Una grande educatrice

Oggi, 27 ottobre, è la festa di Santa Teresa Verzeri (1801-1852), canonizzata giusto dieci anni orsono. Mi sono imbattuto in questa figura straordinaria e poco conosciuta, leggendo alcuni suoi scritti, e ascoltando le sue discepole odierne, le Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Teresa è una donna dell’Ottocento, che vive in un secolo estremamente duro, soprattutto per le donne e i bambini.

L’industrializzazione porta con sé sfruttamento, urbanizzazione selvaggia, marginalizzazione di coloro che, rimasti senza terra, si trovano a vagabondare per le città, prostituzione… Teresa fa parte, appieno, di quella tradizione di carità che legge i bisogni di un’epoca e cerca di rispondervi. Così sceglie di dedicarsi all’"educazione delle giovani di media ed infima classe”, ai “convitti delle orfane pericolanti, abbandonate ed anche traviate”, alle scuole, alla “dottrina cristiana” e all’ “assistenza agli infermi".

Teresa, nobildonna bergamasca, vive un attaccamento radicale alle verità rivelate, che divengono operosità quotidiana, carità instancabile. Ma è anche educatrice sensibile, attenta, premurosa. “Con le idee più audaci e sediziose degli enciclopedisti- scrive un suo biografo, Dino T. Donadoni-, sono giunte in Italia anche quelle dei giansenisti, con il loro esasperato rigorismo in fatto di morale, con uno zelo arcigno che esclude la dolcezza e la misericordia di quel Cuore che ha tanto amato gli uomini”.

Mentre la cultura illuminista è un tripudio di esaltazione dei “diritti” dell’uomo, un progressivo quanto inane tentativo di sostituirsi a Dio, Teresa scrive lunghissimi “libri dei doveri”, ricordando alle sue discepole il “timor di Dio” e il “gran dover di morte”.

Morte, giudizio, inferno, paradiso”: sono i cosiddetti “novissimi”, verità che all’epoca fanno parte del patrimonio comune di ogni cristiano, su cui Teresa medita e fa meditare. Ma senza che questo la porti a trascurare la delicatezza concreta ed anche materiale di cui ogni anima ha bisogno.

Alle sue educatrici, a coloro che lavorano nelle scuole che da lei nasceranno numerose, Teresa offre consigli pedagogici fini ed efficaci, che hanno fatto parlare di lei come della persona che ha anticipato il metodo preventivo di Don Bosco. Scrive infatti: “Coltivate e custodite molto accuratamente la mente ed il cuore delle vostre giovinette mentre sono ancora tenere, per impedire, per quanto possibile, che in essi entri il male, essendo migliore cosa preservare dalla caduta coi vostri richiami ed ammonimenti che risollevarle con correzione" (Libro dei Doveri, vol. III, p. 368)”.

Mi limiterò qui a riportare alcune perle di saggezza di questa grande pedagoga, di cui sono debitore a Suor Eugenia Libratore, una delle figlie di santa Teresa.

Alle sue educatrici Teresa chiede anzitutto una profonda “vita interiore”, preliminare a qualsiasi capacità di comprendere chi ci è affidato.

Poi afferma: “Analizzate l’anima di ciascuna (alunna), osservatene gli andamenti, studiatene le propensioni e i moti più intimi per conoscerla a fondo, per formarne fondato giudizio, e su questo, regolare il modo con cui dovete ciascuna guidare”; “ Nella direzione e coltura delle giovani, dovete usare un’estrema discrezione…Nella scelta dei mezzi per riuscire, adattatevi alla tempra, all’indole, alle inclinazioni e alle circostanze di ognuna”; “Considera codeste giovanette che la Provvidenza ti affidò immagini di Dio stesso e, come tali, abbine quella premura, quell’impegno, quella cura che si meritano”; “Abbiate e mostrate stima della via di tutte, purché sia segnata da Dio…”.

Scrive ancora: “Bisogna mostrare con l’esempio prima di insegnare con le parole. Se volete essere veramente utili alle vostre giovani, precedetele in ogni virtù coll’esempio, memori che più si edifica facendo e operando, che predicando senza operare…Siate sante e farete delle sante”.

Riguardo al rischio di eccesso di severità e di moralismo: “Non inventate peccati. Piuttosto procurate diminuirne il numero col formare buona la coscienza, retta la mente, puro il cuore delle giovani, perché fuggano ogni ombra di male e pratichino ogni fiore di virtù”; “Si deve lasciare alle giovani una santa libertà… che farà sì che le vostre giovani operino volentieri e in pieno accordo con quello che, oppresse da un comando, farebbero con peso e con violenza”.

Riguardo alla giusta autorità: “Vorrei che aveste sulle giovani una superiorità efficace… mosse e condotte dalla carità e dolcezza del cuore divino”.

Riguardo, infine, allo zelo amaro in cui può cadere l’educatore frettoloso, ammonisce: “Sappiate differenziare difetto da difetto…Non date peso a cose da nulla: non scaldatevi per certi difettucci che provengono da bollore di gioventù…lasciate che la natura si spieghi e manifesti le sue tendenze, e ciò sarà per il meglio”; “Dovendo correggere e castigare, prima di tutto consultate Dio… indi aspettate il tempo opportuno e le circostanze favorevoli e studiate il modo più proprio, efficace, e meno aspro e irritante per toccare salutarmente la colpevole”; “Dalle vostre giovani non pretendete troppo, né vogliate frutti immaturi. Certe riformatrici che vorrebbero tutto e subito, non ottengono mai nulla”. Il Foglio, 27 ottobre 2011

Banchieri di Dio

Gli “indignados”- parola fastidiosa che ormai designa un modo di fare spesso altrettanto fastidioso, quando non criminale-, se la stanno prendendo con le banche e, qualche volta, con quelle strane agenzie di rating che detengono un potere inaudito, senza che alcunché lo giustifichi. Ci sarebbe quasi da pensare che per una volta il bersaglio non è poi tanto sbagliato, se dietro l’indignazione non facesse capolino l’odio cieco e assassino, e se l’alternativa allo strapotere delle banche non fosse, per molti (per fortuna non per tutti)  la follia comunista (quante bandiere rosso sangue, a Roma!).

Certo che se Alessandro Profumo ricevesse oggi la sua vertiginosa liquidazione di 40 milioni di euro, forse a sinistra si avrebbero più remore di qualche mese fa a proporlo, immediatamente, come il papa straniero da candidare a premier del paese. Ma su questa colonna devo fare il controriformista, mai il rivoluzionario, per cui, invece di indignarmi (chè mi troverei in brutta compagnia), mi limiterò a raccontare due storie interessanti.

