Dimenticare la legge naturale è smarrire se stessi

Amleto, nel suo celebre monologo, interrogava se stesso così: “se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli”. Il giovane Principe di Danimarca percepiva nelle sue carni il dissidio interiore che è anche uno dei tormenti dell’uomo moderno: lottare o lasciarsi vincere? Vivere prendendo in pugno la propria esistenza o abbandonarsi alla corrente? Appunto: essere o non essere? La legge naturale è proprio questo: un imperioso comando che obbliga ad essere. Ad essere pienamente se stessi e rifiutare recisamente tutto ciò che contrasta con la nostra intima natura di uomini. La legge di natura inscritta nei cuori è tensione alla plenitudo essendi, alla pienezza d’essere e quindi alla felicità. E’ quel grido che scuote le coscienze addormentate: “Morire, dormire; nulla più: e con un sonno dirsi che poniamo fine al dolore e alle infinite miserie, naturale retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente”. Vivere di conserva, sparare qualche colpo dalle retrovie per non esporsi al tiro incrociato delle avversità dell’esistenza oppure saltar fuori dalle barricate, esporsi per essere pienamente chi dobbiamo essere? Cedere alle piacevolezze del male o scorticarsi l’anima per fare il bene?
La legge naturale, se ascoltata, ci costringe ad uscire allo scoperto. Un obbligo che non è fine a se stesso come aveva inteso Kant: devi perché devi. Un obbligo che non nasce neppure dal capriccio di Dio o chi per Lui: leggi Chiesa cattolica. No, nulla di tutto questo. Un obbligo che è invece preludio di felicità. I doveri morali sono tali perché strada necessaria per arrivare ad essere felici. Se vuoi essere te stesso dovrai agire di conseguenza. Un dovere morale che quindi paradossalmente libera. L’uomo, che i sociologi in golfino di cachemire definiscono postmoderno, non ha semplicemente perso il senso morale dei suoi atti, ma ha perso ben di più. Ha smarrito se stesso. Ed è inutile cercarlo in India. Si è addormentato, come ci ricorda Amleto. Ha rinunciato a vivere e persegue chimere. Queste sì che invece lo rendono schiavo. La legge naturale è quel fastidioso e insieme benefico richiamo a svegliarsi, a riappropriarsi di se stessi. E’ una chiave di felicità custodita nella nostra natura, in noi presente ma che ci proietta aldifuori di noi, perché solo le azioni pratiche orientate al bene costruiranno realmente la nostra persona umana. Dire che la chiave della felicità è in noi può suonare un po’ “new age”. Quasi a voler ripetere uno dei tanti slogan in voga oggi dal sapore preconfezionato: “credi in te stesso”, “trova la sorgente della luce che è in te”, “pensa positivo”, “sei energia da vivere”. Il senso è invece altro: ognuno di noi custodisce nell’intimo di sé l’immagine perfetta dell’uomo e della donna che deve diventare. Il progetto c’è già: occorre solo comprenderlo e volerlo applicare.
La strada del bene e della felicità è già indicata dalla nostra natura. Una felicità che alla fine si traduce nel desiderio insopprimibile di amare e di essere amati.
[tratto da T. Scandroglio, La legge naturale. Un ritratto. Edizioni Fede & Cultura, Verona, 2007]

Pagare le tasse ad uno Stato abortista?

Il diritto positivo – cioè l’insieme leggi dello Stato – riceve il suo contenuto direttamente o indirettamente dalla legge naturale. Quindi per aversi una legge giusta questa dovrà essere consona ai principi della legge naturale. Da qui nasce l’obbligo per i cittadini di obbedire alle leggi statali, dato che esse spingono ciascuno di loro alla virtù, ad una condotta retta sotto il profilo morale, realizzando così il bene comune. Ma qualora una legge dello Stato prescriva condotte difformi da quelle previste dalla legge naturale, il cittadino è obbligato ad obbedire alla legge ingiusta? Cosa fare con una legge che contraddice i principi di morale? La risposta che forniscono sia Sant’Agostino che San Tommaso è molto simile: una legge ingiusta non obbliga in coscienza e quindi si può e a volte si deve trasgredirla. Questo perché una legge ingiusta non è propriamente una legge ma è corruptio legis, corruzione della legge. Il diritto deve essere giusto cioè conforme a morale, altrimenti cessa di essere diritto dal punto di vista sostanziale dato che non soddisfa più il suo fine proprio: educare alla virtù in vista del bene comune.
