessi, provocati non solo dall’aborto ma a seguito di qualsiasi altro fattore quali malattie, incidenti, omicidi, etc. Menzognera è infine l’affermazione che la legalizzazione dell’aborto ha causato una diminuzione delle richieste di interrompere la gravidanza. Si affermava che prima del 1978, anno in cui fu approvata la legge 194, si praticavano 3.000.000 di aborti, quando invece nel primo anno di applicazione della legge si arrivò alla cifra di 187.000. E’ ben difficile immaginare che nel giro di un solo anno si sia passati da 3 milioni di aborti a 187.000, soprattutto per il fatto che prima della 194 l’aborto era reato e poteva prevedere anche la reclusione. L’escamotage della menzogna è stato usato con successo anche nell’attuale battaglia per il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto. Grillini, nella già citata proposta di legge dell’Aprile del 2003 riguardante la disciplina delle “Unioni affettive”, afferma per rassicurare gli animi che in questo documento non si chiede la possibilità che una coppia omosessuale possa adottare un bambino aggiungendo che «nessuno degli ormai numerosi progetti di legge presentati negli scorsi anni alle Camere in questa materia su sollecitazione delle associazioni gay italiane ha mai affrontato la questione». Peccato che fu lo stesso Grillini a chiedere qualche mese prima, precisamente nel luglio del 2002, l’adozione per la coppie omosessuali all’art. 3 della Proposta di legge n. 2982: «Al rapporto di unione civile e al matrimonio fra persone dello stesso sesso sono estesi i diritti spettanti al nucleo familiare, secondo criteri di parità di trattamento. In particolare si applicano le norme civili, penali, amministrative, processuali e fiscali, vigenti per le coppie che hanno contratto matrimonio, ivi compresi l’accesso agli istituti dell’adozione e dell’affidamento». Senza poi contare le due proposte dell’onorevole De Simone, quella dell’onorevole Malarba e un disegno di legge Malarba-Sodano, tutte antecedenti all’Aprile 2003 e che chiedevano l’adozione per le coppie omosessuali. In sintesi: la menzogna poggia su una duplice e realistica considerazione. In primo luogo pochi andranno a verificare l’affermazione fatta, e in secondo luogo è molto più facile mentire che contestare punto per punto una falsità dato che ciò comporta studio, tempo e fatica.
7. Usare il volto noto. Le più riuscite campagne pubblicitarie sono quelle in cui il prodotto da vendere è presentato da un personaggio conosciuto. Il viso noto sponsorizza l’articolo da mettere in commercio. Tale strategia di marketing è usata spesso anche nelle battaglie sulle questioni etiche. Pensiamo al caso della sorridente coppia Veronesi-Ferilli che si è spesa per la modifica della legge 40 al tempo del referendum del 2005; o al solo Veronesi ideatore della costituzione di un Registro nazionale per i testamenti biologici; o al presentatore Cecchi Paone e all’attore Lino Banfi, alias nonno Libero, in prima linea per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali. Lo sfruttamento di questi ed altri testimonial si incardina su un fondamentale punto di ordine psicologico: si estende indebitamente la competenza professionale del personaggio famoso in un ambito invece che non gli è proprio. In tal modo la fiducia che l’uomo della strada accredita alla celebrità a motivo delle sue doti di oncologo o di showman si trasferisce poi illogicamente in campi non strettamente pertinenti allo loro attività. Le tesi più contrarie al buon senso si ammantano di autorevolezza. Chiamare per esempio Margherita Hack, come è avvenuto in una puntata di un’edizione del Maurizio Costanzo Show, a pronunciarsi sulla liceità dell’eutanasia produce uno sconfinamento delle competenze della scienziata, la quale sarà pure un’eminenza nell’astrofisica ma nel campo della morale naturale non può vantare uguale preparazione. E così l’opinione dell’accademico VIP diventa tesi scientifica assolutamente credibile. Di frequente poi la presenza del volto noto si accompagna ad atti provocatori: Pannella che distribuisce hashish ai passanti di Piazza Navona; il filosofo Gianni Vattimo che fa da testimone insieme a Grillini alla celebrazione di finte nozze gay da parte di due signori presso il Consolato Francese a Roma, avvenuto aderendo al Pacs made in Francia, con tanto di scambio di fedi nuziali sullo scalone del Consolato a vantaggio degli obiettivi dei reporter.
