Cercare la Verità

Da Praga, parlando al mondo accademico, il Papa ritorna sul tema “fede-ragione e Verità” che nel famoso discorso di Ragensburg (2006), seppur per altri motivi, aveva toccato l’apice di popolarità, ma che ha origini molto lontane nel pensiero di Joseph Ratzinger.

 

Già nella sua prolusione a Bonn nel 1959 ci sono le tracce di questa ricerca e difesa della Verità ora riproposte a più riprese nel suo pontificato, ricerca e difesa che si ritrovano anche in moltissimi interventi e lavori del Ratzinger teologo e poi Cardinale. Da non dimenticare che anche la recente enciclica “Caritas in Veritate”, prima di essere un documento che si occupa di economia, può essere interpretato come un atto del Magistero a difesa della Verità, quasi a sottolinearne un primato o comunque un insostituibile fondamento della carità cristiana.

 

Fiumi di inchiostro sono stati versati sul tema del rapporto fede e ragione intese come “due ali” che conducono alla ricerca della Verità, illustri teologi e filosofi si sono cimentati, soprattutto dopo l’enciclica “Fides et Ratio” (1998) di Giovanni Paolo II che tra l’altro ha rappresentato una vera e propria nuova frontiera per la riflessione della teologia dopo il Concilio.

 

In poche parole possiamo dire che i due ultimi pontefici affermano la possibilità dell’uomo di riconoscere, con una ragione aperta al trascendente, l’Assoluto e i suoi attributi, traguardo che poi la fede può illuminare ed elevare per dare autentica risposta alla richiesta di senso dell’uomo.

 

Si tratta apparentemente di questioni molto lontane dalla vita quotidiana dei fedeli, spesso ritenute troppo complesse per essere spiegate “ai semplici”, ma non è così, anzi si può affermare – senza troppa paura di smentita – che qui si gioca una grossa partita per il futuro dell’umanità e forse anche la pastorale non dovrebbe aver paura di occuparsene.

 

Oggi non è politicamente corretto affermare che è possibile cercare e trovare la Verità, subito si viene tacciati di fondamentalismo e considerati esponenti di una sub-cultura.

 

C’è da chiarire però un aspetto sostanziale: non si tratta di una Verità qualsiasi, ma della ricerca del fondamento assoluto dell’universo e della personale esistenza di ogni uomo, perciò almeno un po’ di curiosità sarebbe meglio prestarla. In altre parole si tratta di cercare la risposta alle domande più definitive: ha un senso la vita? perché la morte? da dove vengo? a cosa sono destinato? c’è una risposta alla sete di felicità?

 

Si può far finta che tali domande siano inutili, ma poi in pratica tutti diamo una qualche risposta, anche inconsciamente: chi il potere, chi il piacere, chi Dio, chi il Nirvana, ecc. Tutte le risposte però non possono essere considerate uguali circa lo stile di vita che ne discende, perché la prospettiva cambia, e di molto, se il fondamento assoluto della realtà viene considerato immanente alla realtà stessa, o trascendente. Anche nell’ambito del trascendente è evidente che il riferimento a Dio o agli dei non è la stessa cosa.

 

Alle molte forme di gnosi, ai materialisti di varia estrazione, ai panteisti più o meno paganeggianti, mi preme dire che dei loro sofismi non saprei che farmene, infatti, le loro soluzioni ai quesiti esistenziali quantomeno lasciano un po’ di amaro in bocca. O meglio, che tipo di risposta danno? quale spiegazione alla sofferenza? In definitiva, cosa possiamo sperare? Ecco la domanda che inchioda gli uomini del nostro tempo.

 

Se la Speranza cristiana viene ridotta al rango di una consolazione per ignoranti e deboli, quale altra speranza viene offerta da questi uomini “forti e razionali”? Quale altra speranza che renda la vita degna di essere vissuta? Quale speranza che sostenga la sofferenza e l’ingiustizia? Se non c’è un Bene che cosa è il bene? Per cosa sono libero? 

 

La Speranza cristiana nasce e si alimenta dalla Fede in Colui che ha vinto la morte, in Gesù Cristo che ha detto di essere il Figlio di Dio, crocifisso al tempo del governatore Pilato, risorto dopo tre giorni e asceso al Cielo.