Quelle di due mercanti-banchieri del medioevo cristiano. Gente di avventura, di rischio, di coraggio; che viaggiava e investiva del suo… Gente, soprattutto, che non di rado veniva richiamata, dalla Chiesa, dalla parola evangelica, dalla propria fede, al vero significato della ricchezza e del guadagno. Gente che viveva sapendo che Dio esiste, e che alla fine ci chiederà conto. Mi riferisco al celeberrimo Francesco Datini e al meno famoso Marco Carelli. Al primo sono dedicati due libri molto recenti, “Ragionar tra mercanti” di Paolo Nanni e “Padre mio dolce. Lettere di religiosi a Francesco Datini”, a cura di Simona Brambilla.

Questi studi ci parlano di un ricco e capace mercante pratese, rimasto orfano dei genitori durante la peste nera del 1348, che costruì “un solido sistema di aziende che, oltre alle sedi di Avignone, Prato e Firenze, si estende nel tempo a Pisa, Genova, Barcellona, Valenza e Maiorca”. Molto ricco, dunque, e molto abile, il Datini era anche un uomo di fede che sapeva dedicarsi, oltre che alle attività redditizie, anche all’arte, alla preghiera, all’elemosina, che “copre la moltitudine dei peccati”.

Il suo epistolario contiene le lettere di 220 religiosi che si rivolgono a lui in mille circostanze, per sollecitarne l’aiuto: chi ha bisogno di soldi, chi chiede per un bisognoso, chi desidera mattoni, stoffe, cibo, olio per le lampade… A queste richieste il Datini risponde, spesso con generosità; in più si rivolge a pittori ed artisti per opere destinate ad abbellire il proprio palazzo, ma anche le chiese e i conventi della città. Tutto ciò non come gli evergeti del passato, per ambizione, per l’ onore, per divenire il benefattore, osannato, della città. In lui vi è un autentico spirito religioso, per cui se alcune donazioni divengono pubbliche, altre rispondono al motto evangelico: “non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra”. Datini è ormai anziano, siamo nell’agosto 1399, quando partecipa ad una delle peregrinazioni dei Bianchi, da Firenze, passando per Arezzo, fino a Fiesole. I Bianchi sono pellegrini “tutti vestiti di bianco, e scalzi” che fanno penitenza per i propri peccati, fanno pace con i nemici e restituiscono i guadagni illeciti.

Pochi anni dopo, nel 1410, nel suo testamento, redatto in presenza di cinque frati francescani da lui stimati, Datini lascia tutti i suoi beni a conventi, ai poveri, per i quali istituisce il “Ceppo Nuovo dei poveri”, e a varie istituzioni ospedaliere. Proprio da 1000 fiorini da lui donati allo Spedale di santa Maria Nuova per costruire un ricovero per “gettatelli”, nascerà il celeberrimo Spedale degli Innocenti di Firenze.

L’altra figura cui accennavo è quella del mercante Marco Carelli. La sua storia è ricostruita nel bellissimo libro di Martina Saltamacchia, “Costruire cattedrali. Il popolo del Duomo di Milano”. Si tratta di una preziosissima ricerca d’archivio in cui si dimostra la storia della fede del popolo milanese, che con le sue donazioni e i suoi sacrifici fu il principale finanziatore della cattedrale della città. L

a vicenda del Carelli è ancora più edificante di quella del Datini. Infatti il mercante milanese è un uomo d’ingegno che in breve tempo, esportando lana, importando allume, commerciando spezie, facendo investimenti terrieri e finanziari, raccoglie una ricchezza immensa. Ebbene quest’uomo che con i confratelli della Scuola dei milanesi si è dedicato anche all’assistenza dei poveri, ancora in vita, un giorno decide, seduta stante, di donare tutti i suoi beni per la costruzione della cattedrale, richiedendo “di concedergli solo un frugale vitto e una stanzetta presso il cantiere da allora al giorno della morte”. “E così alla fine di una vita ricca di avventure e alterne fortune, dopo aver avviato una fiorente attività commerciale e aver costituito pressoché dal nulla un solido patrimonio di case e terreni, il ricco mercante si spogliò di tutto quanto possedeva”, e visse gli ultimi anni della vita, sino alla morte nel 1394, in vera povertà.

Così si sapeva fare, un tempo, quando bisognava salvare l’anima, quando i Mazzarò di Verga erano rari, perché più chiara era l’idea di ciò che siamo sulla terra a fare: salvare l’anima (e il corpo).Il Foglio, 20 ottobre 2011

Un libro importante

In questi giorni il prof Roberto De Mattei ha vinto il prestigiosissimo premio Acqui Terme, per il suo lavoro storico sul Vaticano II. Quando qualcuno vince, ed una giuria così competente riconosce il valore di un lavoro, di solito, scattano gli applausi.

Ma è da domenica che il Corriere della Sera, troppo spesso versione moderata di Repubblica, si dedica alla denigrazione del prof. de Mattei e del suo studio. Ovviamente si fa leva su un fatto: il presidente della giuria, in disaccordo con gli altri componenti, si è dimesso, e lo ha fatto con clamore.

La cosa è di per sè piuttosto strana: un presidente in minoranza che sbatte la porta e se ne va, fa un po’ sorridere…proprio perchè chi perde, dovrebbe avere un po’ più di stile…

Invece il dimissionario incupito è diventato l’eroe dei laicisti, che guarda caso, si occupano, a volte, della Chiesa e dei suoi fatti interni. E’ diventato l’eroe di Alberto Melloni, volto truce e sovente scomunicante del modernismo italiano.

Solidarietà, dunque, al vincitore del premio Acqui Terme. La darei in ogni caso, e lo faccio tanto più, per quel che vale (nulla), dal momento che il lavoro di de Mattei è un testo storico, non teologico, in cui si raccontano le dinamiche e le lotte tra le varie anime della Chiesa di allora. In cui chi perse non aveva sempre tutti i torti, e chi vinse, come Suenens ed altri, sarebbe presto divenuto un aperto ribelle al magistero infallibile dell’Humanae Viaea.

Quanto al Corriere preferisce santificare il dimissionario, e allora ricordiamo che De Mattei è stato premiato da storici serissimi come Perfetti e come De Leonardis, che è senza dubbio uno degli studiosi più rigorosi e seri in Italia.

 

Riporto di seguito un vecchio articolo sul libro.

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la scristianizzazione incalzante dell’Occidente fosse anche il frutto di una crisi della Chiesa?

E se la crisi della Chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione? La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di Mons. Caffarra, o di mons. Negri, o di mons. Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.