8. Le parole. Cambiare il senso delle parole porta a cambiare la percezione della realtà. Nella battaglia culturale è di primaria importanza la rivoluzione linguistica. Più che il significato dei termini è importante il loro suono, la loro eufonia. Non più omicidio prenatale, ma aborto. Anzi: interruzione volontaria della gravidanza che scolora nell’ancor più asettico e mite acronimo IVG. Non omicidio del consenziente o aiuto al suicidio: assolutamente meglio eutanasia. Ma dato che quest’ultima può evocare spettri nazisti si preferiscono le perifrasi “dolce morte”, “testamento biologico” (insieme al suo “zio d’America” living will), o i termini coniati da Welby quali biodignità, ecomorire, finecosciente. Non fecondazione artificiale ma procreazione medicalmente assistita che rappresenta in modo falso la realtà dato che il medico non aiuta la coppia a procreare ma si sostituisce ad essa in questo atto. Non convivenza more uxorio ma patti civili di solidarietà, così chi fosse contrario ad essi verrebbe tacciato di essere incivile e poco solidale. Non marito e moglie ma semplicemente coniugi, termine che annulla in sé le differenze di sesso potendo essere i coniugi entrambi maschi o entrambe femmine. Non droghe punto e basta. Ma droghe leggere, quasi che la salute o la vita fossero cose di poco conto, pari al peso minimo di uno spinello.
9. L’esterofilia. Per sapere se le nostre leggi sono buone la pietra di paragone non è il bene comune, bensì spesso sono gli ordinamenti giuridici di altri stati. L’Italia – così si sente ripetere come un mantra – è all’ultimo posto in Europa nella sperimentazione sugli embrioni, nell’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale, nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, etc. L’argomentazione è con evidenza debolissima: se il mio vicino di pianerottolo ammazza e ruba significa che anch’io posso ammazzare e rubare? Strano poi che anche in questo caso si faccia a monte una selezione all’ingresso delle leggi straniere che dovrebbero essere emulate nei nostri confini. Chissà perché non si ode un simile vociare per importare da noi le norme che permettono in Francia lo sfruttamento dell’energia nucleare, o quelle cinesi sul lavoro subordinato.
10. Il nemico è la Chiesa. In ogni guerra c’è un nemico. Nel conflitto culturale quale miglior nemico da scegliere se non la Chiesa Cattolica? Nell’immaginario collettivo la Chiesa è frequentemente dipinta come nemica del progresso, antagonista della felicità dell’uomo, misogina, sessuofoba, colpevole di posizioni discriminatorie contro gli omosessuali , ostinatamente e insensatamente contraria alla ricerca scientifica, gelosa depositaria di oscure verità inconfessabili. E’ Lei che ha negato i funerali a Welby, è Lei che fa ingerenza nella politica italiana, è Lei che con una straordinaria azione di plagio parrocchiale ha mobilitato più di un milione di persone al Family Day. Se la Chiesa è il nemico occorrerà ovviamente far di tutto per indebolirla. Per citare solo alcuni esempi tra i tanti: all’indomani della sconfitta sul referendum della legge 40, i radicali, non potendosela prendere con gli italiani (è sempre poco elegante avercela con l’elettorato), indirizzarono tutto il loro rancore verso Santa Romana Chiesa chiedendo a più riprese la revisione del Concordato. Questo atteggiamento polemico fece eco ad una posizione emersa nell’agosto del 2003 ad una riunione all’ONU dell’UNGLOBE, associazione dei dipendenti ONU di solo orientamento omosessuale o bisessuale, in cui si individuò il principale nemico da abbattere nella Chiesa. A questo proposito è bene sottolineare che le lobbies gay esercitano pressioni un po’ dovunque e in molti ambiti. In Scozia, ad esempio, a seguito dell’Equality Act 2006 le agenzie cattoliche per l’adozione potrebbero essere obbligate ad affidare i bambini anche a coppie omosessuali. Infine – a mo’ di paradigma delle discriminazioni che devono subire gli organismi di ispirazioni cattolica – ricordiamo il caso di Mukesh Haikerwal, Presidente della Australian Medical Association, il quale recentemente ha auspicato che gli enti legati alla Chiesa cattolica non gestiscano più gli ospedali dal momento che non forniscono servizi quali l’aborto, la sterilizzazione e la fecondazione in vitro. Dieci mosse per mettere in scacco la cultura cristiana e ancor prima il senso comune. Ma dalle nefandezze degli altri si può sempre imparare qualcosa di utile: perché non rubare a costoro qualche trucchetto ed usarlo a fin di bene? (Studi Cattolici Luglio-Agosto 2008 n. 569/70)
Severino: il Papa è relativista
Oggi sembra abbastanza ovvio che alcuni cattedratici della Sapienza e loro relativi accoliti-laureandi hanno rifiutato l’ingresso in università non a Benedetto XVI, bensì a Joseph Ratzinger. Non al Vicario di Cristo, al Successore di Pietro, bensì al filosofo e teologo tedesco. Quello che non può e non deve entrare in aula magna è un certo pensiero, è una posizione speculativa che una fetta dell’accademia universitaria non accetta. Ma la domanda da porsi a riguardo è la seguente: perché tale rifiuto? Le risposte sarebbero molteplici naturalmente. Però, dopo un articolo di Emanuele Severino sul Corriere della Sera di Sabato 19 Gennaio, si aggiunge al novero delle possibili risposte un dubbio: ma siamo certi che il pensiero, la dottrina, i discorsi del Papa siano stati correttamente intesi? Siamo sicuri che chi rigetta le argomentazioni del filosofare cristiano le abbia dapprima comprese appieno? Pare di no.
