L’incredibile realtà dei martiri.

Anche un cattolico non può fare a meno di chiedersi, in tanti momenti della sua vita, dove stia la santità della Chiesa.

Tutti coloro che la abitano peccano sette volte al giorno, più o meno gravemente. Il mondo se ne accorge e mentre da una parte si nutre di scandali, di volgarità, coi suoi giornaletti, le sue riviste, e gli spettacoli televisivi trasudanti fango e bassezze, dall’altra stigmatizza e condanna, non appena può, il cattolico “incoerente”, il prete che sbaglia, il religioso avido di denaro, oppure sorride e solidarizza con il sacerdote che si sposa, o con quelli disobbedienti, vanagloriosi, arroganti, che certo non mancano…. Per il mondo sono tutte piccole rivincite, gradite vendette contro il richiamo del cuore al bene e alla giustizia: vedete, dicono i maliziosi, la virtù non è possibile, l’ideale non esiste, anche i preti hanno rapporti carnali, anche i religiosi tradiscono i loro voti, non ci credono neppure loro…

Anche un cattolico può essere tentato di scandalizzarsi. Anzi, gli scandalizzati sono tantissimi, proprio tra i cattolici alla moda, sempre pronti a indignarsi, a ribellarsi, a prendere le distanze e a fare dei distinguo, rispetto alla Chiesa di cui sono figli e di cui invece si ritengono padri. Eppure, rimane il fatto che chiunque abbia frequentato e viva la vita della Chiesa, sperimenta la miseria e la povertà degli uomini che la compongono. Sono sì miseri, peccatori, segnati dal limite, ma anche innestati nella vite di Cristo: scorre, nel loro sangue, mescolata a vizi e impurità, una linfa divina, qualcosa di infinitamente grande e misterioso. Solo così si può spiegare la sopravvivenza, dopo duemila anni, di un fede che chiede ai suoi seguaci di andare contro gli istinti, i desideri, le brame della carne e del mondo. Che esige da coloro che si sposano una vita casta prima e dopo il matrimonio, e che chiede a molti di morire a se stessi, rinunciando totalmente ad una famiglia, ad un lavoro, e invitandoli ad una verginità piena, nei confronti di ogni lusinga meramente terrena.

Ogni vocazione è un miracolo, che da duemila anni si ripete, e sacerdoti e religiosi, “sterili” nella carne, da duemila anni partoriscono figli, spirituali, e continuano a riprodursi, sempre, in ogni circostanza, nonostante ogni difficoltà e sotto ogni regime! E’ già questo uno dei segni più evidenti della divinità di Cristo e della sua Chiesa, insieme alla presenza dei martiri. San Giovanni Bosco, san Camillo de Lellis, e tanti altri santi, sono stati, in vita, uomini straordinari, che hanno affascinato chiunque li avvicinasse, e continuano a stupire anche chi non abbia nessuna fede. In loro vi è l’epifania solenne del cristianesimo, in modo evidente, quotidiano, sfolgorante.

Ma accanto ad essi, nella storia, vi sono migliaia e migliaia di poveri uomini, che hanno scelto Cristo, e che non riescono, se non raramente, a dimostrare agli altri la bellezza e la grandezza della loro fede. Lottano ogni giorno con il proprio peccato e il proprio vizio, ma nessuno se ne accorge, perché soccombono più spesso di quanto non vincano, e perché nessuna luce potente rifulge dai loro sguardi e dalle loro azioni. Eppure talora Cristo chiede anche a costoro, quasi all’improvviso, di essere testimoni, di mostrare al mondo cosa sa fare un cristiano, il più misero, nel momento in cui viene chiamato. Penso ai tanti martiri di cui è ricca la storia della Chiesa, dalle sue origini, e soprattutto nei tempi moderni, dalla rivoluzione francese in avanti. Penso, in particolare, alla vicenda dei martiri di Orange, narrata in un bellissimo e documentatissimo testo di A. Reyne e D. Brehier, “Le martiri di Orange” (Il Cerchio).