Giustamente mons. Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la Fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della Fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato un “non più cattolico” come il cardinal Martini.

Non è per il Corriere, che legioni di cristiani educati in parrocchia, corrono a lui, e non al Magistero, per avere una parola, quantomeno ambigua, sulla vita, la morte, Dio e la bioetica. Il problema è la scarsità, nella Chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta! Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.

All’epoca della Controriforma, gli uomini di Chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la Chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della Chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto.

Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della Chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di mons. Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come mons. Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).

Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del Prof. Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, appena edito da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, straordinarie, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della Chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che l’evento stesso ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto-qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, chè non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili.

Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata ad esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i vota dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’ “aggiornamento” dimenticò, talora, che l’ aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi, appunto, il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca. Il Foglio, 2 dicembre 2010

 

per il libro:

http://www.libreriadelsanto.it/libri/9788871808949/il-concilio-vaticano-ii.html

Papa Stronsay, the New Northern Thebaid

Testo di Henri Adam de Villiers. Traduzione dall’inglese a cura di Massimo Tonon

La festa di S. Alfonso Maria de Liguori […] fornisce l’opportunità di presentare un recente viaggio sull’isola dei Redentoristi di Papa Stronsay. I Transalpine Redentorists, conosciuti anche come Figli del Santissimo Redentore (F.SS.R) sono una comunità autonoma, sia contemplativa che di vita attiva, che utilizza la liturgia tradizionale e mantiene le antiche tradizioni e devozioni dei redentoristi stabilite dal loro fondatore S. Alfonso Maria de Liguori nel diciottesimo secolo.
Questa nuova comunità fu fondata nel 1988 da P. Michael Mary e P. Anthony Mary. La loro prima acquisizione fu nel Kent, ma questo luogo divenne presto troppo piccolo per poter ospitare tutti i frati e così – dopo una breve parentesi in Francia – nel 1999 i Redentoristi acquistarono un’isola di 74 ettari situata nelle Orkney Islands, nel nord della Scozia, e lì fondarono il Monastero del Golgota.

Per raggiungere Papa Stronsay, si deve prima andare sull’isola di Mainland (un’ora e mezza di traghetto da Thurso nel nord della Scozia) e da lì prendere un secondo traghetto per un’altra ora e mezza fino all’isola di Papa Stronsay.

All’entrata del monastero di Papa Stronsey, sulla banchina, l’icona di “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso “accoglie i visitatori. A dir la verità, quest’icona miracolosa è presente un po’ dovunque sull’isola perché era tenuta in grandissima venerazione da Sant’Alfonso Maria de Liguori, il fondatore dei Redentoristi: il sandalo che pende dal piede di Gesù Bambino simbolizza la “redenzione” dell’umanità (secondo la tradizione ebraica), ed era stata perduta da parte di Nostro Signore Gesù Cristo durante la Sua Passione. Il Bambin Gesù presente nell’icona guarda verso i due arcangeli che Gli porgono gli strumenti della Sua Passione e non verso Sua madre, come in altre icone, mentre la Vergine guarda verso di noi: è nostra Madre e noi siamo i Suoi figli.

L’icona di “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso”, portata dalla Grecia a Roma dove era venerata almeno dal 1499, era scomparsa durante il saccheggio della Città Eterna da parte delle truppe Napoleoniche. Fù ritrovata nel 1868 e fu affidata da papa Pio IX alle cure dei Redentoristi a Roma.
I Redentoristi poi hanno contribuito alla sua diffusione in tutto la cattolicità.
Sopra l’entrata del Monastero del Golgota c’è la Croce di Papa Stroney

Questa croce fu scoperta sull’isola e proviene dal primo monastero fondato qui, risalente probabilmente al sesto secolo e attribuibile ai monaci Celti che erano al seguito di S. Colombano. Questo Monastero era ancora attivo nell’undicesimo secolo dopo la conquista delle isole Orkney da parte dei vichinghi.
Inoltre il nome di “Papa” significa che l’isola era tenuta dai “Papari”, un termine che in Antico irlandese indicava i monaci che avevano lì il loro monastero. Questa croce è una bellissima testimonianza che questa santa isola è tornata alla sua originaria vocazione sette secoli dopo gli ultimi monaci.
La Croce di Papa Stronsay si trova anche nello stemma del Monastero del Golgota, assieme alla stella che simbolizza Maria “Stella Maris”.

I Redentoristi all’inizio hanno usato l’edificio della fattoria abbandonata che era sull’isola al momento dell’acquisto. Ma in seguito, a causa dell’aumento di numero della loro comunità, la hanno ampliata aggiungendovi una nuova parte.
Il monastero ha tre cappelle.

Durante l’ufficio e la preghiera comune ho scoperto qualcuna delle molte caratteristiche dei Redentoristi. Specialmente al mattino e alla sera, sono recitate le preghiere poste da Sant’Alfonso de Liguori in aggiunta all’ufficio; esse riguardano: l’abbandono alla Provvidenza, il grande amore per Nostra Signora, l’amore per l’infanzia di Gesù (I Redentoristi celebrano la memoria del Natale il 25 di ogni mese) e l’importanza della preghiera per le intenzioni specifiche.
La tradizione dei Redentoristi è piena di interessanti devozioni,eseguite secondo gli antichi libri dei Redentoristi. Un’aspetto originale di papa Stronsay è l’interesse di questa comunità – che utilizza il rito Romano tradizionale – per il rito Bizantino-Slavo.

[…] Nell’isola vicina a Papa Stronsay (più grande, con una popolazione di circa 700 abitanti in larga maggioranza protestanti) i frati stanno costruendo una chiesa cattolica. L’interno è appena stato finito, mentre l’esterno è in fase di completamento. Ogni domenica alle 9 di mattina l’intera comunità viene a cantare la Santa Messa a cui partecipano i fedeli cattolici dell’isola. Grazie alla Provvidenza, in uno dei giorni in cui ero qui, ricorreva una grande festa dei Redentoristi, la festa del Santissimo Redentore, che ricorre la terza domenica di luglio.
La festa liturgica del Santissimo Redentore è propria di alcune diocesi e alcuni ordini religiosi. L’8 marzo 1749 il papa la ha concessa ai rendentoristi come una festa di prima classe con ottava, ma questa festa è più vecchia: è stata stabilita per la prima volta a Venezia in ringraziamento per il buon esito di un voto che il senato della città aveva fatto per la rapida fine della peste del 1576 (e a cui si deve anche la costruzione della basilica palladiana del Santissimo Redentore sull’isola della Giudecca).

