Il pericolo del relativismo familiare

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Troppe volte ci si dimentica della pericolosità intrinsecamente legata al concetto di «pluralismo familiare» che – funzionale a descrivere, tutt’al più, la pluralità di modelli affettivi esistenti – rischia di veicolare l’equivoco dell’esistenza di più “famiglie”, alimentando peraltro la diffusione di un’ideologia finora mai aperta-mente denunciata ma presente da tempo: il relativismo familiare. Si tratta di un modo di leggere le relazioni sociali che, analogamente al relativismo etico – che pone sullo stesso piano, ritenendole equivalenti, concezioni etiche differenti, talora opposte – attribuisce il titolo di famiglia a un numero crescente e potenzialmente infinito di relazioni sociali che hanno come unico requisito i sentimenti vissuti da coloro che le compongono; non contano più il fine dell’unione, l’identità sessuale o il numero di coloro che la rendono tale: laddove c’è sentimento c’è famiglia.

«La legge – scrivono i filosofi Torrengo e Tripodi – dovrebbe consentire agli individui di scambiarsi liberamente i diritti e le responsabilità connessi allo stato maritale, indipendentemente non solo dagli orientamenti sessuali, ma anche dal numero di persone, dal tipo di relazione, sia essa amorosa o semplicemente di amicizia, che intrattengono». Non si sarebbe potuto definire meglio il programma politico dell’egualitarismo relazionale di matrice relativista e la sua volontà di destrutturare la famiglia. Ma il relativismo familiare va oltre e non solo nega le differenze sostanziali per esempio fra coppie sposate e coppie conviventi, o fra unioni eterosessuali e unioni omosessuali, ma dichiara liberticida ogni opposizione alla parificazione relazionale che promuove. Siffatta parificazione – osserveranno alcuni – consente un arricchimento semantico del concetto di famiglia, reso più flessibile e meno esclusivista.

In realtà è vero il contrario. Infatti, come per il relativismo etico, anche per quello familiare l’esito ultimo non sta in un’affermazione, bensì in una negazione: una volta cioè che, messo da parte il matrimonio quale discrimine fra ciò che deve e non deve intendersi per famiglia, si sostiene l’equivalenza di più modelli familiari a seconda di quanti la realtà ne presenta, alla lunga l’esito non può che essere una dissoluzione dell’idea di famiglia all’interno delle modalità di interpretarla. In altre parole, nel momento in cui attribuisce a più forme di unioni il titolo di famiglia, il pensiero relativista, autocontraddicendosi rispetto al proposito di evitare formulazioni definitive, stabilisce con precisione che cosa sia famiglia, ma lo fa gettando le basi della sua estinzione. E non potrebbe essere altrimenti giacché, se si fa corrispondere l’essere famiglia al “sentirsi famiglia”, ne consegue una negazione pratica dell’identità familiare, che viene posta in continuo divenire.

(Guzzo G. La famiglia è una sola, Edizioni Gondolin 2014, pp.10-12)

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