 

“Ma voi chi dite che io sia?” dirà Gesù ai suoi discepoli e lo chiede ancora oggi a me e a te che stai leggendo. E’ la risposta a questa domanda che può dischiudere la Speranza, è questa risposta che permette di comprendere che Lui è “la Via, la Verità e la Vita”. 

 

Una ragione ripiegata su se stessa che ritiene vero solo ciò che può essere “misurato” non riesce più nemmeno a comprendere la portata della domanda fatta da Gesù, ma così uccide se stessa, quindi la libertà. Si è fatto un sol boccone della metafisica e così si è arrivati logicamente a dire che “Dio è morto”.  A livello etico il processo ha condotto al “tutto è possibile” e anche il comandamento dell’Amore di Gesù è trasformato in una specie di marmellata soggettiva da cui prendere solo ciò che non urta troppo il proprio orgoglio, in ossequio ad una “libera interpretazione” che affonda le sue radici nella Riforma luterana.

 

Sì, l’Amore è la risposta di Dio sul destino e il significato dell’esistenza, ma questo Amore però non è un sentimento vago, confuso e soggettivo, non è buonismo o filantropia, è innanzitutto rappresentato da una Persona.

 

Non è qualcosa, ma Qualcuno, perciò non è riducibile ad un’esperienza intimistica, si incontra, è altro da sé, e come ogni esperienza di incontro personale l’atteggiamento con cui viverlo è il dialogo: si ascolta, poi si decide liberamente e responsabilmente quale risposta dare.

 

Questo incontro però non è con un fantasma o con un’idea, né soltanto con una Parola scritta, ma avviene anche nel quotidiano, alla luce del rapporto con la tradizione vivente nel corpo della Chiesa che consente a ciascun uomo di partecipare all’esperienza di coloro che incontrarono Gesù.

 

In estrema sintesi e con una finalità sapienziale, qual’è la Verità?

 

Conoscere che Dio ci Ama fino all’estremo della Morte in Croce del Figlio, perchè vuole salvarci. E questa Verità appunto non è un’idea, ma una Persona, quella che Pilato aveva davanti quando fece la sua domanda “Che cos’è la verità?”, ma in realtà non gli interessava la risposta, non ne sentiva il bisogno.

 

E noi? sentiamo di dover essere salvati? sappiamo riconoscere la necessità del perdono?

 

Questa presa di coscienza della nostra condizione è il primo raggio di Verità, di qui possiamo comprendere che la Legge non è contro di noi, ma per noi e quindi apprezzare anche il ruolo insostituibile del Magistero della Chiesa nel discernere e interpretare, evitando il comodo “fai da te” che, più che l’incontro con l’Altro, rappresenta un compromesso con sé stessi.

 

 

Wellness, religione del benessere

Wellness è un termine coniato negli anni ’50 da un medico americano – Halbert Dunn – per indicare “un metodo di condotta integrato, orientato verso il massimo potenziamento delle capacità di un individuo all’interno dell’ambiente in cui si trova”, quale espressione olistica di un benessere eco-psico-somatico. 

In uno studio di Michael Fuss (Il benessere come salvezza nel New Age – La salvezza degli altri, Ass. Teologica Italiana 2004) si sottolinea come l’attuale “evoluzione del New Age, incluso lo sviluppo del suo “mercato spirituale”, sembra caratterizzato dalla propensione irresistibile della wellness.” La salute, il nutrimento, la spiritualità, i rapporti con altre persone e con il pianeta, tutto miscelato allo scopo di acquisire una vita significativa e realizzata.

Il wellness rappresenta la nostalgia di una salvezza religiosa, si intravede un crescente soggettivismo, passaggio sempre più accentuato dal servizio di Dio, al servirsi di Dio per potenziare la “religione del Me”. In poche parole siamo al “si salvi chi può”.

Come sottolinea Introvigne ci troviamo di fronte ad una trasformazione del New Age, si parla di Next Age che “può essere descritto come il passaggio del New Age dalla terza alla prima persona singolare, (…) la società può anche andare alla rovina, ma la singola persona che ha accesso a determinate tecniche entrerà comunque in una sua età dell’oro personalissima e privata”.