Più nello specifico una legge può essere ingiusta:
? per il fine: quando una legge comanda cose non utili per il bene comune ma per il bene solo di alcuni singoli. Pensiamo ad una norma che assegna immotivatamente dei privilegi economici ad uomini di governo.
? per l’autorità: quando una legge è emanata da chi non ha il potere per farlo. Ad esempio un legge sarebbe ingiusta se fosse frutto di un provvedimento di un giudice.
? per il contenuto: quando un legge obbliga o semplicemente permette comportamenti illeciti dal punto di vista morale. Esempi di normative di questo tipo sono la legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza, la legge 898/1970 sul divorzio e la legge 40/2004 sulle tecniche di fecondazione artificiale
Ma ora poniamoci un’altra domanda: come reagire di fronte ad una legge ingiusta? L’insegnamento del Dottore Angelico anche qui ci viene in aiuto. Dato che una legge iniqua non obbliga in coscienza parrebbe logico concludere che dovremmo sempre trasgredire ad un tale comando. In realtà occorre tenere in considerazione il bene comune prima di prendere una simile decisione. Se la scelta di non obbedire ad una legge ingiusta può provocare sommosse, agitazioni di massa, scontri violenti e può portare all’anarchia allora è preferibile, proprio per non causare mali maggiori, obbedire alla legge ingiusta. Si deve cioè valutare se “il gioco vale la candela”. Se per estirpare delle erbacce dal mio orto devo radere al suolo anche tutti gli ortaggi che sto coltivando allora è preferibile desistere dall’intento. La decisione quindi se obbedire o meno è lasciata in questi casi al prudente giudizio del singolo. Facciamo un esempio avvertendo il lettore che tale esemplificazione non vuole avere la pretesa di essere assolutamente giusta in ogni caso e situazione. Nel nostro ordinamento le tasse che noi paghiamo vengono devolute ad uno Stato che tra gli altri “servizi” promuove l’aborto procurato. I nostri soldi quindi finiscono per sostenere una pratica oggettivamente lesiva del bene comune. In tal senso da una parte la legge che ci obbliga a pagare le tasse è giusta perché ognuno di noi deve contribuire anche economicamente al bene della società. Ma su altro versante uno degli effetti del nostro pagare le imposte è il sostentamento delle pratiche abortive, e perciò indirettamente questa stessa legge si tingerebbe dei colori dell’iniquità. Per questo motivo potrebbe sembrare lecito la scelta di quella persona che si rifiuta di assolvere i propri oneri di contribuente non pagando le tasse. Ma immaginiamo il caso che una gran parte della popolazione si comportasse così: sarebbe presto l’anarchia. Non solo le pratiche abortive continuerebbero, ma potrebbe accadere che chi avesse scelto di non pagare le tasse perderebbe di credibilità anche sul fronte della lotta per la difesa della vita nascente non avendo più peso decisionale e la risposta dello Stato verso gli inadempienti e verso la cultura che essi rappresentano sarebbe durissima bloccando ogni speranza di successo futuro, portando forse ad un incremento del numero di interruzioni volontarie di gravidanza. In tal modo la medicina sarebbe peggiore del male da curare. Certo: è una previsione. Le cose potrebbero andare diversamente, ma è proprio basandosi su queste stime sull’andamento futuro degli avvenimenti che il singolo deve decidere se è meglio obbedire ad una legge ingiusta oppure trasgredirla.