E’ la storia di 32 religiose dai 24 ai 75 anni “consacratesi a Dio nella vita religiosa e rimaste fedeli sino al patibolo”. Siamo in età illuminista, epoca in cui il mondo non può ammettere la vita religiosa, specie quella claustrale. Per Diderot e gli altri, si tratta di fanatismo, e di superstizione. La rivoluzione francese, sulla scia dell’illuminismo, stabilisce la sua idea di libertà: “libertà è fare ciò che non nuoce ad altri”. Eppure, il 2 novembre 1789, su proposta di un vescovo, Talleyrand, i beni della Chiesa vengono posti “a disposizione della nazione”, e subito dopo i voti solenni religiosi vengono aboliti e gli ordini monastici soppressi, in nome del diritto naturale e della Costituzione. A tutti si chiede di sposarsi, offrendo soldi e onore a chi abbandoni l’abito, e un giuramento di fedeltà, alla Nazione, il nuovo idolo sanguinario, e all’ideologia dominante. L’Assemblea Nazionale arriva ad affermare che è importante “eliminare ogni residuo di fanatismo” e che “aumentando l’importo delle pensioni si ottiene il duplice scopo di conseguire il benessere di chi abbandona la vita comunitaria e di perseguire l’interesse nazionale all’estinzione della vita monastica”.

Per non giurare contro la propria coscienza, per non pronunciare neppure a filo di labbra parole impure, 32 religiose di Orange e centinaia di altri consacrati in tutto il paese, preferiscono morire, dopo aver perso ogni diritto, ed essere state indicati al pubblico ludibrio, come Cristo sulla croce. Come nel commovente romanzo di Gertrud von le Fort, “L’ultima al patibolo”, o nei “Dialoghi delle carmelitane” di Bernanos, le suore vengono condannate a morte da un tribunale speciale, che, secondo le parole di uno dei componenti, “non ha nulla a che fare con i tribunali dell’ancien regime”, perché “non ci sono formalità da osservare, c’è la coscienza del giudice e basta”. Al patibolo si recheranno tutte, senza ripensamenti, cantando il salve Regina, il te Deum, o il Veni Creator…Il boia di Orange, Paquet, un uomo che ha trovato così il suo momento di gloria, si diverte a scoprire loro il seno, e queste “con i denti afferravano i bordi delle camice per ricoprirsi”. Un documento dell’epoca ricorda che “la gioia che si vedeva dipinta sul viso di queste sante ragazze dopo la sentenza incoraggiava le altre condannate…molti prigionieri, disperati al pensiero delle loro mogli e dei loro bambini, affrontarono coraggiosamente il supremo sacrificio per il conforto loro donato dalle dolci e pietose esortazioni di queste religiose”. Come scriveva san Paolo: “Cosa ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada? Proprio come sta scritto: per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati” (Romani, 8-35).

Morire cantando col sorriso sulla bocca e la tranquillità nel cuore…quale miracolo, in anime che forse avevano faticato, in molti momenti, a non rispondere male ad una loro consorella, a sopportare una piccola offesa, a lasciar trasparire, anche un poco, come da un velo, la soprannaturalità della loro fede!

La Chiesa conto l’imperialismo internazionale del denaro

Nel 1931, per il quarantesimo anno della Rerum novarum, usciva l’enciclica sociale di Pio XI. Realismo e attualità di un’analisi sull’infausto predominio dell’aspetto finanziario su quello produttivo
di Lorenzo Cappelletti
“Questo è anche un momento in cui c’è una grande preoccupazione globale per un neocapitalismo fatto solo di capitali senza alcun riferimento a industrie e beni agricoli”, dichiarava il 12 settembre il nostro direttore ad Avvenire, quando ancora la nube di polvere e detriti gravava su New York. La medesima preoccupazione emergeva in testa a un ampio articolo scritto per il nostro mensile in quel medesimo frangente dal professor Caloia, presidente dello Ior (30Giorni, n. 9, pp. 54-62): “C’è il problema delle operazioni finanziarie che si risolvono in impieghi di danaro solo per farne altro, senza che si dia un contributo all’economia reale. […] Il buon funzionamento dell’economia globale deve essere considerato più importante dell’eccessiva libertà di alcune centinaia di abili operatori (finanziari) internazionali”. Eugenio Scalfari nell’editoriale di Repubblica del 16 dicembre scorso (e ancora l’economia argentina non era capitolata) sembra fare suo il tema: “L’economia si è trasformata in finanza e la finanza ha globalizzato l’economia. […] Il denaro è mobilissimo, si sposta in un attimo da un Paese all’altro, da un continente all’altro con la velocità della luce”. Da sponde e in tempi diversi, dunque, vengono spunti di una identica analisi del momento che attraversa il mondo globalizzato e la sua economia.