A questo proposito è significativa una classificazione dei “sette aspetti” del wellness così come riportati in un articolo dalla Federazione Italiana Fitness nel suo web site; tra gli altri si parla di Wellness Sociale (processo di sana relazione con le persone che hanno a che fare con noi), Wellness emozionale (processo che crea emozioni positive e fa accettare se stessi come persona), Wellness spirituale (tende a dimostrare il valore della propria persona attraverso il comportamento e con i fatti, che possano dare un contributo positivo agli altri.), Wellness intellettuale (utilizza la mente e la propria intelligenza per la comprensione dei fatti e delle cose, anche quelle con le quali non si è d’accordo.), Wellness ambientale (è il contributo che si da a sostegno della qualità della vita e dei luoghi dove si vive: riciclo dei rifiuti, risparmio energetico, supporto al minor impatto ambientale).

Da notare che in Italia vi sono due importanti manifestazioni fieristiche dedicate al tema: Rimini Wellness e Wellness World Exibition (Fiera di Milano), nel sito web della manifestazione riminese viene indicato che “RIMINIWELLNESS conferma l’evoluzione di un settore che attinge le sue radici in un crescente bisogno di armonia e benessere, di interesse per l’esercizio dello sport e per le dinamiche dello ‘star bene’, una ricerca di equilibrio fisico e mentale che travalica i vecchi steccati della cultura fisica e si rivolge quindi a tutte le fasce d’età”.

Recentemente (Il sole 24 ore – 10/07/2009) è stato siglato un accordo tra Italia Turismo e Federterme per promuovere l’Italia come “wellness destination” sui mercati internazionali. Si chiama Dal termalismo al Wellness. L’obiettivo è quello di intercettare una nuova domanda di benessere termale in linea con nuovi stili di vita e con la domanda di benessere come `stato psicofisico, mentale e sociale`.

Ma, a parte le proprietà di fanghi e acque, in cosa consistono queste offerte di “wellness termale”?

Spulciando qua e là troviamo ad esempio a Chianciano (SI) un “salone sensoriale” dove fra l’altro vi sono “le stanze dell’aromaterapia, della cromoterapia e musicoterapia e quella del silenzio interiore.” Inoltre “si ha la possibilità di entrare nella piramide energetica che rispetta le proporzioni di quella di Cheope e di manipolare nel melmarium diversi tipi di fango termale.” Passando da Porretta Terme (BO) troviamo invece una “Musicartherapy” che “è un percorso di rilassamento guidato dalla musica dei quattro elementi aria-acqua terra-fuoco”. Anche a Montecatini (PT) nel recente maquillage all’Oasi termale del Centro Benessere Excelsior “il bagno turco è stato arricchito dalla cromoterapia, presente già nella mitologia egiziana, secondo la quale l’uso dei colori aiuta il corpo e la psiche a ritrovare il proprio equilibrio. (..) Resta invariata l’area relax ai vapori termali, con chaise longue e musica new age di sottofondo.” Alle Terme di Vinadio (CN) troviamo un pacchetto benessere dove “con l’ausilio di un questionario della medicina indiana possiamo conoscere il "tipo metabolico" a cui si appartiene (Vata, Pitta, Kapha); in base al tipo di metabolismo si può agire per equilibrare le energie tramite i massaggi effettuati con oli appositi, oli essenziali e ghi medicato, alimentazione e altri metodi naturali come la fitoterapia”. Concludiamo la breve carrellata con una proposta della Terme di Saturnia (GR): “Vacanze da sogno per prevenire o curare lo stress. “Stacca la spina”, parti per un’isola felice dove tutti si prendono cura di te, ti coccolano e ti guidano verso una rinascita fisica e mentale. Le Terme di Saturnia possono essere la tua isola da sogno. Ritrova te stesso e il tuo benessere, libera la mente, azzera ogni attività e tuffati nell’archetipo della tua esistenza: l’acqua”. (Le proposte di wellness termale citate sono riscontrabili nei siti web degli stabilimenti termali)