Tale discorso che verte sulla possibilità di rispettare una legge seppur ingiusta incontra un limite molto importante: mai si può compiere o favorire o suggerire un atto che leda direttamente e volontariamente un bene fondamentale. Mai si può fare il male. Facciamo ritorno all’esempio di prima. Pagare le tasse abbiamo visto che è un atto giusto di per sé, non è un’azione intrinsecamente cattiva. E non diventa un’azione cattiva anche se so che parte di quelle tasse foraggeranno attività non lecite. In questo caso non è un’azione malvagia perché non favorisco direttamente le pratiche abortive, ma solo indirettamente. Io pago non per incentivare il numero di aborti ma perché doveroso per il bene comune. La decisione di pagare o non pagare dovrebbe essere quindi presa tenendo in considerazione i motivi di opportunità politica appena visti. E’ un po’ come se io sapessi che un tale negoziante usa i proventi delle vendite per accrescere la sua collezione di film pornografici. Acquistare da lui della merce, pur essendo a conoscenza di questo suo “hobby”, di per se stesso non diventa un’azione cattiva, e quindi non c’è il dovere di non recarsi da costui (non c’è il dovere di non pagare le tasse in riferimento all’esempio di prima). Saranno semmai ragioni di opportunità e non motivazioni morali in senso stretto che mi suggeriranno di scegliere un altro negoziante da cui rifornirmi. Diverso sarebbe il caso invece in cui Sempronio, il quale non facesse il venditore per mestiere, mi vendesse un oggetto di sua proprietà perché a corto di soldi al fine di acquistare dell’eroina. A conoscenza del suo fine illecito io sarei obbligato a rifiutare la compravendita, dal momento che i miei soldi aiuterebbero direttamente Sempronio a compiere un’azione malvagia. Similmente, tornando all’esempio di matrice fiscale illustrato poche righe fa, se ci fosse un’imposta pensata esclusivamente per aiutare le donne che vogliono abortire, sarebbe obbligo del cittadino non versare quel tributo. Infatti pagare significherebbe favorire direttamente un atto malvagio. L’atto diretto a cooperare al male è tale perché i soldi che do a Sempronio e l’imposta pro aborto servono esclusivamente a fare del male.
In questa prospettiva ci sono leggi a cui non solo si può negare il proprio assenso ma si deve negarlo. [tratto da T. Scandroglio, La legge naturale. Un ritratto, Fede & Cultura, Verona, 2007]

Eutanasia & Ultima cena

Corruptissima respublica plurimae leges. Così lo storico Tacito ricorda ai suoi contemporanei negli Annales e così pare rammentare a noi: quando l’autorità pubblica è sommamente corrotta, innumerevoli sono le leggi. Il diluvio legislativo da cui da decenni siamo travolti è frutto della cancellazione progressiva ed efficace di una sola legge che conta: la legge della retta coscienza. O per tradurre tale espressione in altri termini: la legge naturale. Questa non è altro che una serie di principi universali ed oggettivi che sono scolpiti nel cuore di ogni uomo da sempre e che possono essere sintetizzati nella frase di San Tommaso: “Il bene deve essere fatto e ricercato, e il male evitato”. Una legge naturale che, se validamente seguita in coscienza, permette di sapere cosa e come fare in ogni circostanza. Una sorta di navigatore etico che per le difficili strade del viver quotidiano ti conduce alla meta prestabilita. Tolta tale legge – operazione propria di chi è appunto corrotto nell’animo – occorre ad essa sostituire una leggina per ogni nostro atto, un decreto per ogni circostanza in cui dobbiamo prendere una decisione. Uno sforzo anche inutile, se vogliamo, dato che questo scopo era stato raggiunto con un certo grado di successo dalla cosiddetta “consuetudine” almeno fino al giorno in cui Voltaire pronunciò la famigerata ed incandescente frase “Volete avere delle buone leggi? Bruciate quelle che avete, e fatene di nuove”. Il problema però è anche un altro. Eliminata questa norma a carattere morale l’uomo svilisce la sua dignità di persona e diventa bestia. E agli animali – si sa – occorre mettere il guinzaglio, le redini, bisogna imbrigliarli e percuoterli a nerbate perché ubbidiscano e da esseri bizzosi si convertano in placidi e mansueti cittadini. Insomma una lex che sia regola per la condotta dei consociati, utile per il controllo sociale, come avrebbe detto Kelsen, per instradare comportamenti inquieti in questa bellicosa esistenza postmoderna, in questa “aiuola che ci fa tanto feroci”, come invece scrisse il sommo Dante. