“Ilva? Una tragedia. E il reddito di cittadinanza ha ucciso il Sud”. Intervista ad Alessandro Sansoni

Intervista di Federica Ciampa.

“Serve un grosso investimento dal punto di vista della costruzione di un arcipelago di infrastrutture culturali di destra. Quando parlo di cultura mi riferisco al motore spirituale di una Nazione e, quindi, ad un progetto politico, che si rifletta in ogni ambito: una vera idea di Paese! Questo è necessario per costruire una valida proposta culturale, metapolitica e politica per il centrodestra. È chiaro che c’è bisogno di coloro che hanno il talento e le capacità da mettere in campo; vanno difesi e valorizzati i nostri elementi in tutti gli ambiti, a 360°, siano essi accademici o facenti parte della burocrazia di Stato o della sanità. Bisogna ragionare in termini gramsciani di “egemonia culturale”. La sinistra ha saputo fare ciò molto bene, quindi ora tocca a noi…”

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“È difficile pensare che il Sud possa immaginare il proprio futuro con un’economia alla cubana, fatta solo di ricreazione turistica e di reddito di cittadinanza, perché i giovani che vogliono stabilità e soddisfazione professionale hanno dei problemi a restare a casa propria e a realizzare, non dico i sogni, ma almeno un progetto di vita decoroso”. Ilva, i problemi del mezzogiorno e le possibili soluzioni, il futuro del centrodestra e le prospettive per radicare una cultura liberal conservatrice. Di questo e di altro ne abbiamo parlato con Alessandro Sansoni, Direttore di “Cultura Identità”.

Direttore, partiamo dall’Ilva. Facendo una forzatura giornalistica, secondo Lei chi ha vinto e chi ha perso in tutta questa tragicomica vicenda?                                                               

Questa è una vicenda dalla quale nessuno può uscire vincitore, perché stiamo parlando di un disastro e di un pasticcio allo stesso tempo. Sì, è una vicenda tragicomica, ma la tragedia surclassa la comicità, perché il tutto ricade sulla pelle di 10.000 lavoratori che adesso non hanno ben chiaro quale sarà il loro futuro. Inoltre, è una situazione catastrofica per il Mezzogiorno, in quanto Ilva è sì un asset strategico per il Paese, ma soprattutto per il Mezzogiorno, per tutto l’indotto che genera e anche per il ruolo che ha nelle forniture, in entrata ed in uscita. Naturalmente è anche una vicenda drammatica anche per la credibilità di questo Paese perché, guardando alla storia di questo negoziato – che ha interessato anche gli anni precedenti – con ArcelorMittal si vede uno Stato italiano che è poco credibile in quanto le carte in tavola vengono sistematicamente cambiate. Non c’è certezza del diritto e delle condizioni di lavoro. Questo aldilà di ciò che si può pensare di una multinazionale che è apolide, che pensa ai suoi affari e, certamente, non è qui per fare beneficienza. La logica conclusione di tutto ciò – oltre all’ennesima riprova dell’assenza di una politica di relazioni industriali e di una politica industriale – indica una politica che ne esce a pezzi. Infatti, oggi abbiamo due capi in testa a due schieramenti che, in qualche modo, giocano sulle spoglie dell’Ilva. Ci sono quelli favorevoli e quelli contrari alla fabbrica, entrambi capitanati da una Procura: la Procura di Milano da una parte e la Procura di Taranto dall’altra. Questo significa che la politica, in generale, ha fallito al punto da non subire semplicemente l’attacco della magistratura, ma da farsi sostituire da essa stessa, la quale, appunto, rappresenta due posizioni.

In tutto questo marasma, oggi qual è il vero pericolo che corre Ilva?

Il pericolo vero è che l’Ilva di Taranto possa incorrere nello stesso destino dell’Ilva di Bagnoli: quest’ultimo è un quartiere di Napoli, nel quale, oltre vent’anni fa è stata chiusa l’Ilva napoletana e nel quale oggi non abbiamo né la produzione industriale, né la bonifica ambientale: lì, semplicemente, da un giorno all’altro, si è chiuso. Sono stati spesi miliardi per una bonifica che non c’è mai stata. Però, nello stesso tempo, non si è avuto nemmeno il proseguo di un’attività industriale con tutto quello che questo ha comportato in termini di disoccupazione, di mancanza di sviluppo della città, di mancanza di prospettiva anche del ruolo strategico di Napoli. Quindi, il pericolo è che anche a Taranto possa accadere una cosa del genere, anche se, ovviamente, ora il Governo cercherà di fare di tutto per non chiudere questo stabilimento. Tuttavia, la prospettiva è piuttosto nebulosa. Ciò che è certo è che tutti ne escono sconfitti a causa dell’imperizia della politica e dell’ideologia falsamente ambientalista e salutista che ha condizionato la parte della politica meno consapevole degli interessi del Paese, ovvero il Movimento Cinque Stelle. Insomma, siamo in un vicolo cieco.