Queste “oasi del benessere” assomigliano sempre più a veri e proprio luoghi di ritiro spirituale, per definire questa soggettiva ricerca di “salvezza” non ci sono parole migliori di quelle espresse da Stanislav Grof,  esponente della psicologia transpersonale (“branca della psicologia” operante nell’orbita del movimento definito come New Age):

“Le religioni tradizionali generalmente propongono un’idea di Dio, che sarebbe una forza al di fuori dell’uomo e alla quale si potrebbe accedere soltanto su mediazione della chiesa e del clero. Il luogo preferito di tale processo è il tempio. Al contrario, una spiritualità, che si rivela nel processo di una profonda ricerca del sé, scopre dio come il divino nell’uomo. Si riconosce la propria divinità con l’aiuto di varie tecniche che offrono un contatto immediato ed esperienziale con le realtà transpersonali. In questi esercizi spirituali il corpo e la natura assumono la funzione di tempio” (S. Grof, Das Abenteuer der Selbstentdeckung, Monaco 1987, pag. 324).

Ma l’idea di “poter essere come Dio” non l’aveva già tirata fuori qualcun altro (Gn 3, 5)? Cambia la ricetta, ma guarda caso il sapore è sempre il solito. D’altra parte lo zolfo alle Terme è sempre stato “ingrediente” di base…

 

 

 

Da Renzo, il Bar di S. Francesco d’Assisi

 

L’italianità nei Bar si manifesta dando lustro ad alcuni classici luoghi comuni, ad esempio essere tutti Commissari Tecnici della Nazionale di calcio, il giocar con le parole tipico dei poeti e forse anche una certa tendenza alla santità.

Per definire quest’ultima caratteristica non c’è dubbio alcuno che l’immaginario di tanti si rivolge immediatamente a S. Francesco d’Assisi.

Applicate il Commissario Tecnico che è in voi al Poverello di Assisi, condite con un po’ di parole in libertà, aggiungete un pizzico di superficialità, sana indifferenza e buonismo sentimentale, e avrete ottenuto un meraviglioso risultato: vi sarete fabbricati la vostra bella immagine di S.Francesco, quasi sicuramente politicamente corretta. Certo, in un contesto culturale in cui “prendo solo quello che mi va”, tutto questo è coerente, peccato che il risultato con S. Francesco d’Assisi c’entri veramente poco.

“In prima è da considerare che ‘l glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della vita sua fu conforme a Cristo benedetto”, sono le prime righe de “I Fioretti” famosissima pubblicazione anch’essa generalmente ridotta a semplici storielle adatte per addormentare i bambini. Tuttavia, senza comprendere la radice di questo suo desiderio di essere “conforme a Cristo” non mi pare si trovino altre spiegazioni convincenti alla sua conversione, alla sua particolare vocazione, al suo amore per il creato. 

Ma cosa c’entra S. Francesco d’Assisi con un tabaccaio di Prato nato nel 1913 e morto nel 1983? C’entra eccome e soprattutto c’entra proprio il suo amore per il creato e il suo “sapersi fare come un bambino” per entrare nel Regno dei Cieli.

Renzo Buricchi, nasce da una famiglia socialista e contadina, mostrando fin da bambino una spiccata predilezione alle piante e agli animali; finita la terza elementare finisce anche il suo rapporto con la scuola, ma non la sua curiosità verso la natura. Il primo incontro con S. Francesco avviene da giovinetto, in sogno, quando gli apparve una figura del Santo magro e allampanato, pur tuttavia egli ne sentì grande attrazione e il Santo allungò la mano a stringere la sua. La mano destra di Renzo restò inspiegabilmente gelida per molti anni e i medici non seppero dare spiegazione plausibile del fenomeno. I due si ritroveranno poi al Bar Tabaccheria.