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti: un oceano di leggi, norme e regolamenti la cui profondità è quasi insondabile. Un reticolo inestricabile pensato e voluto da un lato perché ogni desiderio diventi diritto, condannando il soggetto a trasformarsi in oggetto delle sue stesse pulsioni, e dall’altro affinché la nostra esistenza sia perfettamente e con minuzia controllabile da chi sta sui Colli Romani. E perciò dato che la voce della coscienza è diventata afona e incapace di dirti quali comportamenti nel concreto devi assumere, a questa è subentrata la norma giuridica. Ma non per tentare di mimare la voce suddetta, bensì per consegnarti nuovi stili di vita. Però a volte dalla proposizione di nuovi “diritti” si passa, con garbo ed eleganza, all’imposizione di questi. E’ ciò che è accaduto con il disegno di legge del senatore Marino riguardante le cosiddette “dichiarazioni di volontà anticipate” (conosciute anche come “testamento biologico”) e che da poco ha compiuto un anno di vita. Tale disegno di legge tra tutti quelli presentati in Parlamento è quello che ha più possibilità di passare, nel caso assai infelice che si decidesse di legiferare in materia. Le dichiarazioni di volontà anticipate non sono altro che una disposizione di volontà scritte in merito a trattamenti sanitari qualora il soggetto versi in stato di incapacità decisionale, o, detto in altri termini, quando non sia più cosciente. Sorvoliamo sull’inefficacia di tale strumento: l’inattualità del consenso per cui oggi da sano decido cosa fare della mia vita quando un giorno sarò malato; la probabile interpretazione erronea da parte del fiduciario, figura incaricata di dare attuazione al testamento biologico; la quasi impossibile previsione della patologia e dei relativi trattamenti sanitari a cui il futuro paziente andrà incontro; et similia. Sorvoliamo pure sul fatto che questo documento è lo stratagemma per introdurre l’eutanasia nel nostro paese. Sorvoliamo sulle affermazioni, un po’ logore, che fanno da contorno a questo disegno di legge secondo cui, dato che c’è l’eutanasia clandestina, occorre renderla lecita (a quando la legittimazione degli omicidi, furti, rapine, stupri, sequestri, anch’essi, da quanto ci risulta, clandestini?). Sorvoliamo su tutto ciò ed invece fermiamoci su un punto di questo DdL. All’art. 10 si legge “i cittadini sono tenuti a rendere la dichiarazione anticipata di trattamento”. Il principio su cui la cultura progressista e radicaloide continua a battere per far passare il testamento biologico è quello dell’autodeterminazione. La vita è mia e ci faccio quello che voglio. Se soffro e voglio farla finita, mi deve essere riconosciuto il diritto di morire. Sono quindi io che determino in tutto e per tutto la mia esistenza. Ma – e qui sta l’obiezione – se mi è permesso che sia io a decidere in toto su ogni aspetto attinente al mio corpo, alla mia salute, perché devo essere costretto a redigere il testamento biologico così come vuole il professor Marino? Non contrasta proprio con il principio dell’autodeterminazione il fatto che ci sia un obbligo in tal senso? La mia libertà di decidere cosa fare della mia vita non significa anche che possa decidere di non sottoscrivere un tale documento? La domanda è ovviamente retorica. Ma c’è un secondo punto da mettere in luce seppur brevemente: quale limiti assegnare al principio di autodeterminazione? Vi sono beni che il diritto, e il buon senso, chiama disponibili ed altri che invece definisce come indisponibili. La demarcazione tra questi due generi di beni non è netta. Nonostante ciò possiamo individuare alcuni beni dei quali per il loro valore (economico, affettivo, morale) si può disporre liberamente. Un’auto è un bene disponibile. Potrò comprarla, venderla, regalarla, smontarla: posso farci quasi quello che voglio (il “quasi” è d’obbligo: non mi è permesso per esempio investire un pedone con la mia macchina). E poi ci sono i beni