Se Ruini dà un brusco colpo di freno ai “guardiani della rivoluzione” bergogliani

di Eugenio Capozzi.

L’enorme risonanza che ha avuto la recente intervista rilasciata dal cardinale Camillo Ruini al “Corriere della Sera”, e le veementi reazioni da essa suscitate, rappresentano il segno evidente dello stato di confusione nel quale versa attualmente la Chiesa italiana. Le dichiarazioni di Ruini, infatti, non possono essere interpretate che come il tentativo di ripristinare un equilibrio rispetto ad una deriva che sta profondamente alterando il baricentro nel rapporto tra il mondo cattolico e i temi principali del dibattito pubblico nel nostro paese, e non solo. E come tali sono state infatti percepite da molti esponenti del clero e del laicato che, evidentemente, considerano quella alterazione non soltanto positiva, ma parte di un processo “rivoluzionario” avviato a loro avviso dal pontificato di papa Francesco. Le reazioni piccate, quando non insolenti, di alcuni tra questi sembrano quelle dei passeggeri di un treno ad alta velocità, convinti di giungere in orario a destinazione, davanti ad un inatteso e per loro ingiustificato semaforo rosso.

In anni non molto lontani Ruini, come presidente della Cei e poi coordinatore del Progetto culturale voluto da papa Benedetto XVI, è stato il leader indiscusso di una stagione in cui la Chiesa ha svolto, forse per l’ultima volta, un ruolo centrale nel dibattito civile italiano, fornendo alla classe politica indicazioni molto forti sui “principi non negoziabili”, divenuti nel XXI secolo uno tra i principali terreni di scontro ideologico nelle società occidentali secolarizzate.

Quella stagione si è chiusa con le dimissioni di Joseph Ratzinger, la crisi dell’assetto della “seconda Repubblica”, l’esplosione dell’antipolitica. L’ascesa al soglio pontificio di Jorge Bergoglio ha segnato l’avvento della “Chiesa in uscita”, che ha lasciato le sue postazioni consolidate per lanciarsi nella sfida di una nuova evangelizzazione “senza rete”, affidata all’avvio di “processi” di dialogo con un mondo globalizzato del quale viene accettato come punto di partenza ineluttabile il frammentato relativismo.

Questo slancio è stato interpretato da molti entusiasti apologeti (per non dire “profeti”) del nuovo corso come la realizzazione del sogno di tutto il catto-progressismo post-conciliare: una Chiesa senza più dogmi, regole, limiti, completamente immersa nella dialettica sociale, fino al punto da far coincidere pressoché per intero l’evangelizzazione con la liberazione dalle ingiustizie, dalle disuguaglianze, dalle discriminazioni.

La posizione di papa Bergoglio in merito sembra più cauta. Ma di fatto egli ha lasciato in questi anni la briglia parecchio sciolta agli aedi della “rivoluzione”, autorizzando spesso la sensazione di imminenti svolte epocali su temi fondanti nell’identità del cristianesimo cattolico: famiglia, sessualità, celibato sacerdotale, ruolo femminile nella Chiesa, rapporti con altre confessioni e culti. E sul piano propriamente politico ha intrapreso una strada molto diversa da quella ratzingeriana/ruiniana, archiviando dichiaratamente il riferimento ai “principi non negoziabili” e schierando invece decisamente la Chiesa come paladina delle grandi ondate migratorie, sostenitrice dell’integrazione europea, avversaria dei sovranismi. Il risultato di questi sommovimenti è stata, complessivamente, la percezione diffusa di una indefinita rlativizzazione etico-dottrinaria, e al contempo di un inequivocabile, complessivo riposizionamento politico della Chiesa a sinistra, in particolare nell’attuale quadro politico italiano.

Rispetto a tale processo, l’intervista di Ruini giunge come un potente “richiamo all’ordine”, un brusco colpo di timone (o di freno) inteso a ripristinare la centralità dell’identità cristiana consolidata nei rapporti con la sfera secolare, bilanciando tradizione e innovazione, e soprattutto combattendo in primo luogo lo smarrimento dell’identità dell’uomo in un mondo scristianizzato.

Da qui la difesa, da parte di Ruini, del celibato sacerdotale come presidio dell’integrità del loro ruolo, contro le fughe in avanti da qualcuno invocate alla luce del recente Sinodo amazzonico. Da qui l’insistenza su una linea di prudenza che bilanci la solidarietà con l’attenzione ai temi dell’ordine pubblico e della sicurezza sociale in tema di immigrazione, coerente con un equilibrio in passato tradizionalmente mantenuto dalla Chiesa. Da qui l’esortazione a recuperare un rapporto meno unilaterale e pregiudiziale con le forze politiche: in cui si inseriscono le parole di apertura verso Matteo Salvini, accolte con scandalo dai pasdaran ecclesiastici che vedono il leader della Lega e della destra italiana come poco meno che Satana in persona.

Da qui, infine, l’aperto scetticismo verso la possibilità della fondazione di un nuovo partito cattolico, che Ruini vede come un obiettivo oggi velleitario in un’Italia anch’essa ormai incalzata da una secolarizzazione radicale, indicando con disincantato realismo invece la continuità con la strategia, da lui sostenuta, di un costante lavoro per influenzare gli schieramenti esistenti. Un giudizio senza mezzi termini che taglia decisamente le ali – e manda su tutte le furie – quei quadri del clero e del laicato pronti a fondare un nuovo soggetto per inserirsi negli equilibri di future coalizioni di centrosinistra.

Sono tutti, quelli di Ruini, richiami alla moderazione persino fisiologici in un dibattito interno ispirato a criteri pragmatici, ma che vengono considerati invece come il fumo negli occhi, come poco meno che un’eresia, da quella pattuglia di “guardiani della rivoluzione” ormai (o forse fin dall’inizio) preda di un approccio del tutto ideologizzato alla propria professione di fede e missione nel mondo.

Se il cardinale ha scelto di sfidare i prevedibili attacchi di questa fazione, è perché, forse, avverte scricchiolii inquietanti nella struttura della Chiesa, teme seriamente le possibilità di lacerazioni scismatiche, a sinistra o a destra – come dichiara anche (“non lo penso, e spero di no con tutto il cuore) a precisa domanda durante l’intervista – e vuole gettare nell’agone il peso della sua indiscutibile autorevolezza per contribuire a scongiurarle. Una preoccupazione profonda che, si può forse ipotizzare, non è soltanto sua, ma rispecchia in qualche misura anche quella di una presenza ancor più autorevole in Vaticano: il papa emerito Benedetto XVI.

Fonte: l’Occidentale

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