La curiosità per il creato continua, lo studio di un formicaio, quello della “riga bianca dei sassi”, la composizione chimica del suolo, i nomi delle stelle e le nuove tecniche agricole, e sarà un ramo di cipresso a svelargli il mistero d’amore che anima il Creato, ben presto “si rende  conto che la sua ansia di sapere non è dovuta tanto al classificare e catalogare ma a cercare di intuire il perché dell’esistenza degli esseri.” A 18 anni esce di casa e si ritrova nei pochi metri quadri del bar tabaccheria dello zio nella Piazza del Comune di Prato, qui la sua attenzione si sposta sugli uomini. Il servizio militare a Bologna lo porta ad approfondire soprattutto Buddismo e Induismo, poi improvvisamente pensa di rileggere il Vangelo e “si ritrova davanti un muro incomprensibile nel rapporto cielo-terra”. Finito il servizio militare si sposa con Misora, da cui avrà l’unica figlia Maria Pia. La chiave “per entrare” nel Vangelo? “Se non saprete farvi come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli”; è a questo punto che il Santo d’Assisi si ripresenta qualificandosi come frequentatore assiduo del Bar di Prato, in quanto rappresentante esemplare di quell’estrema semplicità evangelica. Renzo, che già si era ritrovato indissolubilmente unito a Francesco nell’amore per tutte le creature – per lui il Cantico era il Quinto Vangelo –, ora trova in lui quell’esempio che gli dischiude il Vangelo e quindi Cristo, Figlio del Padre.

 Al Bar Tabacchi di Renzo insieme al caffè avreste potuto sentirvi dire: “Quando il sacerdote solleva l’ostia e dice: ” prendete questo è il mio corpo”… A me viene in mente la prima foglia di vegetale che nacque dalle acque, e vedo la scintilla divina ingenerarsi in essa, per arrivare nelle sue mutazioni attraverso i millenni a divenire la base di quel cibo, nel quale il Salvatore, rinnovando il suo sacrificio ne trasforma la sostanza, per divenire egli stesso cibo eterno per noi… Sentire vivo nella mente questo percorso è cosa così grande da rimanerne sbalorditi!!”.

Passeggiando nei boschi de La Verna probabilmente vi avrebbe detto: “non è che io ho amore per le piante e gli animali fine a se stessi, ma ho amore per la vita che li anima e in quella vita vedo sempre la scintilla divina che li fa vivere”.

Perciò S.Francesco d’Assisi pregava così: “Tu sei santo Signore, solo Dio, che operi cose meravigliose”.

(Fonti: M.Pierucci – Un cipresso per maestro, Ed. Cantagalli 2005 e www.cenacolorenzoburicchi.it)

