Perché bisogna tenere a mente la lotta di Giovanni Paolo II contro i teologi della liberazione

di Anicio Severino.

La teologia della liberazione, per Karol Wojtyla, coadiuvava il rischio di mischiare il piano sociale con quello spirituale. I poveri si salvano per mezzo della misericordia e della carità, attraverso l’evangelizzazione e i progetti politici capaci di rispondere alle domande di futuro. I sommovimenti sociali fondati sull’egualitarismo e sul riscatto dal basso, invece, appartengono a una branca ideologica del marxismo applicata, e male, alla religione cristiano-cattolica. Adesso, sulla scia dell’appuntamento sinodale, viene ancora una volta decantata la “opzione preferenziale per i poveri”. Come se si trattasse di un programma elettorale. Quasi come se, gerarchicamente, un povero lontano fosse più povero di un povero vicino. E allora, proprio in questo giorno, sarà bene tenere a mente gli insegnamenti di Giovanni Paolo II, che aveva condannato relegato i teologi della liberazione nella dimensione della falsità

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Quando è morto Papa Giovanni Paolo II ogni persona, credente o no, si è resa conto di aver assistito alla calata di un sipario ingombrante per la storia dell’umanità. Se restate in silenzio, magari, potete ancora percepire le sensazioni di quei momenti. Era già chiaro, ma quei giorni sono stati ancor più difficili per chi aveva nel pontefice polacco un riferimento spirituale, esistenziale e, perché no, pure politico. Le assenze così, per quanto limitate alla sfera terrena, si fanno sentire. Come spesso accade, quando si pone una riga alla fine di un foglio contenente le cose compiute, ci si rese subito resi conto di una grandezza mai raggiunta nell’epoca contemporanea in termini d’incisione sul corso degli eventi. Non un Papa di destra o di sinistra, ma un vescovo di Roma in grado di far sì che il mondo spalancasse le porte a Cristo, come amava dire, con tutto quello che un’adesione al cattolicesimo comporta. C’è stato un tempo in cui la Chiesa cattolica agiva per mezzo di una forza dirompente: dalla caduta del comunismo alla feroce opposizione mossa nei confronti della teologia della liberazione, San Giovanni Paolo II, di cui oggi ricorre la festività, ha dimostrato a chiunque lo abbia ascoltato o visto che quel voler “prendere in mano la propria vita”, per trasformarla poi in “un capolavoro”, non è poi così irraggiungibile.

I greci antichi avrebbero parlato di “carisma”. E Karol Woytila di certo ne aveva. Per un cattolico, a soffiare per mezzo dell’ ex arcivescovo di Cracovia era lo Spirito Santo. I miracoli ne hanno comprovato la santità. Evitare di notare la luce di Dio emanata dal Santo Padre polacco era difficile anche per chi non riteneva valida l’esistenza di un Altissimo nei cieli. “E’ difficile credere in un mondo così, nel 2000 si è divisi, non è il caso di nasconderlo”. Giovanni Paolo II ha lasciato questa ed altre frasi in eredità ai suoi giovani, che poi sono quelli chiamati oggi a governare i processi. Anche per questo, in fin dei conti, vale la pena nutrire speranza persino nei confronti dei contrasti in seno alla civiltà occidentale, tralasciando peraltro la situazione delle istituzioni ecclesiastiche. Ma l’opera di Giovanni Paolo II, come accennavamo, non si è incardinata solo sul piano teologico-pastorale. La teologia della liberazione, per la dottrina portata avanti da Karol Wojtyla, che fino a prova contraria è quella ufficiale, coadiuvava il rischio di mischiare il piano sociale con quello spirituale. I poveri si salvano per mezzo della misericordia e della carità, attraverso l’evangelizzazione e i progetti politici capaci di rispondere alle domande di futuro. I sommovimenti sociali fondati sull’egualitarismo e sul riscatto dal basso, invece, appartengono a una branca ideologica del marxismo applicata, e male, alla religione cristiano-cattolica. C’è tanta nostalgia in giro, così tanta che l’immaginifica intenzione di riavvolgere il nastro per assistere di nuovo al lavoro portato avanti dal duo Wojtyla-Ratzinger continua a riempire con l’inchiostro tante pagine mediatiche. Forse non è quello che un cattolico dovrebbe fare, ma di sicuro è un modo per digerire il malessere provato verso lo stato de quo.

In occasione del Sinodo panamazzonico, un gruppo di alti-ecclesiastici, dopo il precedente del Concilio Vaticano II, si è di nuovo recato nelle catacombe vaticane col fine di contrarre un patto. Era già successo nel 1965. “Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative…”, avevano stabilito quei consacrati. Pauperismo o comunque un moto economicistico, che avrebbe provato ad inondare d’idealismo il Depositum fidei. Perché fondato appunto sul primato dell’economia sul resto. Adesso, sulla scia dell’appuntamento sinodale, una sorta di replica, che invita la Chiesa all’uniformità con le esigenze dei popoli indigeni. Ancora una volta, viene decantata la “opzione preferenziale per i poveri”. Come se si trattasse di un programma elettorale. Quasi come se, gerarchicamente, un povero lontano fosse più povero di un povero vicino. E allora, proprio in questo giorno, sarà bene tenere a mente gli insegnamenti di Giovanni Paolo II, che aveva condannato relegato i teologi della liberazione nella dimensione della falsità. Magari la nostra analisi è pretestuosa, ma l’adagio secondo cui la prudenza non è mai troppa pare fare al caso nostro.

Fonte: l’Occidentale

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