indisponibili. Perché vi sono alcuni beni che il diritto – e prima di esso la morale – non mi permette di usare come voglio? Perché tali beni sono così preziosi, hanno un valore intrinseco così alto che sfuggono al dominio assoluto della mia libertà. La vita per esempio è un bene indisponibile. Posso sì “usare” di essa: posso scegliere di sposarmi oppure no, posso decidere di studiare oppure no, posso decidere di condurre una vita sedentaria oppure no, etc. Posso quindi compiere una serie quasi infinita di scelte attinenti alla mia vita, ma non posso scegliere di togliermela. Il potere di autodeterminazione che legittimamente ho sulla mia vita incontra il limite del divieto di suicidio. Il diritto di autodeterminazione non è assoluto, ma relativo, cioè si deve mettere in relazione con il diritto intangibile alla vita. Questo accade proprio perché la vita è un bene così prezioso che esorbita dalla sfera della capacità decisionale. In tal senso il legame che c’è tra me e la mia vita non attiene al concetto di proprietà: io non possiedo la mia vita. Bensì il nesso che lega me alla mia esistenza è quello proprio della tutela: io devo tutelare la mia vita. Non diritto di proprietà ma dovere di tutela. Nel concetto di tutela rientra sì la liceità di interpretare la propria esistenza così come uno vuole (sempre comunque nel rispetto delle norme morali), ma non rientra la possibilità di distruggere il bene “vita”. Per esemplificare: l’Ultima Cena di Leonardo è un dipinto che appartiene alla Comunità dei Domenicani. Il fatto che sia di loro proprietà non può permettere che questi decidano, per esempio, di applicare
una finestra nel centro di esso, di tinteggiare il muro dove è stato dipinto, o peggio di buttare giù tutta la parete. Se decidessero di farlo, non solo la sovrintendenza ai beni culturali, ma tutto il mondo artistico, culturale e politico interverrebbe subito gridando giustamente allo scandalo: “L’Ultima Cena è un bene di tutti!” Il Cenacolo vinciano è loro, ma non possono fare quello che vogliono. E’ un bene vincolato, ed è tale perché il pregio artistico è di incommensurabile valore. Un valore così alto che ti consente sì di intervenire sull’opera d’arte, ma solo al fine di migliorarla o di preservarne la bellezza. Nessuno sull’Ultima Cena si permetterebbe di dire: “Ormai non si vede quasi più nulla. E’ tutta danneggiata. L’opera è talmente compromessa che è inutile sforzarsi a prezzo di ingenti spese per tenerla “in vita”. Un dipinto così “malato” non ha senso recuperalo, né tantomeno vale la pena permettere l’accesso ai turisti adottando tante e tali cautele come il numero limitato di visitatori, il divieto di uso dei flash, l’analisi continua dei livelli di temperatura e umidità, etc. Meglio distruggerla”. Se lo dicesse verrebbe preso per pazzo. Invece simile ragionamento viene spesso fatto per i malati gravi: quelli in stato vegetativo permanente, i disabili come Piergiorgio Welby, i malati di tumore ma con buone prospettive di vita, e altri ancora. Ognuno di costoro vale ben più che un’Ultima Cena: le persone valgono più delle cose. Ognuno di essi vive una condizione di salute grave, disperata: è profondamente “danneggiato” nel fisico e nello spirito come il Cenacolo di Leonardo. Eppure per essi si propone l’eutanasia. Essi, chissà perché, non sono un bene di tutti. Ragionevole quindi l’intervento del GIP Renato Laviola che voleva contestare al dottor Riccio l’imputazione di “omicidio del consenziente” dato che ha staccato il respiratore a Welby decretandone la morte. Ragionevole perché lo stesso GIP aveva affermato che il diritto alla vita è di rango superiore rispetto al diritto del rifiuto alle cure, cioè rispetto al diritto di autodeterminazione. Ragionevole perché, infine, lo sguardo che si posa sul volto del malato grave e moribondo dovrebbe riconoscere in esso un’Ultima Cena vivente, dipinta da un artista dalle capacità divine.

Musica, ciò che è bello è naturale….

Perchè un tempo i contemporanei di Mozart e Beethoven andavano ad ascoltare le loro musiche e ne traevano diletto ed oggi invece quasi nessuno assiste più ad un concerto di compositori viventi – o acquista loro opere – e se lo fa poi il più delle volte se ne pente?