[…] La vita a Stronsay è dura. A causa del forte vento gli alberi non possono crescere. Ciò nonostante, i frati hanno costruito una serra in cui coltivano molte specie di piante (inclusa l’uva) e anche i fiori che sono utilizzati per adornare i vari altari del monastero.
Su un lato della costa dell’isola sorge anche un piccolo eremo bizantino.

L’isola più isolata e fredda sembra esser diventata la più calda e accogliente grazie alla presenza dei Redentoristi. Voglia Dio benedire questa comunità con abbondanza e voglia la Provvidenza provvedere generosamente ai suoi bisogni!

Fonte: http://www.newliturgicalmovement.org/2011/08/papa-stronsay-new-northern-thebaid.html

Martin Lutero: un monaco “sempre inquieto e turbato”

…Il protagonista di questo evento epocale è il monaco Martin Lutero. Quando si analizza la sua vita si scorge che egli fu un uomo tormentato, scrupoloso sino all’eccesso, aggressivo, violento, sensuale, intemperante. Tutto fuorché virtuoso.

All’origine delle sue scelte religiose non stanno convincimenti dottrinali, ma anzitutto, oltre forse ad una vocazione inesistente, non completamente sincera , l’esperienza propria di ogni cristiano, della propria inadeguatezza e miseria: ma di fronte ad esse, Lutero non reagisce con umiltà, affidandosi alla misericordia di Dio, ma, dopo lo scoraggiamento iniziale, con grande superbia ed orgoglio.

Lutero, scrive J. Maritain nel suo “Tre riformatori”, “si appoggiava, per giungere alla virtù, alle sue sole forze, fidandosi dei propri sforzi, delle sue penitenze, delle opere della sua volontà, molto più che della grazia. Praticava così quel pelagianesimo di cui accuserà i cattolici, e da cui in realtà lui stesso non riuscirà ad affrancarsi. Praticamente egli era, nella vita spirituale un fariseo che conta nelle sue opere, come fa fede il suo raggrinzimento di scrupoloso. Si rimproverava come peccato ogni involontaria impressione della sensibilità, e si studiava di acquistare una santità da cui fosse esclusa la minima traccia della debolezza umana” .

Ma ovviamente, non riuscendo a raggiungere la perfezione cui tende con troppo orgoglio, finisce per scorarsi, per abbattersi, e per cedere alla tentazione: “rinuncia a lottare, dichiara che la lotta è impossibile”, arriva a concludere che “la concupiscenza è invincibile”.

Poiché ha troppo fidato in se stesso, poiché ha creduto di potersi auto-redimere, di poter divenire, con le sue forze, una creatura angelica, disincarnata, ora non può che capitolare, e gettarsi dalla parte opposta, finendo in quello che è, per la Chiesa cattolica, uno dei peccati contro lo Spirito Santo: la sfiducia totale, la disperazione della salvezza.

 Lutero si convince così che la virtù, la santità, siano impossibili all’uomo e che la salvezza stia solo nella fede e nei meriti di Cristo. Dietro questa posizione, di apparente umiltà, c’è la superbia che la ha provocata: e l’apparente umiltà diventa disprezzo per l’uomo, pessimismo antropologico radicale, assolutizzazione del peccato originale, cancellazione della libertà umana, disprezzo della ragione e anticipazione della predestinazione calvinista!

E’ questa la fine tipica di coloro che scambiano il cristianesimo per una dottrina di puro auto-perfezionamento morale: come cioè se essa fosse anzitutto una morale e solo dopo la fiducia nella grazia di Colui che può tutto, anche attraverso la nostra debolezza. Così Lutero “erige a dottrina ciò che è anzitutto la catastrofe della sua perfezione personale”, e contemporaneamente, proclamando l’inutilità delle opere, la salvezza mediante la sola fede, rinnega le veglie, i digiuni, gli eccessi di penitenza del passato: niente più rimorsi, niente più tensione verso il bene, ma “cede alle potenze dell’istinto, subisce la legge della carne, secondo una progressione che è possibile rilevare dalla serie dei suoi ritratti. Collera, calunnia, amore della birra e del vino, ossessione della sozzura e dell’oscenità”, crescono in lui via via, sempre di più: il tutto scambiato per libertà cristiana, fede, umiltà .

Gli scrupoli eccessivi, che hanno sempre assediato la sua anima, vengono esorcizzati tramite la pratica dei peccati, vengono affogati nella dissoluzione più violenta (pecca fortiter sed crede firmius). Peccare diventa un modo per mostrare la propria fede, per allenarsi a sconfiggere lo scrupolo stesso, e con esso il diavolo.

Scrive: “Cerca subito la compagnia dei tuoi simili, mettiti a bere, giocare, racconta sconcezze, cerca di divertirti. Bisogna…pure talvolta fare un peccato in odio e disprezzo al diavolo, per non lasciargli l’occasione di creare in noi degli scrupoli per dei nonnulla: se si ha troppa paura di peccare, si è perduti..ah! se potessi alfine trovare qualche buon peccato per schernire il diavolo” .

Così colui che in passato si è esaurito nelle veglie e nei digiuni, si dà alle gozzoviglie, abbandona l’abito sacerdotale, sposa una ex monaca, Caterina von Bora, da cui avrà sei figli e dispensa, chi lo circonda – lui che dalla legge si era sentito schiacciato, perché non ne aveva compreso lo spirito-, dalla legge stessa: invita sacerdoti e suore ad abbandonare il celibato e autorizza il suo protettore, il principe Filippo d’Assia, a prendersi un seconda moglie, oltre a quella legittima e vivente, per togliergli ogni scrupolo di coscienza.

Dal punto di vista religioso, lui che, ossessionato dal peccato, non ha creduto nel perdono, cancella il sacramento della confessione, per eliminare, oltre al perdono, il peccato stesso (“Si sforza si sentirsi senza peccato, pur peccando in tutte le sue azioni e di vincere così la coscienza, questa signora della disperazione”, scrive Maritain).

Nel fare questo, nel proclamare le nuove verità di fede, la sola fides, la sola scriptura, il servo arbitrio, il libero esame delle scritture, il papa come Anticristo, pone se stesso, il proprio egocentrismo metafisico, al di sopra di tutto: “Io non ammetto, scrive nel giugno del 1522, che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza” .

Dice questo, dopo aver proclamato che ognuno può leggere ed interpretare liberamente le Scritture, convinto, però, che l’unico a farlo correttamente è lui. Gli altri, come ad esempio i teologi di Lovanio, sono “asini grossolani, delle scrofe maledette, dei sacchi di bestemmie, dei porci epicurei, eretici e idolatri, delle pozze marcie, la brodaglia maledetta dell’inferno”.