Rileggiamo l’articolo di Severino e scopriremo come in esso si incontrano ad ogni piè sospinto fraintendimenti e storture del pensiero cristiano (e non solo cristiano).
Severino correttamente scrive che “una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri – dice Platone – li si può e li si deve abbandonare”. L’affermazione non fa una grinza. Purtroppo dopo qualche riga, con un’acrobazia priva dei requisiti della retta deduzione, il Nostro conclude che “la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtù, ecc…) delle religioni non può avere verità”. In realtà Platone e con lui i classici del pensiero greco non rigettavano la religione in toto – e nemmeno il mito – ma solo quelle espressioni religiose che contraddicevano la verità. Se nell’Eutifrone il filosofo appariva critico nei confronti della religio dei suoi contemporanei, proprio perché falsa e non giusta, nel Le Leggi Platone insegna che occorre venerare gli astri a motivo del loro ordine e suggerisce persino che il culto religioso sia imposto ai cittadini. Riguardo poi al mito, lo stesso Platone usa il celebre mito della caverna ne La Repubblica. Per non parlare poi degli altri 15 miti platonici: da quello del carro e dell’auriga a quello di Prometeo. Da questa asserzione di Severino assai imprecisa ne discendono a catena altre di matrice simile. La prima pretende che sia esclusivamente la filosofia ad essere capace di mettersi in ricerca della verità e di trovarla: “il senso dell’incontrovertibile e della “verità” è stato esplorato dalla filosofia, non dalle religioni”. Come corollario a questa asserzione il professor Severino aggiunge che “la filosofia […] riesce a mostrare l’impossibilità di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo del divenire”. Purtroppo è difficile dimenticare che San Tommaso D’Aquino, autore che lo stesso Severino cita più volte successivamente, non solo prova razionalmente l’esistenza di Dio nella sua Somma Teologica, ma sempre con il solo uso della ragione riesce ad individuare alcune caratteristiche di Dio, tra le quali proprio quelle elencate dal filosofo bresciano: eterno, creatore, sommo bene (“ama”), causa incausata, o atto puro che dà luogo al perenne divenire (“domina il mondo del divenire”). Ma c’è di più. Tommaso, come è noto, fu capace di tali dimostrazioni perché fece sue alcune metodologie di indagine di Aristotele: pensiamo, solo per fare un esempio, alle argomentazioni che ruotano intorno al concetto di “motore immobile”. Quindi non solo la filosofia scolastica ha potuto provare l’esistenza di Dio e descriverne in parte le sue qualità, ma lo stesso pensiero greco ha dato un notevole contributo in questo senso. Quel pensiero greco, tutto incentrato sulle potenzialità della ragione, preso da Severio come vessillo utile per marcare le distanze dal divino.