I motivi possono essere più di uno: non c’è più educazione musicale, c’è disaffezione verso la cultura alta, di spessore, il costo dei biglietti o dei CD è elevato, etc. Tutte ragioni molto buone, ma al fondo, forse, c’è una spiegazione più plausibile e più semplice: la musica di oggi è brutta. La musica cosiddetta “classica” all’inizio del Novecento ha cambiato nome ed ora si chiama, con un termine molto generico, “musica colta”. Se qualche lettore di buona volontà decidesse di avventurarsi in una sala da concerto per assistere all’esecuzione di un pezzo di musica colta ne uscirebbe con uno o entrambi dei seguenti stati d’animo. O estremamente divertito per l’assurdità quasi clownesca dei suoni che ha ascoltato, oppure molto abbattuto e schifato per la bruttezza della partitura. La musica contemporanea, in buona parte ma per fortuna non completamente, è musica quasi inascoltabile. Chiediamoci allora questo: cosa è successo alla musica verso l’inizio del Novecento? La musica classica e popolare, fino agli inizi del secolo scorso, era costruita su elementi che potremmo definire naturali. Spieghiamo il concetto. Il suono è un fenomeno naturale.

Se noi, come se fossimo in un laboratorio, prendessimo un suono qualsiasi, ad esempio un Do, e lo sezionassimo potremmo scoprire una cosa molto interessante. Quel suono Do è costituito da altri suoni, chiamati armonici. Cioè al suo “interno” ci sono altre note ben definite: un altro Do, un Sol, un Mi, e così via quasi all’infinito. E’ un po’ come quando esaminiamo lo spettro della luce: sappiamo che la luce bianca – quella del sole per intenderci – è formata dai colori dell’arcobaleno. Allo stesso modo per ogni nota: se la scomponiamo troviamo che essa è costruita con altre note, con altri colori della scala musicale. Questo è un fatto scientifico, nessuno si è messo a tavolino a stabilirlo: è un dato presente nella natura dei suoni. Però, ed è un altro elemento interessante, i suoni armonici di cui è fatta ogni nota non hanno tutti al nostro orecchio la stessa fisionomia. Detto in altri termini: questi suoni “secondari” sono più o meno dissonanti rispetto alla nota principale, cioè assomigliano più o meno alla nota di cui fanno parte. Alcuni di essi li sentiremo molto simili alla nota madre, più consonanti, altri invece li percepiremo come molto differenti, più dissonanti. Questo rapporto di consonanza-dissonanza che, lo ricordiamo, è un rapporto naturale, è stato da sempre la base della musica occidentale sia colta che popolare. La regola interna che pone i suoni in una relazione più o meno gradevole all’orecchio ha fondato la cosiddetta musica modale e poi quella tonale, dando vita alle regole del contrappunto e dell’armonia. Anche oggi se accendiamo la radio e sentiamo un brano di musica pop, anche quel brano è stato realizzato sulla base di queste regole. Tali legami di “parentela” tra i suoni hanno generato la musica monodica (pensiamo al gregoriano), cioè alla musica formata da una sola melodia, poi la musica polifonica (pensiamo ad esempio a Monteverdi) in cui più voci si intersecano, poi alla musica Barocca, Classica in senso stretto, Romantica, etc. Dall’antichissimo brano “Victimae paschali laudes” alla Decima Sinfonia di Gustav Mahler del 1910 questa legge naturale dei suoni è sempre stata rispettata. In questo senso comporre seguendo simili norme acustiche-musicali significava scrivere facendosi capire da tutti. Dato che, come spiegato, queste regole sono presenti nella natura dei suoni, l’uomo naturalmente le ha colte e spontaneamente le ha comprese senza difficoltà almeno nel loro impianto di base. Espresso in altre parole: la musica occidentale, sia quella di Bach che quella tradizionale formatasi tra la gente semplice, è un linguaggio che tutti possono capire nei suoi elementi fondamentali perché usa parole comprensibili da tutti. Questa musica è come se, una volta udita, mettesse in vibrazione delle corde naturali presenti nel cuore di ogni uomo. C’è