Nella sua generica condanna dell’uomo e della sua natura cadono anche la ragione e la filosofia.

La ragione è definita più volte “la prostituta del diavolo” ed è dichiarata contraria, opposta alla fede; le streghe “bisogna ammazzarle tutte” ; Copernico è “un astrologo da quattro soldi” e “un insensato”; i contadini che hanno fatto la rivolta del 1525 vanno sterminati: “verso i contadini testardi, caparbi, ed accecati, che non vogliono sentir ragione, nessuno abbia un po’ di compassione, ma percuota, ferisca, sgozzi, uccida come fossero cani arrabbiati…” ; quanto agli ebrei, sulla scia degli eretici flagellanti tedeschi del Medioevo, dichiara: “In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto”; inoltre occorre “allo stesso modo distruggere e smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari” ; i cattolici, infine, sono servi del papa, che è l’Anticristo (“maledetto, dannato, vituperato sia il nome dei papisti”), mentre Roma è Sodoma e Gomorra e la bestia dell’Apocalisse.

In tutto ciò anche la carità, cioè le buone opere, vanno nel dimenticatoio: non è un caso che mentre l’ Europa cattolica vede il sorgere delle scuole e degli ospedali moderni, i paesi protestanti sono a lungo esclusi da questo fiorire di opere buone.

Sia perché svalutare la capacità dell’uomo di compiere del bene non può che frenare il suo desiderio di farlo, sia perché le terre e i luoghi della Chiesa che offrivano riparo ai poveri, sono stati confiscati dai sovrani protestanti e spesso regalati agli amici o ai nobili che hanno aiutato il processo di usurpazione del potere religioso.

Nei suoi “Discorsi a tavola”, Lutero racconta che un giorno gli era stato mostrato un bambino minorato mentale. Egli propose subito di sopprimerlo: gli appariva un essere inutile, “che non faceva nient’altro che mangiare, e mangiava come quattro contadini o braccianti”. Era, a suo modo di vedere, “solo una massa di carne, nella quale non albergava alcuna anima, se non forse, il diavolo. Ai principi presenti al suo discorso, Lutero disse: “Se io fossi il principe o il signore qui, annegherei di persona il bambino nel fiume” .

Questo disprezzo del bambino malato, e delle opere buone, si collega anche alla tradizionale ostilità di Lutero verso la carne: Lutero nega sia l’Eucarestia, sia la resurrezione dei corpi, a dimostrazione ancora una volta di quanto il suo rapporto con il corpo sia tormentato, e prima e dopo la riforma. ..

Da Francesco Agnoli, Indagine sul crstianesimo, Piemme, 2011 (http://www.edizpiemme.it/libri/indagine-sul-cristianesimo)

Mons Mazzolari: una vita grande

Avevo sul tavolo un libro, appena edito, dell’amico Lorenzo Fazzini (“Un vangelo per l’Africa. Cesare Mazzolari, vescovo di una chiesa crocifissa”, Lindau), quando tutti i giornali, domenica 17, hanno dato la notizia: è morto monsignor Mazzolari. E’ stato un colpo al cuore. Il Sudan è per me un luogo “mitico”, da quando ero ragazzo, e mio padre mi parlava di questa terra di cattolici ed animisti, perseguitati dagli islamici del Nord del paese.

 Poi, solo l’anno scorso, avevo chiesto, proprio a Lorenzo, di portare Cesare Mazzolari nella mia città, ma l’incontro era saltato all’ultimo momento, non ne ricordo il motivo. Mazzolari, dunque, è morto, pochi giorni dopo che il paese per cui ha dato l’esistenza, il Sudan del sud, aveva festeggiato l’indipendenza (9 luglio). Gli è stato concesso di vedere l’alba di un nuovo giorno, ma non più di questo. E così la conoscenza diretta di un così grande uomo, non sarà più possibile ad alcuno.

Che fosse grande, però, lo hanno riconosciuto tutti. Il Corriere della sera ha titolato: “Addio a don Mazzolari, amico dei bimbi soldato”. Anche il Giornale ha messo in luce la lotta di Mazzolari per salvare bambini africani dalla schiavitù e dalla guerra.

E’ innegabile: un occidentale che lascia la nostra ricca terra per andare a vivere, per trent’anni, in mezzo alla miseria più nera, alla guerra, al terrore, fa il suo effetto. E’ ben altro rispetto ai volontari delle varie organizzazioni umanitarie, che con generosità partono per le loro missioni, sicuri però di tornare, molto presto, al calduccio delle loro case. Mazzolari ha vissuto il Vangelo alla lettera: ha abbandonato i suoi genitori a 18 anni, sapendo che non li avrebbe quasi più rivisti. Non per smania di viaggiare; neppure per quell’inquietudine che muove tanti giovani verso sempre nuovi lidi. Al contrario, Mazzolari è partito mettendo la propria volontà nelle mani di Dio.

Un uomo così non può che stupire, anche i media laici. Che però hanno messo in luce, di lui, soprattutto le opere di carità: “Mazzolari ha salvato migliaia di bambini soldato; ha costruito scuole, ospedali, con instancabile tenacia”…

Tutto vero. Ma dire questo, e non capire perché, è molto poco. A muovere Mazzolari, come racconta Fazzini, è stato l’amore di Cristo. La carità, quella perseverante, capace di sacrificio, indomabile, non nasce, nell’uomo decaduto, come un sentimento spontaneo. Non siamo, naturalmente, buoni. Non è neppure un acquisto per sempre. Mazzolari confessava di trovare forza in Cristo: in Cristo Eucaristia, in Cristo crocifisso, in Cristo incarnato.

Solo così per lui era possibile rinunciare totalmente a se stesso, consapevole che “chi perderà la propria vita per Me, la salverà” (LC, 22-25). Quando ero giovane, confessava sempre Mazzolari a Fazzini, parlando dello scandalo pedofilia in Usa, andai a studiare in quel paese: “Durante gli anni del dopo-Concilio, nella Chiesa degli Stati Uniti, constatavo la diffusione di una spiritualità molto superficiale, basata per lo più sulla psicologia. Quest’ultima diventava il sistema per curare la vita interiore”.