Ovviamente il primo ad essere sconfitto è il Mezzogiorno…

Esattamente. Il Sud Italia è il grande sconfitto di questa vicenda. Tutti gli elementi che abbiamo elencato fino ad ora sono così esasperati proprio perché parliamo del Sud. La mancanza di progettualità e di un’idea di futuro sono caratteristiche del nostro Paese, che però si ripercuotono in maniera molto molto più forte nel Sud. La mancanza di capacità politica e di una classe dirigente adeguata sono assai più gravi nel Mezzogiorno, infatti, come dicevo, ci sono due Procure che si sostituiscono alla politica completamente e, nello stesso tempo, prosegue in maniera sempre più drammatica questo processo di desertificazione economica, industriale e produttiva del Sud, che già, negli ultimi vent’anni, si è aggravata moltissimo. Tutta l’area che un tempo era ricca di industrie – quella napoletana – ora non lo è più: questo è uno dei fattori principali, tra quelli che determinano l’emigrazione dal Mezzogiorno al giorno d’oggi. È difficile pensare che il Sud possa immaginare il proprio futuro con un’economia alla cubana, fatta solo di ricreazione turistica e di reddito di cittadinanza, perché i giovani che vogliono stabilità e soddisfazione professionale hanno dei problemi a restare a casa propria e a realizzare, non dico i sogni, ma almeno un progetto di vita decoroso.

Rimanendo sul tema Sud, Lei ha più volte portato avanti la battaglia per la costituzione di una “Macroregione del Sud”. Crede davvero che questa può essere una via per risolvere le problematiche del Mezzogiorno?  

Questa non è una battaglia astratta ma molto concreta. In Campania, noi abbiamo raccolto le firme per tenere un referendum sulla Macroregione autonoma del Sud, con tanto di riferimenti agli artt. 116 comma 3 e 117 della Costituzione. E questo referendum in Campania si terrà sei mesi dopo l’insediamento del prossimo Consiglio Regionale, così come sancito anche dalla Consulta Regionale. Si tratta, pertanto, di una battaglia che ormai è legge regionale. Per cui, il primo passo concreto è stato fatto. Deve essere esteso, naturalmente, anche alle altre Regioni del Sud, perché non si può parlare di “Macroregione” se non c’è la volontà anche delle altre Regioni meridionali.

Si, ma quali sono le ragioni di fondo di questo progetto?

Bisogna partire da un assunto: innanzitutto, il regionalismo – così come è stato concepito negli anni ’70 – ha fallito. O meglio, sicuramente ha fallito per la parte meridionale del Paese, perché al Nord il regionalismo viene apprezzato e ciò lo si può verificare anche guardando alla volontà dei lombardi o dei veneti che apprezzano i governi regionali. Su questo, probabilmente, c’è una differenza di qualità della classe politica tra Nord e Sud; però, secondo me, non è solo questo. A livello storico, sociale ed economico, le Regioni, così come perimetrate nel 1970, al Nord coincidono in larga parte anche con quelli che erano stati pre-unitari. Al Sud, invece, le Regioni sono state letteralmente disegnate a tavolino e faccio degli esempi: non è mai esistita “la Puglia”, esistevano “le Puglie” fino al 1970, perché una cosa è il Salento, un’altra cosa è la zona di Bari; il Molise è una Regione per forzatura; la Calabria ha vicende simili a quelle della Puglia, perché esistono “le Calabrie”; la Basilicata, per come è disegnata, è un’invenzione, perché tutta la zona del materano è sicuramente più vicina a Bari che a Potenza; infine, la Campania una volta comprendeva Napoli e Caserta, mentre il Cilento era un’altra storia ed, infatti, era più assimilabile a Potenza e alla parte occidentale della Basilicata. Ora, tutto questo discorso sulla storia e sulla omogeneità o disomogeneità del tessuto socio-economico, serve per capire che si tratta di fattori rilevanti, causa del fallimento delle Regioni in Meridione. La capacità di immaginare un progetto ed un programma di sviluppo per il Sud non può prescindere dal considerarlo nel suo insieme. Anche questa narrazione che vuole che esistano tanti Sud – come se ci fossero situazioni più o meno gravi alla base del ritardo del Mezzogiorno rispetto al Nord Italia – è essenzialmente volta a mettere da parte il problema reale, ossia la necessità per il Sud di avviare un programma di infrastrutturazione che sia omogeneo e che colleghi un po’ tutti i territori. Quando parlo di infrastrutture, mi riferisco alle strade, alle ferrovie, ma anche alle acque e alle bonifiche ambientali. Insomma, il Sud va pensato come organico, sia per storia, sia per tessuto sociale, sia per problematiche economico-sociali. Detto questo, il Sud ha anche una sua difficoltà in questo momento…

Quale?