Nessuno, ci risulta, tanto meno in ambito ecclesiastico, ha pensato o ha ritenuto opportuno citare a questo proposito l’enciclica Quadragesimo anno che nel 2001, peraltro, celebrava il suo settantesimo compleanno. Forse si dubita della legittimità dei suoi natali, che cadono in pieno ventennio. O forse il settantesimo compleanno della Quadragesimo anno (e il centodecimo della Rerum novarum) sono ritenute ricorrenze che ormai non meritano particolari celebrazioni. In effetti nuovi documenti in questo campo probabilmente genererebbero inflazione. Riguardo al primo dubbio, però, si deve distinguere quella che fu la nascita della Quadragesimo anno, scaturita dalle idee piuttosto liberali e dalla penna non servile di gesuiti tedeschi e francesi, e l’adozione che di essa fu fatta da regimi che non furono altrettanto aperti (leggi: il Portogallo di Salazar e l’Austria di Dollfuss).
Nostro scopo, in ogni caso, non è sottolineare che si è dimenticata una settantenne. Non vogliamo darle voce perché ci parli di sé, per presentarsi fin troppo arzilla e immacolata, come spesso accade nei racconti autobiografici. Ma per evidenziare, attraverso le testimonianze di chi la conosce, il realismo che a suo tempo ha dimostrato riguardo all’infausto predominio del potere economico sul potere politico e all’altrettanto infausto predominio dell’aspetto finanziario sull’aspetto produttivo. E non solo. A tutto vantaggio della comprensione del nostro presente, che spesso nell’ambito ecclesiale si nutre più di antropologie filosofiche e teologiche che di osservazione dei fatti umani.
Le tre parti dell’enciclica
Per prima cosa bisogna però ammettere che la Quadragesimo anno non fu un’enciclica qualunque. Sia gli specifici commenti ad essa dedicati sia i manuali riconoscono che, se c’è una dottrina sociale cristiana, nella sostanza questa si deve non tanto alla Rerum novarum quanto alla Quadragesimo anno. Edoardo Benvenuto, in un volume interessante, afferma che essa, “unico caso nel corso della storia del magistero pontificio in tema sociale”, costituisce la “fondazione organica di una dottrina. […] Piaccia o non piaccia, questa è la doctrina socialis Ecclesiae, non più vaticinata mediante rimproveri, moniti e auspici, come era accaduto precedentemente, ma chiaramente esposta secondo un’articolazione logica, con le sue premesse, le sue tesi e i suoi corollari” (Il lieto annunzio ai poveri, Edb, Bologna 1997, p. 124). E spiega acutamente (cfr. ibidem, pp. 103-111) che la Quadragesimo anno, proprio per poterlo liberamente innovare, intende presentarsi in perfetta continuità col magistero di Leone XIII, alla cui esaltazione dedica tutta la sua prima parte (nn. 1-40).
Temi e categorie portanti della dottrina della Quadragesimo anno sono espressi nella sua seconda parte (nn. 41-98), dove si parla di proprietà, capitale, lavoro, salario, fino a considerare la necessaria riforma delle istituzioni a partire da una valorizzazione del principio di sussidiarietà e di quello che dovrebbe essere il principio direttivo di tutta la vita economica: la giustizia sociale. Al termine di questa parte prendono posto le due pagine (nn. 91-96) rimaste famose non solo perché vergate in italiano dal Papa (“uno dei rari casi in cui un testo di enciclica proviene redazionalmente dal papa stesso”, scrive nelle sue memorie, pubblicate in Humanitas nel 1971, padre Oswald von Nell-Breuning, il principale redattore dell’enciclica) ma soprattutto perché, seppure con qualche critica, riconoscevano i vantaggi del sistema corporativo appena introdotto dal regime fascista. Come spesso avviene quando l’autorità ecclesiastica interviene direttamente in re politica o oeconomica si assiste a una eterogenesi dei fini. Quella captatio benevolentiae non servì infatti a placare l’irritazione di Mussolini che “intese l’enciclica come una critica così sfavorevole a lui da sferrare la sua ira al riguardo delle organizzazioni cattoliche”, scrive sempre Nell-Breuning.