In questo modo, continuava Mazzolari, Dio veniva sempre più “marginalizzato”, con la conseguenza inevitabile che, accanto alle motivazioni, venisse a mancare anche la castità. Non era più compresa, né, poco a poco, praticata. Ma la castità è il primo dono di sè che il sacerdote fa: è ciò che gli permette di donarsi poi, interamente, agli altri; di poter essere mandato oggi in un paese, domani in un altro…

Monsignor Mazzolari, senza moglie, figli, né psicologia, ha vissuto la fame, la guerra (dal 1983 al 2006), la prigionia, in mezzo ad un’etnia, i dinka, in cui i ricchi si permettono anche decine di mogli, e le figlie vengono vendute per delle vacche. Lui bianco, tra i neri, condividendo storie, dolori, speranze, originariamente non suoi. La sua morte, dunque, non ha lasciato indifferenti. I giornali, dicevo, lo hanno lodato, ne hanno riconosciuto la generosità e l’opera sociale. I missionari sono ancora apprezzati, perché si sa che portano lavoro, istruzione, sanità.

Ma c’è qualcosa, in loro, che oggi si stenta a comprendere; che, addirittura, o si mette tra parentesi, o si condanna. Colui che li muove. Questo accade persino nel mondo cattolico. Proprio Mazzolari lamentava sia la formazione dei giovani missionari, sia la mentalità dei cattolici: “Spesso in Italia trovo fondi per opere sociali, ma non per costruire una chiesa…siamo diventati iconoclasti e non vogliamo più sentire parlare di cose sante”.

Due mi sembrano i motivi di ciò. Il primo è il prevalere di una mentalità di stampo socialista-marxista, secondo cui come il prete è uno psicologo, così il missionario è solo un operatore sociale chiamato a cambiare più la struttura economica che il cuore degli uomini. Il secondo è il relativismo religioso. Ma non sarebbe partito, Mazzolari, se non avesse creduto che esiste una bella differenza tra Cristo ed Allah. Lasciò tutto, dunque, per donare agli altri qualcosa di più prezioso di se stesso: per annunciare il Vangelo. Le scuole, i bambini salvati dalla guerra, le opere sociali, furono inevitabili conseguenze. Il Foglio, 28 luglio 2011

Il Concilio Vaticano II: rottura o continuità con la Tradizione?

di Massimo Tonon

Nell’affrontare l’interpretazione del Concilio vanno considerati i due
orientamenti con i quali esso viene valutato: quello della “rottura” e quello
della “continuità” con la tradizione, cioè con il magistero precedente.
Queste due definizioni sono state formulate da Benedetto XVI nel discorso
rivolto alla Curia il 22 dicembre 2005, nel quale auspicava che si
guardasse al Concilio Vaticano II alla luce “dell’ermeneutica della riforma,
del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore
ci ha dato”, contrapponendo questa interpretazione all'”ermeneutica della
discontinuità e della rottura”, che invece considera il concilio come una
“transizione epocale”, secondo le parole di Giuseppe Alberigo.

L'”ermeneutica della continuità” non è una novità: essa è presente nel
Magistero pontificio fin dall’avvento di Giovanni Paolo II, il quale inaugurò
una “lettura normalizzante” del Concilio.
Secondo l’interpretazione dell'”ermeneutica della discontinuità e della
rottura”, invece, alcune peculiarità del concilio portavano necessariamente a
ritenerlo un momento di cesura tra il periodo post-tridentino e il nuovo corso
che a esso sarebbe seguito.
Per questo, nella valutazione globale del Concilio Vaticano II bisogna
tenere conto anche, e forse soprattutto, della profondità del rinnovamento
che esso portò in una serie di campi fondamentali, talvolta tornando anche a
tradizioni ormai abbandonate da secoli (si pensi, per esempio, alla
reistituzione del diaconato permanente, e alla possibilità per i sacerdoti di
concelebrare) e restituendo il giusto valore alle chiese locali e alle diverse
culture, che il monolitismo post-tridentino aveva fatto perdere di vista,
costringendo la Chiesa cattolica ad adattarsi alla situazione peculiare del
mondo moderno.

Alla luce di tutto questo, un esclusivo riferimento ai testi, benché
necessario, sarebbe riduttivo e non esaustivo, perché l’identità del Concilio è
stata determinata soprattutto dall’effettivo svolgimento delle assemblee e
dalla ricezione dell’evento da parte della comunità dei fedeli. Il significato
precipuo del Concilio, quindi, secondo questa visione, consiste nell'”aver
impegnato risolutamente la Chiesa sulla via dell’avvenire con una triplice
correzione al tempo stesso pastorale, spirituale e intellettuale”.
L'”ermeneutica della continuità”, invece, non partiva da una visione
storica dell’evento, bensì da una interpretazione teologica dello stesso,
come si evince anche dal discorso di Benedetto XVI; essa lo poneva, per
definizione, in continuità con tutta la tradizione della Chiesa e lo
considerava soltanto uno dei ventuno Concili ecumenici. Questa
ermeneutica riteneva insostenibili, da un punto di vista teologico, i due
termini pre- e post-conciliare perché, come ebbe a dire il card. Ratzinger,
“l’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II è presentarlo
chiaramente com’è: una parte dell’intera e unica tradizione della Chiesa e
della sua Fede”
.
Per i sostenitori di questa interpretazione, il Concilio
coincideva con i suoi documenti ufficiali, che dopo l’approvazione del papa
erano diventati un atto del Magistero, se non infallibile, almeno autentico.
In questo senso, essi tendevano a far passare in secondo piano il dibattito
conciliare e tutte le caratteristiche dovute al momento storico in cui si è
svolto, vedendo nel concilio un momento di quella particolare categoria della
storia che è chiamata “historia salutis“. Lo stesso mons. Lefebvre, a questo
riguardo, diceva: “Quello che può sembrare un voltafaccia non ha nulla che
debba sorprenderci. Una volta che uno schema veniva promulgato dal papa,
non era più uno schema ma un atto magisteriale, mutando perciò natura,
[…] io non posso separarmi dal Santo Padre: se il Santo Padre firma,
moralmente io sono obbligato a firmare”
.

Perciò la sola interpretazione autentica del Vaticano II, alla stregua di
ogni altro Concilio, era quella che emergeva alla luce della fede e della
tradizione: esso andava considerato quasi come una continuazione e un
ulteriore “approfondimento” del Concilio Vaticano I e del Concilio di Trento.
Questa idea, che era alla base degli schemi preparatori, si accordava però
male sia con le intenzioni di papa Giovanni XXIII, sia con quelle della
maggioranza dei padri conciliari che, infatti, rifiutarono tutti gli schemi
proposti, provocando la costernazione della minoranza, che tuttavia riuscì
più volte a far emergere il proprio punto di vista.