E’ molto debole dal punto di vista della capacità di negoziazione politica. Infatti, dalla fine della prima Repubblica ad oggi gli assetti di potere del nostro Paese si sono spostati perlopiù al Nord, in particolare a Milano. A ciò ha contribuito anche la forza di un partito territoriale come la Lega che ha imposto nell’agenda del centro-destra, ma anche del centro-sinistra, la “questione settentrionale” e tutto questo in assenza di una classe politica, ma anche imprenditoriale, accademica ed amministrativa di valore che fosse anche espressione del Mezzogiorno.

Altro problema sono gli effetti che l’euro ha prodotto sul nostro Paese, ben assorbiti dal Nord ma dirompenti per il Mezzogiorno, dove c’era un economia più leggera ed una moneta ancorata al marco non era adeguataad essa. Tutti questi fattori vengono ben descritti dall’annuale Rapporto SVIMEZ che racconta dell’impoverimento del Mezzogiorno, dell’aumento del divario Nord-Sud e della sempre minore presenza dello Stato nelle Regioni meridionali da vent’anni a questa parte. Tutti questo ci porta a dover immaginare delle soluzioni alternative: il Rapporto SVIMEZ individua una soluzione che non convince e che consiste sostanzialmente nel rafforzamento dello Stato centrale. Quindi sull’autonomia lo SVIMEZ ed altri soggetti – in particolare del PD – hanno agitato la bandiera degli interessi del Mezzogiorno, contro l’egoismo del Nord che voleva l’autonomia differenziata. Se però, come dice lo stesso SVIMEZ, lo status quo attuale penalizza fortemente il Meridione dal punto di vista delle infrastrutture, ma anche della sanità, della qualità dell’assistenza sociale, del peso che il Sud ha nella politica, allora è evidente che il mantenimento e la difesa dello status quo non sono la risposta ai problemi di questa parte del Paese.

E una risposta potrebbe essere la Macroregione…

La risposta alternativa, invece, potrebbe essere quella della Macroregione autonoma del Sud, sia perché immagina il Sud come tutt’uno, sia perché oggi a livello di Unione Europea, si ragiona per Macroregioni: il superamento della logica esclusiva dello Stato-Nazione è nell’ordine delle cose, se si vuole salvare l’Unione Europea. Bisogna, quindi, rinegoziare il modo in cui il Sud sta all’interno dell’Unione Europea e all’interno dello Stato nazionale. Ancora, è necessario responsabilizzare i dirigenti del Sud ed impegnarli nella costruzione di un nuovo assetto costituzionale. Si tratta, pertanto, del tentativo di individuare un assetto compatibile con la storia e con gli interessi legittimi dei meridionali o, almeno, di quelli che vogliono continuare a vivere a casa loro e non vogliono emigrare.

Ritiene che il Governo precedente e questo in carica – aldilà del caso ILVA e delle problematiche fin qui analizzate – abbiano fatto e stiano facendo abbastanza per questa parte di Italia, avendo anche predisposto un Ministero ad hoc?

Il primo Governo Conte è stato disastroso per questa parte di Italia, perché l’approccio al Mezzogiorno e alle sue difficoltà, è stato il reddito di cittadinanza, utilizzato come meccanismo di redistribuzione a pioggia della ricchezza pubblica. É mancata proprio la cultura necessaria per comprendere le problematiche del Sud, che non ha bisogno di più assistenza e di politiche attive per il lavoro, non supportate da centri per l’impiego efficaci e da un tessuto socio-economico coerenti con l’impianto che si voleva dare al reddito di cittadinanza. Il Sud Italia ha bisogno di investimenti in infrastrutture e di investimenti produttivi che facciano ripartire l’economia, attraverso una leva pubblica produttiva in grado di alimentare un circolo virtuoso. Non ha bisogno dei 600-700 euro che uno può spendere per 18 mesi, alimentando quel poco di terziario rimasto, che regge, in particolar modo, grazie agli stipendi pubblici. Basta con questa retorica di un Sud che va difeso, solo mediante la valorizzazione delle sue eccellenze agricole e la promozione del turismo: sono vent’anni che promuoviamo il turismo al Sud e, continuando così, possiamo solo creare receptionist e camerieri, ma non un lavoro duraturo e strutturato, che sia per tutta la vita. E non mi riferisco al posto fisso.