un’assonanza tra come è fatto l’uomo, la sua natura, e una musica che conserva in sé questi elementi naturali. E’ proprio per tale motivo che possiamo affermare che il bello ha in sé delle regole naturali, dei rapporti interni già dati e non è frutto dell’invenzione dell’uomo. In sintesi: ciò che è naturale è anche bello. Anzi: proprio perché è naturale è bello. Sta all’uomo invece scoprire queste regole naturali ed esprimerle convenientemente con i suoni, la pittura, la scrittura, la danza, etc. E’ anche ovvio però che un brano musicale ci potrà piacere o meno non solo se rispetta queste regole naturali acustiche ma anche se si avvicinerà alla nostra sensibilità, al nostro modo di pensare, ai nostri gusti, al nostro vissuto, alla nostra cultura e formazione, etc. Fino al Novecento simile impianto “naturale” è stato sostanzialmente rispettato. Poi a tale lingua parlata e comprensibile da tutti si è deciso di sostituirne un’altra inventata a tavolino. E’ ciò che ha fatto per esempio Arnold Schoenberg nei primi anni del XX secolo. Egli inventò un sistema di composizione noto come dodecafonia, che letteralmente significa “delle dodici note”. Ogni scala musicale – perlomeno nel nostro sistema chiamato temperato – è formata da dodici note. Sulla tastiera di un pianoforte, per esempio, per andare da un Do al Do più acuto successivo devo suonare dodici note: do, do diesis, re, re diesis, etc. fino ad arrivare al nuovo Do più acuto che rappresenta la tredicesima nota (v. Fig. 1). Se prendiamo queste dodici note e le mischiamo otteniamo infinite sequenze di suoni (v. Fig. 2). E’ un po’ come anagrammare una parola: Roma, diventa amor, mora, orma. Ma può diventare, ed è qui il problema, una parola non di senso compiuto, ma una parola incomprensibile perché non presente nel nostro vocabolario come maro, rmao, oamr, etc. L’importante è, per Schoenberg, rispettare sempre e con rigore la sequenza scelta inizialmente. Il risultato di queste composizioni molto complesse e difficili non solo per chi ascolta ma anche per l’esecutore è il caos. Un caos che paradossalmente è frutto di calcoli matematici estremamente complicati. Il problema di Schoenberg – che va detto poi abbandonò questa strada – e di uno stuolo di altri compositori, suoi contemporanei e venuti dopo di lui, è stato che hanno creato artificialmente una nuova lingua, con un nuovo alfabeto e una nuova grammatica, non parlata da nessuno e quindi da nessuno comprensibile. Un nuovo linguaggio che non aveva in sé delle regole naturali per essere compresa, regole che tutti posseggono, ma che era frutto dell’assoluto arbitrio dei compositori, i quali per essere capiti, dovevano poi spiegare ai loro uditori pezzo per pezzo il come e il cosa avevano scritto. In tal modo si è venuti meno ad una delle finalità dell’opera d’arte che è quella di essere compresa da tutti, cioè a livello universale, senza bisogno di interpretazioni, almeno nei suoi contenuti di base. La musica invece degli ultimissimi anni dell’Ottocento e dei primi del Novecento di autori quali Bruckner, Mahler, Richard Strauss, Scriabin, Rachmaninov, era riuscita a preservare quelle regole naturali musicali di cui si parlava prima ma evolvendole, così come si era sempre fatto del resto. E’ questo il concetto di tradizione in musica: un nuovo anello di una lunga catena, ma attaccato a quello precedente. Solo così l’innovazione è comprensibile da tutti. Proprio come avviene nelle lingue parlate che subiscono mutamenti ma in modo naturale, perché spontaneo e graduale: al passo con le sensibilità dei tempi. La soluzione per creare una musica esteticamente di valore è allora quella di non rompere con il dato reale del bello inventandosi nuove sintassi espressive, ma è quella di tornare a scoprire queste regole naturali vivendole ed interpretandole secondo la sensibilità odierna. Da qui nascerà l’originalità e la qualità imperitura dei cosiddetti capolavori. Così come fecero i buon Bach, Mozart e Beethoven.