Proprio questa situazione ha fatto sì che tra i fautori della continuità
emergano due posizioni distinte: la prima, maggioritaria e presente
soprattutto tra gli studiosi più vicini alla Santa Sede, che ritiene che i testi
del concilio siano effettivamente in continuità con la tradizione, tra essi vi
sono il card. Siri, o più recentemente mons. Guido Pozzo; la seconda,
minoritaria, che sostiene ci siano nei documenti conciliari elementi di
discontinuità con la tradizione, come Romano Amerio, e lo stesso mons.
Lefebvre.

In un articolo apparso su Avvenire del 10 dicembre 2010, il prof. Corrado
Gnerre ha definito queste due posizioni come “minimalista” e
“massimalista”. “La ‘minimalista’, che afferma la continuità, ma
conservando tutto com’è; la ‘massimalista’, che afferma ugualmente la
continuità, ritenendo però necessario intervenire con un eventuale
documento per annotare quelle parti dei testi conciliari che più difficilmente
sono armonizzabili con i documenti del magistero precedente. ?
‘ermeneutica della continuità’ in entrambi i casi. […] il Concilio Vaticano II è
un fatto. Piuttosto da parte di costoro si vuole prendere in considerazione
l’opportunità di andare molto più a fondo per capire davvero le cause di un
ormai troppo lungo ‘inverno’ della Chiesa. […] Mi sembra che per la prima
volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del
Magistero stesso, un atto per giunta pastorale, quindi che ha volutamente
utilizzato un linguaggio che sarebbe dovuto essere quanto più possibile
chiaro, semplice e aperto a tutti”.

Il problema che si pone, dunque, è inerente l’interpretazione del valore
dei testi Conciliari.
Se, dal punto di vista dell'”ermeneutica della rottura”, un
superamento dei testi era plausibile in quanto il riferimento a essi non è
esclusivo, questo era meno immediato per i sostenitori dell'”ermeneutica
della continuità”, i quali li ritenevano costitutivi del Concilio stesso.
Per questo è molto importante cercare di capire il valore dato a un
Concilio che, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato dichiarato –
e si è auto-qualificato – come pastorale.

La schiavitù del peccato

Commentavo, la volta scorsa, un capolavoro di Rodney Stark, “A Gloria di Dio”, e in particolare il capitolo sullo schiavismo. Notavo però la mancanza di una parte dedicata all’ “abolizionismo” dei primi secoli del cristianesimo. Stark non ha forse affrontato l’argomento per un motivo: è la storiografia contemporanea che, faticando a comprendere le categorie religiose, trascura da anni questo tema.

L’abolizionismo ottocentesco, infatti, procedette per petizioni pubbliche, pressioni politiche, leggi, addirittura guerre (la guerra civile americana e le guerra della marina britannica e francese contro schiavismo islamico): fu dunque un fenomeno ben comprensibile alla mentalità occidentale di oggi.

Al contrario, l’ “abolizionismo” dei primi secoli si concretizzò nel cambiamento, graduale, di concezione teologica ed antropologica, senza guerre, né petizioni, né coinvolgimento, se non secondario, di governi. Per questo diversi storici contemporanei mettono tutti in luce la novità portata dal cristianesimo riguardo alla schiavitù, sottolineano la grandezza del messaggio paolino (“Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”), talora elencano anche i singoli aspetti benefici che derivarono agli schiavi dall’azione della Chiesa, ma concludono, erroneamente, che la Chiesa accettò in qualche modo la schiavitù, benché moderata, mutata, corretta.

Una simile lettura storica nasce della incapacità del pensiero moderno, abituato alle rivoluzioni politiche, di intendere una “rivoluzione” religiosa. Quando san Paolo o alcuni uomini di Chiesa invitavano i padroni a rispettare i loro schiavi, e gli schiavi ad obbedire ai loro padroni, questo non significa che riconoscessero, in qualche modo, la schiavitù, ma che perseguirono uno svuotamento dall’interno di questa istituzione, attraverso la trasformazione del cuore e della mente dei loro contemporanei. Il primo atto di “abolizionismo” cristiano non fu la “lotta di classe” (da cui sono sorti solo gulag e schiavismo di Stato), bensì la proclamazione di una verità di fede, contenuta nella preghiera stessa di Cristo: il Padre Nostro.

Se infatti siamo tutti figli dello stesso Padre, è giocoforza riconoscere la nostra uguaglianza dinnanzi a Lui. Per questo Marc Bloch nota giustamente che il solo sedere accanto, durante la liturgia divina, di padrone e schiavo cristiani, fu una rivoluzione culturale immensa. Lo schiavo, figlio anche lui del “Padre Nostro”, non era più da meno di una porta (Plutarco), neppure un mero instrumentum vocale (Catone), ma era, appunto nientemeno che figlio di Dio.

Così nella Lettera di Barnaba si poteva leggere: “Non comandare amaramente alla schiava o allo schiavo tuo che sperano nello stesso Dio, onde non ti avvenga di non temere Dio che è sopra te e sopra loro”; analogamente Lattanzio affermava che padroni e servi “sono pari” perché “fratelli”, mentre Clemente Alessandrino insegnava: “Gli schiavi debbonsi adoperare come noi adoperiamo noi stessi, giacché sono uomini come noi, e Dio è eguale per tutti, liberi e schiavi”.

 Dal canto suo Cirillo Alessandrino ricordava che “in Cristo Gesù non c’è né servo né libero”, mentre sulle iscrizioni funerarie cristiane se è raro il caso che venga espressa la condizione di liberto, non si è mai trovata quella di schiavo. Come dimenticare, poi, che Cristo stesso morì sulla croce, cioè con la terribile pena destinata, allora, solamente agli schiavi?

Fu dalla visione teologica cristiana, dunque, che derivò il progressivo sgretolarsi dello schiavismo romano, che era sì già in crisi, ma non certo defunto; fu per questa stessa fede che Costantino vietò la crocifissione, i giochi gladiatorii negli stadi, dove gli schiavi venivano divorati dalle belve, il marchio a fuoco sugli schiavi stessi e la vendita dei bambini esposti.

Mentre l’imperatore legiferava, e i sinodi riconoscevano agli schiavi sempre più diritti -al matrimonio, all’asilo ecclesiastico, alla domenica libera, ecc.- Agostino, Ambrogio e tanti altri invitavano i cristiani ad affrancare i loro servi; ne riscattavo loro stessi, vendendo beni ecclesiastici; ammonivano a non utilizzare le serve, come avveniva nei tempi del paganesimo, come puri strumenti di piacere, a non arricchirsi a danno degli altri, a non disprezzare il lavoro manuale (sino ad allora prerogativa, appunto, degli schiavi); ricordavano i detti evangelici, così poco conformi alla mentalità schiavista pagana: “Guai a voi ricchi”; “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli”…

Fu così che si sgretolò il sistema schiavistico antico, e che non solo si liberarono migliaia di schiavi, ma si introdusse l’idea stessa, del tutto nuova, secondo cui la schiavitù è una istituzione ingiusta, perché negatrice di una verità ontologica. Il cristianesimo non fu dunque un messaggio sociale, e solo poi religioso; non fu neppure la promessa di liberazione solo nell’aldilà, come scrisse Engels.