Passiamo alla politica in senso stretto: da più parti si dice che il centrodestra sia rinato. E i sondaggi sembrano confermare questa tendenza. Lei è d’accordo con questa visione? 

Secondo me, il centrodestra non è mai morto. Tra gli elettori è sempre stato e continuerà ad essere la maggioranza e sarà un maggioranza anche piuttosto stabile. Il fatto è che c’è stata una fase – che è coincisa con le scorse elezioni politiche – nella quale la mancanza di un leader riconosciuto e carismatico e la mancanza di una proposta politica significativa hanno fatto sì che, soprattutto al Sud, ci fosse questo exploit dei Cinque Stelle. Adesso, invece, gli elettori che erano in libera uscita stanno tornando a casa. Quindi il centrodestra deve essere unito, sebbene sia costituito da partiti diversi, ognuno con le sue peculiarità. Non è possibile costruire soluzioni politiche alternative. Nel momento in cui c’è una leadership più forte, come quella di Matteo Salvini ora, il centrodestra finisce per riaggregarsi. Bisogna, però, capire se si tratta di una leadership sufficientemente credibile e duratura al fine di costruire un progetto di lungo periodo ed è questo il vero tema. C’è bisogno di costruire una classe dirigente del centrodestra. Nell’era berlusconiana almeno c’erano i Gianni Letta ed altre persone che avevano studiato intorno a Berlusconi; fino al 2009, poi, c’era anche Alleanza Nazionale che aveva una sua struttura politica e un suo apparato. Tutto questo, purtroppo, ora è finito. Per cui va ricostruito tutto. Per questo ci vogliono leader che abbiano la capacità e la lungimiranza politica di farlo.

Ecco, in virtù di ciò, molti oggi sostengono che la politica non abbia più un pensiero. Secondo Lei, quanto è importante il bagaglio culturale di un partito ai fini dell’azione amministrativa e del consenso?  

Io direi che il bagaglio culturale è essenziale. Ciò che ha dimostrato l’esperienza di Salvini al Governo è che l’Italia – settimo Paese del Mondo e la seconda manifattura d’Europa – non può essere governata solo con le battute, con i social e le presenze al Papeete. Anzi, ha bisogno di apparati, di classe dirigente, di discutere con le élite di questo Paese, trovando argomenti forti e convincenti. Noi non abbiamo bisogno, come centrodestra, di fare voti, perché quelli ci sono. Abbiamo bisogno, invece, di avere la capacità di convincere le classi dirigenti e le élite di questo Paese delle nostre buone ragioni. Non è vero che il mondo della cultura e le élite sono favorevoli all’immigrazione e al genderismo per convenienza; lo sono, perché gli argomenti che vengono utilizzati a suffragio di simili posizioni sono più strutturate culturalmente e più convincenti intellettualmente. Noi dobbiamo riuscire a dare voce all’Italia profonda, facendo emergere anche la caratura del messaggio che essa vuole lanciare, nel momento in cui dà la vittoria ai partiti di centrodestra. Quindi, serve un grosso investimento dal punto di vista della costruzione di un arcipelago di infrastrutture culturali di destra. Il che non significa che abbiamo bisogno solo di persone che organizzano spettacoli, dirigano musei, presiedano alla biennale di Venezia. Quando parlo di cultura mi riferisco al motore spirituale di una Nazione e, quindi, ad un progetto politico, che si rifletta in ogni ambito: una vera idea di Paese! Questo è necessario per costruire una valida proposta culturale, metapolitica e politica per il centrodestra. È chiaro che c’è bisogno di coloro che hanno il talento e le capacità da mettere in campo; vanno difesi e valorizzati i nostri elementi in tutti gli ambiti, a 360°, siano essi accademici o facenti parte della burocrazia di Stato o della sanità. Bisogna ragionare in termini gramsciani di “egemonia culturale”. La sinistra ha saputo fare ciò molto bene, quindi ora tocca a noi.

Secondo Lei, è difficile far emergere un pensiero “liberal-conservatore” in una cultura come la nostra praticamente dominata dalla sinistra? 