Insieme, con la riforma delle istituzioni, l’enciclica giudica necessaria all’instaurazione di un ordine sociale più adeguato la riforma dei costumi, a cui è dedicata la terza e ultima parte (nn. 99-149). Parte che, peraltro, prende il titolo dai mutamenti intervenuti in campo socioeconomico dall’epoca di Leone XIII. Naturalmente l’analisi è in funzione della riforma dei costumi, ma ci sembra significativo che l’enciclica ritenga necessario anzitutto inquadrare i rimedi in una diagnosi non affrettata del mutato scenario socioeconomico.
Una immagine della crisi argentina
La diagnosi
Scriveva a caldo La Civiltà Cattolica (II,507) nel presentare il testo dell’enciclica appena uscita: “Merito tutto proprio del nuovo documento di Pio XI sta nella diagnosi ch’esso, con la sicurezza del clinico sperimentato, espone dell’odierno regime economico”. Quasi quarant’anni dopo, cambiati tempi e temperie, e autore del giudizio, il giudizio risultava però ribadito: “Si resta colpiti da tutto ciò che c’è di nuovo e persino di audace nell’enciclica, che appare in parecchi passi molto consapevole dei problemi del momento” (Roger Aubert, nel volume collettivo Pio XI nel trentesimo della morte, p. 245).
Ci fermeremo dunque sulla diagnosi, segnatamente sul particolare rilievo che viene dato al problema finanziario, perché paradossalmente alcuni elementi di essa risultano più attuali che le indicazioni propositive dell’enciclica. Non a caso Paolo VI quando, nell’enciclica Populorum progressio della Pasqua del 1967, volle fare esplicito riferimento alla Quadragesimo anno, non si riferì al suo impianto o alle sue soluzioni, bensì proprio alla sua diagnosi, alle “condizioni nuove della società”, su cui, diceva, “malauguratamente si è instaurato un sistema che […] conduceva alla dittatura a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell'”imperialismo internazionale del denaro””.
La diagnostica della terza parte non contiene solo formulazioni durevoli come quella citata, ma anche distinguo importanti che devono rendere più cauti pure nel dire che la Quadragesimo anno condanna senza appello capitalismo e socialismo. Soprattutto se si sta alla lettera. Padre Nell-Breuning scriveva che “per l’esplicazione di un documento del magistero non importa né quello che il redattore dello schema ha pensato, né quello che ha pensato il titolare del magistero stesso, ma esclusivamente ciò che il tenore verbale significa secondo i principi generali d’interpretazione”.
Ebbene, se il socialismo risulta condannato più volte nell’enciclica, in essa si legge anche che, nella sua forma moderata, si direbbe che il socialismo “si pieghi e in qualche modo si avvicini a quelle verità che la tradizione cristiana ha sempre solennemente insegnate; poiché non si può negare che le sue rivendicazioni si accostino talvolta, e molto da vicino, a quelle che propongono a ragione i riformatori cristiani della società” (n. 113). Tanto che padre Chenu, in un testo molto vivo edito dalla Queriniana nel 1977, si chiede cosa mai motivasse la successiva grande “severità, dopo la constatazione di notevoli convergenze” (La dottrina sociale della Chiesa, p. 30).
Del regimen capitalisticum, a sua volta, si afferma che “non è in sé da condannarsi” (n. 101), non essendo “vizioso per natura” (ibidem) e anzi si dice che ad esso si accompagnano dei “vantaggi” (n. 103). E la stessa libera concorrenza viene definita “certamente equa e utile se contenuta entro determinati limiti” (n. 88). Si prende però atto delle degenerazioni monopolistiche, frutto paradossale ma “naturale” (natura sua) di quella libera concorrenza quando diviene infinita (n. 107), cioè, si potrebbe tradurre senza tradire Pio XI, il papa della “carità politica” (cfr. discorso alla Fuci del 18 dicembre 1927): “fuori di qualunque controllo della politica”. Tale infinita libertà di concorrenza infatti “lascia sopravvivere solo i più forti, cioè a dire, spesso, i più violenti nella lotta, quelli che si curano meno della coscienza” (n. 107).