Fu la proposta di una teologia che portò, con sé, inevitabilmente, un effetto sociale: la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, e non viceversa. Il Foglio, 14 luglio 2011

Padre Kino: un italiano nella Hall of Fame

Si festeggia nel mio Trentino, quest’anno, il trecentesimo anniversario dalla morte di Padre Eusebio Francesco Chini, noto come “padre Kino”. Si tratta di una di quelle figure straordinarie che dovrebbero trovare posto in tutti i libri di storia scolastici e che invece fatica ad essere conosciuta al grande pubblico.

[Padre Kino, però, non è dimenticato, negli Usa: anzi, è l’unico italiano a cui è dedicata una statua nella Hall of Fame di Washington, come uno dei fondatori dell’Arizona e della California. Sul basamento che regge la scultura è scritto: “Arizona. Eusebio Francesco Kino s.j., explorer, historian, rancher, mission builder and apostle to the indians”.

Kino nasce a Segno, in val di Non, nel 1645, da famiglia nobile. A diciotto anni entra nella Compagnia di Gesù: i Gesuiti del tempo sono uomini di vasta cultura, soprattutto scientifica, di tenace fedeltà al pontefice e al magistero romano, e di grandissima intraprendenza. Kino è soprattutto un celebre matematico, che rifiuta la cattedra all’università di Ingolstadt, offertagli da duca di Baviera, perché vuole partire per la missione. Il suo desiderio è convertire popoli lontani alla fede in Cristo, secondo il suo stesso mandato: “Andate in tutto il mondo ed annunciate il Vangelo”.

 La destinazione imposta dai superiori è la Nuova Spagna. Kino parte dopo aver condotto uno studio astronomico sulla cometa di Halley del 1680. Nel nuovo mondo ha presto modo di mettere in luce le sue molteplici doti di astronomo, cartografo, artigiano, esploratore e uomo di Dio.

Dal 1681 al 1685 opera in California: ne redige la prima mappa; grazie alla scoperta di rare conchiglie di colore blu intuisce e poi dimostra che si tratta di una penisola; primo tra gli europei la attraversa tutta, da est ad ovest. Dopo la California si trasferisce nella Pimeria, tra Arizona e Messico. Nel suo ruolo di missionario lo troviamo annunciatore instancabile del Vangelo, ma anche grande civilizzatore. Infatti si schiera più volte a difesa degli indios, di fronte ai soprusi di alcuni colonizzatori, fungendo da moderatore negli inevitabili conflitti che segnano lo scontro-incontro tra i due popoli.

 Esploratore infaticabile, costruisce personalmente ed utilizza strumenti come l’astrolabio, la bussola e il telescopio, ma soprattutto si occupa delle condizioni di vita degli indigeni, convinto che la promozione umana sia parte della sua opera di missionario. Padre Kino infatti insegna ai pima a vivere in costruzioni di mattoni, piuttosto che in capanne e in caverne; contrasta l’usanza di questi popoli, che non hanno nulla del “buon selvaggio” del mito, di condurre continue guerre tribali, spesso per scopi puramente rituali; introduce “nuove coltivazioni con le sementi e le piante fatte arrivare dal Trentino e coltivate in vivaio: ceci, lenticchie, cavoli, lattuga, cipolle, aglio, menta, meloni, uva, mele, pere, pesche, fichi…”.

Inoltre fa conoscere ai nativi il frumento, “che venne a colmare il vuoto nel ciclo agricolo dei pima, i quali fino ad allora avevano potuto coltivare le loro terre solo da marzo ad ottobre, a causa del gelo invernale. Il frumento consentì ai pima di vivere in insediamenti di maggior densità, il che rappresentava un’importante difesa contro gli attacchi degli apache”.

Meno di due secoli dopo l’adozione del frumento, i territori dei pima diverranno “il granaio dell’appena sorto stato dell’Arizona”. Oltre a migliorare l’agricoltura, Kino insegna agli indigeni, che si limitano a cacciare animali selvatici, l’allevamento, meritandosi l’appellativo di ranchero. “Fu così che padre Kino organizzò fattorie con mandrie di buoi, cavalli, pecore e capre, animali importanti perché permettevano agli indios di utilizzare come praterie d’allevamento le terre non coltivabili” (A.Maria Marchetti, “Un Trentino nell’America del ‘600”, San Paolo, Milano 1996; Lucia Campi Pezzi, l’Adige, 15/3/2011).

Così facendo Kino fonda numerose missioni, da cui sorgeranno alcune delle attuali città della Bassa California, dell’Arizona e del Messico: le visita regolarmente, una per una, viaggiando sempre sul suo inseparabile cavallo, con un cane e con un merlo parlante che suscita l’interesse dei fanciulli. Tutto, fatiche, viaggi, difficoltà, scontri con altri europei, al fine della “maggior gloria di Dio e della salvezza delle anime”: solo questo Amore può muovere ad una passione così grande.

Kino studia la lingua, gli usi e i costumi dei pima, li serve con generosità, e fa leva sugli elementi religiosi comuni, come punto di partenza per un cammino di evangelizzazione. I pima, infatti, nonostante siano politeisti e seguano gli stregoni, conservano il ricordo di un Dio creatore e di una sorta di peccato originale. Kino morirà nel 1711.

Ma non sarà dimenticato: ne seguirà le orme e l’esempio il francescano Junìpero Serra, grande apostolo della California, le cui missioni daranno vita a san Francisco, Los Angeles, San Diego, Santa Barbara…Anche Serra, oltre a convertire gli indigeni, a difenderli spesso dalle iniquità dei conquistatori suoi connazionali, se necessario anche dei più potenti, insegnerà loro agricoltura e allevamento, liberandoli dal nomadismo, ma anche l’arte del falegname, del fabbro e del muratore… Anche Serra, unico spagnolo tra i padri fondatori degli Usa, ha oggi un posto nella Hall of Fame di Washington. (Elsa Soletta, “Padre Junipero Serra, apostolo della California”, Serra Club di Viterbo) Il Foglio, 2 giugno 2011