Ma proseguiamo nella lettura. Severino ad un certo punto cita il Papa il quale afferma che “ragione e fede […] hanno bisogno l’una dell’altra”. Il filosofo italiano non accetta questo assunto dato che, come già prima esposto, solo la ragione, quindi solo il filosofare, ha il copyright sulla verità. Unicamente “la ragione è sapere incontrovertibile”, e “quindi ogni altra forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile”. Da qui discende la conclusione che la fede non serve a nulla, dal momento che la ragione è pienamente autosufficiente. E’ vero, ammette Severino, che l’idea di fede proposta dal Pontefice è ossequiosa della ragione “ma questa “ragionevolezza” (la stessa fede lo riconosce) non può essere la verità incontrovertibile che può apparire all’uomo in quanto tale. La fede non può essere l’incontrovertibile perché altrimenti essa non sarebbe dono soprannaturale, “grazia”, rivelazione di Cristo a cui l’uomo non può giungere (daccapo secondo la fede) con le sue sole forze”. Riepiloghiamo: la ragione è incontrovertibile, cioè capace da sola di risultati certi e capace di far propria la verità (anche se a volte è soggetta ad errore, ha premura di precisare il Nostro); invece la fede è controvertibile, cioè incapace in assoluto di arrivare alla verità. Quindi la ragione non ha bisogno della fede. Severino, proseguendo nella sua logica argomentativa, sostiene perciò che se il Papa afferma la reciproca dipendenza della fede e della ragione – ognuna ha bisogno dell’altra – significa che entrambi i saperi sono controvertibili, perché da sè non saprebbero arrivare alla verità. Ma dire che non solo la fede è controvertibile, ma anche la ragione è controvertibile, significa asserire l’incapacità della ratio di conoscere la verità. E se la ragione non può dar conto della verità significa sposare le tesi del relativismo e dello scetticismo. Ergo il Papa è relativista. Così infatti Severino interpreta il pensiero del Papa: “il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile”. In sintesi: se la ragione ha bisogno della fede, significa che l’intelletto da solo è incapace della verità, e viceversa. Infine il giornalista-filosofo aggiunge che “le tesi del Pontefice che la ragione abbia bisogno della religione cattolica, non è la tesi di Tommaso D’Aquino”.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Ragione e fede sono due forme di sapere. Entrambi per loro natura sono capaci della verità. Però, ed è qui sta il passaggio che forse sfugge al Nostro, ragione e fede hanno due campi di ricerca della verità diversi. Non opposti, non in conflitto tra loro ma semplicemente differenti. La ragione indaga l’ambito del naturale e del metafisico: i fenomeni empirici (quelli per intenderci oggetto di ricerca della scienze naturali), le astrazioni matematiche e della fisica, la logica, il pensiero, gli atti umani, le categorie del bene e del male, etc. Anche l’esistenza di Dio e le sue caratteristiche come abbiamo visto sono argomenti che possono essere affrontati con successo dall’intelletto. La fede invece si occupa del soprannaturale, cioè di quella parte della metafisica non accessibile alle sole forze dell’intelletto naturale. Essa può conoscere con certezza (la fede è certa, si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica) ciò che le viene rivelato da Dio (anzi: forse e in un certo qual modo potremmo dire che la fede è in sé una conoscenza “più certa” del sapere intellettivo dato che viene direttamente dal Creatore cioè dal Conoscitore di tutte le cose). Il credente infatti sa per esempio che nell’Eucaristia è presente realmente Dio, sa che Gesù è Dio e conosce con certezza l’esistenza dell’Inferno del Purgatorio e del Paradiso. Tutte realtà che se non fossero state svelate da Dio stesso non sarebbero state mai conosciute dall’uomo. Anche la fede quindi, per usare l’espressione severiniana, può essere incontrovertibile, perché conoscenza certa di cose rivelate. Anche la fede è un sapere, un sapere però che si rivolge ad oggetti differenti rispetto a quelli propri dell’intelletto. La ragione conosce ciò che “il naturale e il meta-empirico” offrono alla sue capacità cognitive; la fede altresì conosce ciò che a Dio è piaciuto mostrare. L’affermazione di Severino che la fede è incapace di verità dato che è dono, è grazia, è priva di consequenzialità logica. Dal fatto che la materia su cui si condensa l’attenzione della fede è donata da Dio non discende la conseguenza logica che alla fede non possa accreditarsi la qualifica di sapere certo, quindi incontrovertibile. Non si rileva cioè un necessario processo di inferenza. Una cosa è l’oggetto della conoscenza (per la ragione questo oggetto è presente nel naturale e nel metafisico, per la fede è svelato da Dio), ed altra cosa è la conoscenza in se stessa. Se Tizio decide di regalarmi un orologio ciò non comporta che non sarò capace di sapere come funziona questo orologio. Il dono, la grazia non configgono con il sapere della fede, bensì ne sono il presupposto ineludibile.