Caritas in Veritate, canto e controcanto

Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l’uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L’orizzonte dell’uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo.” (Udienza del 8/7/2009). Così Benedetto XVI nel chiudere la catechesi del mercoledì dedicata all’enciclica “Caritas in Veritate” e mi sembra la sintesi migliore del documento presentato il 7 luglio in Vaticano.
Nei vari commenti mi pare però che l’accento sia stato posto – come spesso accade – su aspetti particolari dell’enciclica: un Autorità mondiale rinnovata, la “logica del dono” come nuovo paradigma del mercato, la rivalutazione delle politiche pubbliche, l’immigrazione, …
Perfino Leonardo Boff – famoso teologo della liberazione – interviene dal Brasile per dirsi “sorpreso” per il “taglio sociale” (Corriere della Sera 8/7/09), le sue parole sono riprese anche dalla Stampa: «Finora la Chiesa era apparsa più concentrata sugli affari interni, ma con questo documento dal taglio fortemente sociale compie una grande apertura al mondo»Ritanna Armeni dal Riformista (8/7/09) invita la sinistra a leggersi l’enciclica dicendo che “Caritas in veritate contiene molte idee e valori storicamente definiti di sinistra. E sui quali la sinistra farebbe bene a tornare.” Proseguendo nell’articolo parla di dignità del lavoro, immigrazione, ruolo dello Stato, globalizzazione, ecc., ma non si legge nulla in merito ad esempio ai n°28 e 29 del documento, dove tra l’altro si dice: L’apertura alla vita e` al centro del vero sviluppo. Quando una societa` s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare piu` le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo.”
Su Il Giornale (8/7/09) viene intervistato il Prof. Marzano (Uni Sapienza) che precisa: “Sgomberiamo subito il campo da un equivoco: Benedetto XVI è favorevole al mercato, ma ritiene certe logiche mercantili debbano essere temperate e orientate verso il perseguimento del bene comune, che va realizzato anche attraverso una ridistribuzione della ricchezza.”, mentre Gotti Tedeschi intervistato sul Corriere (8/7/09) dice “la fiducia non si acquisisce o conquista con studi di mercato o con “codici etici affissi agli ingressi”, si conquista con il comportamento che è solo e sempre individuale, non è collettivo, né per legge, né per regolamento. L’etica è anch’essa individuale, non si impone per legge, non si impara all’Università, si vive e si applica solo se ci si crede, e ci si crede se si pensa sia utile e sia bene”. Sempre sul Corriere Andrea Riccardi fa notare come “Per il papa la dimensione spirituale è parte saliente della realtà. Non è realista chi non ne tiene conto: «l’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano».
Tornielli su “Il Giornale” dice che Benedetto XVI utilizza L’approccio che tiene presente la legge segreta del cristianesimo, quella dell’«et-et», cioè la capacità di includere tutti i fattori in gioco, senza estremismi o radicali«aut-aut”.
Il commento del Prof. Zamagni – superconsulente per la stesura del documento – appare su Avvenire (8/7/09) e la sua mano nell’enciclica è evidentissima per chiunque abbia letto qualche lavoro del Prof., in particolare i passaggi che parlano della “logica del dono”, che tra l’altro è la ratio fondante dell’economia di comunione dei Focolarini (www.edc-online.org).
Una voce fuori dal coro arriva da oltre oceano, Gorge Weigel – economista cattolico della scuola di Novak – pubblica un articolo su “National Rewiew on line” (lo potete trovare qui) dal titolo “Caritas in Veritate in Gold and Red. La vendetta di Giustizia e Pace (o così si può pensare)”. Weigel sostiene che l’enciclica sia “un ibrido” tra il pensiero del Papa sull’ordine sociale e l’approccio del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace sulla dottrina sociale della Chiesa. Questo approccio vorrebbe ripartire dalla Populorum Progressio, dopo che quest’ultima era stata in qualche modo superata dalla Centesimus Annus. Secondo l’economista americano i “vaticanologi” potrebbero tranquillamente evidenziare in oro i passaggi dell’enciclica dove è ovvia la mano del Papa e in rosso quelli dove di scorge l’approccio del Pontificio Consiglio. In rosso sarebbero alcuni passi che Weigel definisce “incomprensibili”, tra questi segnala quella che viene indicata come  “progressiva apertura in contesto mondiale, a forme di attivita` economica caratterizzate da quote di gratuita` e di comunione” (n°39), necessaria per la vittoria sul sottosviluppo. L’economista sostiene che di per sé questo può voler dire tutto e niente, qualcosa di positivo, come qualcosa di insignificante, rafforzando il concetto egli dice che tutto il contenuto dell’enciclica che tratta di “logica del dono” e gratuità, resta confuso e un po’ sentimentalistico, esattamente il contrario della ricercata sintesi tra carità e verità. Anche l’accento sulla redistribuzione della ricchezza, piuttosto che sulla creazione di ricchezza sarebbe un ulteriore segno del lavoro del Pontificio Consiglio, così come l’idea “dell’autorità di governo mondiale” . Infine suggerisce di concentrare la propria attenzione nella lettura soprattutto sui passaggi evidenziati in oro, anche perché in ultima analisi tutte le questioni socio-economiche sono da riferirsi alla natura della persona umana.
 
Io penso che l’Enciclica deve essere letta tutta e tutta con la massima attenzione, tuttavia mi pare evidente che alcuni temi (Logos, fede e ragione, attenzione alla vita spirituale, rischi dell’ateismo e dell’agnosticismo, verità) siano ricorrenti nel Magistero di Benedetto XVI, mentre altri sono più “tecnici” e legati al tema trattato e quindi ci può stare che tra “esperti” del settore si possano sentire voci discordanti.
Nella conclusione dell’enciclica c’è, a mio modo di vedere, la chiave con cui interpretarla: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15, 5) e Lui è “la Via, la Verità e la Vita”, amare Lui significa amare la Verità, quella verità assoluta sull’uomo che lo libera perfino dalla morte, al punto di avere la consapevolezza che anche se povero può essere libero di non invidiare il ricco. “ Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera (n°79)”, chiudo così non per sminuire l’importanza delle denunce e delle proposte dell’enciclica, ma perché questo non credo che sarà oggetto di attenzione di molti media.