Un aspetto di tale degenerazione è il “potere esercitato in modo quanto mai intenso da coloro che gestendo e dominando il capitale finanziario la fanno anche da padroni sul credito e sul prestito, per cui sono in qualche modo i distributori del sangue di cui vive tutta l’economia e ne hanno in mano per così dire l’anima, al punto che, se non vogliono, nessuno può neppure respirare” (n. 106). “Questo” (scrive padre Nell-Breuning a pagina 186 del suo commento all’enciclica uscito a Colonia nel 1932 e poi più volte riedito) “è il passaggio più tagliente dell’intera enciclica”. Ma si affretta subito a precisare che “non vi si deve leggere quel che non c’è scritto. Esso contrassegna una situazione che viene biasimata come uno sviluppo difettoso […], un errore del sistema che affligge l’odierna economia capitalistica e di cui viene auspicata con tutte le forze l’eliminazione” (ibidem).
Dunque il sistema capitalistico è distinto dalle sue degenerazioni. E inoltre, dicendo che il capitale finanziario è necessario come il sangue all’economia capitalistica, pure questo non viene per principio bandito. Si critica la mancata regolamentazione del suo flusso proprio perché nella sua circolazione risiede la vita o la morte delle articolazioni dell’organismo economico. Per questo non può essere lasciato in balìa dell’arbitrio di pochi.
A ben vedere non c’è molto da aggiungere, se non che oggi l’informatica ha reso più virtuale il sangue, enormemente più rapidi gli spostamenti del suo flusso e più invisibili i pochi a gestirlo. E dunque molto più urgente la terapia.
Approfondimento diagnostico
Fanno parte in qualche modo dell’analisi offerta dalla Quadragesimo anno anche gli interessanti nn. 130 e 132. Infatti, dopo aver detto, nel n. 129, con una citazione tratta dalla Rerum novarum, che si tratta di fare “ritorno alla vita e alle istituzioni cristiane”, nel numero successivo l’enciclica afferma, però, che “oggi l’andamento della vita sociale ed economica crea a un elevatissimo numero di persone gravissime difficoltà nell’attendere a quell’unica cosa necessaria che è la loro salvezza eterna”. Non si rimprovera né si auspica né si fanno progetti sulla pelle altrui, si cerca di capire. ? interessante a questo proposito che padre Chenu, delineando il quadro in cui viene a collocarsi l’enciclica, sottolinei che Pio XI risente positivamente dell’emancipazione dell’Azione cattolica da una “ecclesiologia totalitaria tanto nella sua gestione interna che nell’impegno dei cristiani nella vita economica e sociale” (cfr. La dottrina sociale, p. 21) e che comincia a vedere di buon occhio “il ritorno a una strategia che non partiva dall’alto ma da una situazione concreta secondo congiunture differenti e variabili” (ibidem). Di questa strategia si intravedono accenni nella parte finale dell’enciclica (dal n. 138 fino al termine).
Anche il numero 132 fa mostra di un identico comprensivo realismo quando afferma che gli affetti disordinati dell’anima, ovvero la sete di ricchezza e di beni materiali, sono “una triste conseguenza del peccato originale”. E in secondo luogo che tale “umana fragilità” trova “incentivi assai più numerosi” nel moderno sistema economico. D’altra parte, con un’ulteriore distinzione, non è tanto la modalità di produzione del moderno sistema economico a essere riguardata come un’occasione prossima al peccato quanto i “facili guadagni che l’anarchia del mercato apre a tutti e che allettano moltissimi allo scambio e alla vendita; e costoro, agognando unicamente di fare rapidi guadagni con la minima fatica, con una sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro con tanta frequenza che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori”. Ecco di nuovo stabilita una gerarchia di responsabilità fra un sistema finanziario carente e la produzione, tanto più che in numeri successivi si definisce legittimo “per coloro che attendono alla produzione, accrescere nei giusti e debiti modi la loro fortuna; anzi la Chiesa insegna essere giusto che, chiunque serve alla comunità e l’arricchisce accrescendo i beni della comunità stessa, ne divenga anch’egli più ricco, secondo la sua condizione; purché tutto ciò si cerchi con il debito ossequio per la legge di Dio e senza danno dei diritti altrui, e se ne faccia uso secondo l’ordine della fede e della retta ragione” (n. 136).