Ora, perché fede e ragione hanno bisogno una dell’altra, come afferma il Papa e come si legge nell’enciclica Fides et ratio? La risposta in modo implicito è già stata data poco prima. Le facoltà intellettive e la virtù della fede se uniscono le forze possono completare il puzzle della verità. L’uomo infatti è spirito incarnato, è composto di materia e spirito, di naturale e soprannaturale. La ragione ha in mano le tessere del puzzle per ciò che attiene al naturale e al metafisico, la fede per ciò che interessa il soprannaturale. Senza l’apporto della ragione la fede saprà sì comporre la propria parte di puzzle ma rimarrà monca di quelle tessere utili per completare il quadro, tessere che solo la ragione possiede. E viceversa. L’unità della verità deriva dall’unità degli sforzi di ragione e fede. Due elementi che si integrano e che non si contrappongono. Il sapere dell’intelletto non è quindi denotato da relatività, come vorrebbe far credere Severino commentando le parole del Papa, dato che esso può conoscere con certezza alcuni enti, ciò a voler dire che è capace della verità in merito agli oggetti di sua competenza; bensì è limitato, cioè non può conoscere tutto: esiste un campo del conoscere che è di pertinenza della fede. Limitato non significa relativo.
Ma ragione e fede hanno bisogno una dell’altra anche per un altro motivo. Ragione e fede sono sì distinte ma non separate. Il distinguo si spiega con un esempio. Testa e collo sono parti del corpo ben distinte (per fisionomia, per funzione, etc), ma non sono separate: sono collegate. Senza il collo la testa non potrebbe essere irrorata dal sangue, non potrebbe compiere nessun movimento, etc. E ugualmente un collo senza testa…. avrebbe poca vita. Così è per la ragione e fede: una dipende dall’altra. La fede poggia sulla ragione e la travalica; comprende in sé la ragione ma la supera, cioè la perfeziona. Facciamo un esempio. La fede cattolica ci dice che Gesù di Nazareth è Dio. Requisito prioritario, ma ovviamente non esclusivo, per affermare ciò è dato dal fatto che Gesù sia davvero esistito e non sia un personaggio mitologico. Se Gesù non fosse mai nato viene meno anche di conseguenza il dato di fede che egli sia Dio. E scoprire che in Palestina 2.000 anni fa è vissuto una persona di nome Gesù che ha fondato un nuovo culto è compito della storia, cioè compito della ragione che indaga il passato. In questo caso la fede ha bisogno della ragione.
Ma anche l’intelletto ha bisogno della fede. Severino afferma – tra le righe e quindi in modo implicito – che San Tommaso disegnava un ritratto della ratio naturale indipendente dalla fede. Quella ratio naturale che è alla base delle riflessioni del Dottore Angelico sulla legge naturale. Purtroppo anche in questo caso il pensiero dell’Aquinate è altro. Infatti Tommaso scrive nella Somma Teologica: “la luce della ragione naturale, che ci permette di discernere il male e il bene, altro non è in noi che un’impronta della luce divina” (I-II, q. 91, a. 2). Ed nello scritto In Epistulam ad Romanos: “legge dello spirito è lo Spirito Santo […] che, inabitante nell’anima, non solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l’intelletto sulle cose da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine” (c. VIII, lect. 1). Inoltre nel In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta similmente, riguardo alla legge naturale, si trova scritto che essa “altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. […] Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione” (Prologus: Opuscula teologica, II, n. 1129). L’intelletto è quindi l’impronta luminosa della sapienza divina che permane in noi. Dipendenza ontologica da Dio, non indipendenza dunque, seppur la ragione abbia in sé le risorse sufficienti – fornite da Dio – per conoscere la verità. Appare così evidente che per Tommaso la ragione senza la luce divina sarebbe costretta a vagare nel buio. In più occorre ricordare che ogni pensiero, anche quello del non credente, si può esplicare perché Dio lo permette. Infatti il mondo non solo è stato creato da Dio, ma sussiste nel tempo perché Dio lo vuole. Se per assurdo ad un certo momento Dio si “distraesse” dalle cose create, tutto sarebbe risucchiato in quel nulla da cui Dio chiamò ad esistenza le cose. Perciò noi siamo in grado di usare l’intelletto grazie a Dio. Ma non solo. Chi prega e si accosta ai sacramenti riceve un particolare aiuto divino chiamato “grazia”, la quale innalza l’attività dell’intelletto ed eleva le sue capacità naturali.
In sintesi ragione e fede poggiano una sull’altra, ma non come due zoppi che si aiutano sorreggendosi a vicenda, per usare l’immagine di Severino, ma “come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”, per usare le parole iniziali dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II.