Certo che è difficile. Siamo in una fase di vera e propria persecuzione nei confronti di tutti coloro che non sono allineati al pensiero radical-chic e politicamente corretto. C’è una dimensione che definirei “odiologica”, cioè siamo a dei livelli che, negli anni ’80, erano ampiamente superati, perché c’erano un confronto e un dibattito costante e continuo tra intellettuali di sinistra – che erano di più – e i pochi intellettuali di destra. Però vi era anche un riconoscimento reciproco che oggi non c’è più. Quindi assistiamo a delle persecuzioni che hanno delle ricadute persino sulla difesa dell’art. 21 della Costituzione che riguarda la libertà d’espressione. Tutto ciò impone, a maggior ragione, al mondo culturale e politico che non si riconosce nella sinistra di fare quadrato e di costruire un’alternativa a questo sistema, costruendo legami e soluzioni di reciproco aiuto e sostegno. Bisogna metterci la testa per fare questo, in quanto non è un processo spontaneo. È paradossale, ad esempio, che in Italia abbiamo solo tre quotidiani di destra e, peraltro, tutti collocati al Nord. Invece, abbiamo decine e decine di quotidiani e di giornali a sinistra; altri ne sono nati e penso a Il Riformista e a Il Quotidiano del Sud, che appartengono sempre a quell’area, dove pure mancano i lettori. Noi, al contrario, abbiamo completamente sguarnita quella fetta di italiani che sono circa il 51% e che sotto il Po’ non beneficiano di un punto di riferimento editoriale, salvo rarissime eccezioni. Ecco, già solo da questo si capisce il paradosso anche della mancanza di lungimiranza imprenditoriale, perché, comunque, ci sarebbe uno spazio di mercato da occupare e da riempire.

Ha da poco intrapreso la bella avventura del mensile “Cultura Identità”. Come è nata l’idea e che riscontro sta avendo?

È un’idea che nasce, innanzitutto, dalla generosità e dalla lungimiranza dell’editore che è Edoardo Sylos Labini. Io, invece, cerco di portarla avanti da un punto di vista più squisitamente giornalistico e culturale, provando a mettervi i migliori contenuti possibili. È un successo, perché abbiamo reso sostenibile questa iniziativa; vendiamo, ogni mese, tra le 10.000 e le 15.000 copie. Questo è stato possibile perché, tutto sommato, abbiamo dimostrato di valere qualcosa, ma soprattutto perché abbiamo occupato uno spazio paradossalmente ed incredibilmente vuoto. Abbiamo dato a tanti l’opportunità e la possibilità di avere un luogo di incontro e di confronto. Questo era lo spirito originario: creare una piattaforma nella quale si possono confrontare ed esprimere tutti coloro che hanno qualcosa da dire nell’ambito della destra e del centrodestra. Credo che, da questo punto di vista, l’obiettivo sia stato raggiunto e il riscontro è positivo. Poi è chiaro che c’è bisogno che tutti quanti, cioè attori e stakeholder vari, ci siano vicini. Abbiamo creato uno strumento che sta guadagnando autorevolezza, anche nei salotti presenti nel panorama mediatico e culturale italiano. Stiamo cercando di costruire un minimo di elaborazione; abbiamo aggregato tante energie e tanti giovani. Infatti, un altro problema del mondo culturale della destra è il ricambio generazionale: quest’anno ricorrono i dieci anni dalla morte di Giano Accame, che fu il fondatore di Area, la quale è stata una grande e straordinaria palestra, legata alla destra sociale, piena di talenti e di menti brillanti. Quando è stata fondata, vent’anni fa, c’è stata anche la possibilità di avere un ricambio generazionale da Giano Accame – che era abbastanza avanti con l’età –e un’altra generazione, costituita da quelli che oggi hanno 50-60 anni. Nonostante il centrodestra sia stato al Governo, è mancata l’occasione di formare professionalmente e come autorevolezza professionale una nuova generazione di intellettuali. Noi stiamo cercando di supplire a questa carenza, dovuta alla miopia di una parte molto consistente della classe dirigente del centrodestra. Noi dobbiamo avere l’opportunità di dare voce a tanti giovani, intellettuali e giornalisti, cercando di affiancarli a persone più note: ad esempio, abbiamo ospitato Franco Cardini, Marcello Veneziani, Giampolo Rossi e tanti nomi della cultura di destra riconosciuti e riconoscibili come grandi intellettuali. Abbiamo, però, bisogno di questo passaggio di testimone verso i più giovani. Ci sono veramente tante firme su Cultura Identità: penso a tutti i ragazzi che scrivono sui territori da Ciccio Ciulla e Fernando Adonia in Sicilia, Marino Pagano in Puglia, Gennaro Grimolizzi in Basilicata, Giovanni Vasso in Campania; poi ci sono altre firme più note come Laura Tecce e Antonio Rapisarda. Ecco, vogliamo creare una filiera e vogliamo portare avanti il progetto.

Fonte: l’Occidentale

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