Immagine della crisi del ’29
Altri due accenni danno buona prova del realismo della Quadragesimo anno. Collocati come sono verso la fine di questa lunghissima enciclica (anche in questo purtroppo precorritrice), potrebbero facilmente essere annoverati fra i convenevoli: da una parte l’affermazione, molto in anticipo sui tempi della nuova evangelizzazione, e dunque ancora in tempo, di un mondo già “ricaduto in gran parte nel paganesimo” (n. 141). Dall’altra parte la preoccupazione che questo nuovo/antico ordine delle cose sconvolga non la Chiesa come tale nella sua dimensione metastorica, ma, turbando “le leggi della natura non meno che quelle divine” (n. 144), venga a danno di tante singole anime: “La Chiesa di Cristo edificata sulla pietra incrollabile non ha nulla da temere per sé, ben sapendo che le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di essa; sicura come è, per la prova dell’esperienza di tanti secoli, che dalle tempeste anche più violente uscirà sempre più forte e gloriosa di nuovi trionfi. Ma il suo cuore di madre non può non commuoversi ai mali innumerevoli che queste tempeste accumulerebbero sopra migliaia di uomini, e soprattutto agli enormi danni spirituali che ne sgorgherebbero e che porterebbero alla rovina tante anime redente dal sangue di Cristo” (ibidem).
Da Pio XI a Paolo VI
Ma se si risale ora all’apertura della seconda parte, in cui, con grande rispetto dell’autonomia dei campi, Pio XI si dice legittimato a trattare in campo economico solo di ciò che ha attinenza con la morale e non degli aspetti tecnici dell’economia, avendo essa suoi propri principi e leggi che devono essere investigati secondo ragione (cfr. n. 41), ci si accorge che, almeno nelle premesse, anche la parte deduttiva dell’enciclica intendeva evitare di prendere partito per l’uno o l’altro sistema. Se papa Pio avesse tenuto fede fino in fondo a quel principio e per un istante non si fosse fidato di un fiuto politico che al magistero non necessariamente compete (“oggi sono fermamente persuaso che Pio XI non ha compreso il fenomeno del fascismo, che gli mancavano le categorie sociologiche e politiche per inquadrarlo” scriveva padre Nell-Breuning nel 1971, e sottolineava il “non”) forse non avrebbe aggiunto le due pagine sulla convenienza del sistema corporativo italiano. Paolo VI, nella lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, riprendeva quel principio e ne tirava le conseguenze. Di fronte alla diversità delle situazioni presenti, diceva: “Ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione” (n. 4). Spettano ai fedeli laici, continuava, sia l’analisi che le scelte e gli impegni per l’opera di trasformazione sociale, politica ed economica. “L’insegnamento sociale della Chiesa non interviene per autenticare una data struttura o per proporre un modello prefabbricato” (n. 42).
In tempi a noi ancora più vicini, se si fosse tenuta presente l’indicazione che viene dalla storia dello stesso insegnamento sociale della Chiesa, forse si sarebbe stati più cauti nell’esaltare gli ideali di svolte economico-politiche che a distanza brevissima si sono rivelate ideali solo per la proliferazione della malavita internazionale (l’ha detto apertis verbis il professor Caloia nell’articolo citato in apertura, a pagina 58 per l’esattezza).

Bertone su Pio XII.

? Che Pio XII sia stato “indulgente con il nazismo” e “insensibile” di fronte alla Shoah è una “leggenda nera” di “totale inconsistenza”: l’ha affermato ieri il cardinale Tarcisio Bertone, che ha indicato nella disputa sulla questione palestinese e nella propaganda sovietica i terreni di coltura di quella “leggenda”, sorta sul finire degli anni ’40 del secolo scorso. Il segretario di Stato vaticano ha definito “grande”, “fruttuoso” ed “eroico” il pontificato di papa Pacelli. Ha sostenuto che è “anacronistico” e “fuori luogo” accusarlo di essere restato in “silenzio” di fronte alla persecuzione degli ebrei, della quale ha “parlato più volte scegliendo un profilo prudente” e contro la quale soprattutto ha “agito” promuovendo una “enorme opera di carità” a protezione dei perseguitati, cercando anche di arruolare ebrei romani nelle forze di sicurezza del Vaticano nel tentativo di salvarli dalla furia nazista.
Il cardinale ha parlato nella Sala della Protomoteca in Campidoglio intervenendo con Bruno Vespa, Andrea Riccardi e Francesco Margotta Broglio alla presentazione del volume di Andrea Tornelli, Pio XII. Eugenio Pacelli un uomo sul trono di Pietro (Mondatori, 661 pagine, 24 euro). Il cardinale ha definito “corposa e documentata” la biografia realizzata da Tornelli, che “attingendo a molti inediti ci restituisce la grandezza e la completezza della figura di Pio XII”.
La “leggenda nera” ? ha sostenuto il cardinale ? pretende di “ridurre il pontificato pacelliano ai presunti silenzi”, oscurando lo “straordinario magistero” che lo caratterizza e che fa di papa Pacelli un “precursore del Vaticano II”. Seguendo e lodando l’impostazione del volume di Tornelli, Bertone ha ricordato come Pio XII abbia “aperto” ad innovazioni in molti campi della vita della Chiesa, con una prima riforma della Settimana Santa, autorizzando l’uso del “metodo storico-critico” nello studio della Scrittura, prendendo in considerazione “pur con cautela” la teoria evoluzionistica, dando “più spazio alle donne rispetto agli uomini” nella proclamazione di santi e beati.
Sulla genesi della leggenda antipacelliana, il segretario di Stato vaticano ha detto che essa trova le prime formulazioni tra il 1946 e il 1949, in voci polemiche provenienti dal mondo ebraico e da quello sovietico. Le polemiche a matrice ebraica e medio- orientale prendono corpo in particolare a seguito di un discorso di Pio XII al delegati del Supremo comitato arabo per la Palestina, che fu ? ha detto Bertone ? “un appello a favore dei palestinesi in quel momento”. Per gli attacchi provenienti dal mondo sovietico ha citato un discorso fortemente antipacelliano tenuto il 27 agosto del 1949 da “un metropolita russo ortodosso molto legato a Stalin”.
E’ da tali frangenti ? secondo Bertone ? che “inizia a prendere corpo una incomprensibile accusa al papa per non essere intervenuto come avrebbe dovuto a favore degli ebrei”, mentre fino ad allora erano state “abbondanti” le espressioni ebraiche “di gratitudine e di stima” per l’operato di Pio XII durante la guerra.
In aggiunta a quanto già si conosceva, per il segretario di Stato vaticano sono significativi ? tra gli apporti conoscitivi del lavoro di Tornelli ? “alcuni giudizi netti di monsignor Pacelli sul nascente movimento nazionalsocialista” e soprattutto ? negli anni del pontificato ? la documentazione del “grande e grave dramma interiore vissuto dal pontefice durante il periodo della guerra circa l’atteggiamento da tenere di fronte alla persecuzione nazista”.
“I papi ? ha detto Bertone ? non parlano pensando a precostituirsi un’immagine favorevole per i posteri”. Il cardinale ha paragonato la “prudenza” delle denuncie di Pio XII a quella che in seguito caratterizzerà gli accenni di Paolo VI alle persecuzioni dei regimi comunisti. Una prudenza dettata dalla necessità di evitare “l’aggravamento della persecuzione”.
Quanto agli archivi vaticani ancora non consultabili, il cardinale è parso invitare degli sponsor a farsi avanti, assicurando che da parte della Santa Sede vi è la più ampia disponibilità a mettere a disposizione la “sterminata documentazione” che riguarda la “carità” esercitata in tempo di guerra: “Magari fosse possibile, con l’aiuto di qualche benemerita fondazione, catalogare in tempi brevi queste carte!”. Come esempio “positivo” di “disponibilità a comprendere” la figura e l’opera di Pio XII Bertone ha citato il “recente cambio di atteggiamento” della Fondazione israeliana Yad Vashem, che si è detta interessata a “riconsiderare storicamente” la propria valutazione di quel pontificato, che una “didascalia” del Museo della Shoah fino a oggi presenta “da un punto di vista polemico”.(Corriere della sera, 6/6/2007)