 

Carlo Acutis, il sapore del sale

“The Passion”, il film che nel 2004 ha proposto una rappresentazione delle ultime ore di Gesù Cristo nel mondo, è stato l’occasione – al di là dei pregiudizi – per immergersi in modo molto realistico in quei drammatici momenti.
Ancora oggi è possibile fare esperienza di quel sacrificio, ritornare sul Calvario e addirittura cibarsi del Suo Corpo e bere del Suo Sangue, tutto si riassume nella S.Messa e nel pane e nel vino eucaristici (Papa Paolo VI Professione di Fede del 30-6-1968: la S.Messa “è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari”). Le radici dell’Eucaristia sono nella Chiesa primitiva, infatti, “erano assidui ogni giorno nello spezzare il Pane” (Atti 2,46) e diverse sono le testimonianze in tal senso dei Padri della Chiesa, come ad esempio quella risalente al 150 d.C. offerta da S.Giustino sulla reale presenza del Corpo e Sangue di Gesù nel pane e nel vino consacrati (Cap. 66 – Apologia Prima).
L’attacco alla S.Messa ha le sue radici nel protestantesimo, emblematica è la famosa affermazione di Lutero: “Triumphata Missa, puto nos totum papam triumphare” (Contra Henricum), in pratica soppressa la Messa, liquidato il Papato. Ci sono però mille e più ragioni che ribadiscono con estrema chiarezza la verità del Sacrificio Eucaristico della S.Messa, tuttavia più delle parole può l’esempio della santità.
Il 12 ottobre 2009 saranno trascorsi tre anni dalla morte improvvisa (leucemia fulminante) del giovane Carlo Acutis (1991-2006) la cui spiritualità si è veramente alimentata dell’Eucaristia. Leggendo la sua biografia (Eucaristia. La mia autostrada per il cielo – N. Gori, Ed. Paoline 2007) emerge la figura di un ragazzo “normale” che però aveva fatto un incontro straordinario, incontro che ogni giorno si sforzava di vivere concretamente.
Bella la testimonianza del domestico di casa Acutis, l’induista Rajesh, che tra l’altro si è fatto battezzare cristiano: “Carlo diceva che sarei stato più felice se mi fossi avvicinato a Gesù e spesso mi istruiva utilizzando la Bibbia, il Catechismo della Chiesa Cattolica e le storie dei Santi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, Carlo lo conosceva quasi a memoria e lo spiegava in un modo talmente brillante che era riuscito a entusiasmarmi sull’importanza dei sacramenti”.
La sua devozione per l’Eucaristia è bellissima, frequentava la S.Messa quotidianamente e diceva: “Molta gente secondo me non comprende veramente fino in fondo il valore della S.Messa perché se si rendesse conto delle grande fortuna che il Signore ci ha dato donandosi come nostro cibo e bevanda nell’Ostia Santa, andrebbe tutti i giorni in Chiesa per partecipare ai frutti del Sacrificio celebrato e rinuncerebbe a tante cose superflue”.
Il suo padre spirituale scrive: “Carlo era particolarmente sensibile nel capire se i sacerdoti celebravano la Messa in modo devoto e quando si accorgeva che erano poco immedesimati nella Celebrazione Eucaristica si rattristava; più di una volta mi ha detto che essendo i sacerdoti le mani tese di Cristo, il Signore lo devono testimoniare con entusiasmo…devono essere modelli luminosi e non ripetitori automatici di un rito liturgico in cui non mettono il proprio cuore e da cui non traspare la propria fede in Dio”. Carlo così parlava della Consacrazione: “Chi più di un Dio, che si offre a Dio, può intercedere per noi?
La sua opera di apostolato è testimoniata da molti suoi compagni di scuola, amici o persone che in qualche modo sono entrate in contatto con lui, diverse volte spiega loro il mistero eucaristico utilizzando i racconti dei più importanti miracoli eucaristici, in particolare quello di Lanciano; grande appassionato di informatica contribuisce a creare un bellissimo sito web proprio sul tema (www.miracolieucaristici.org).
Il Rosario scorreva nelle sue mani ogni giorno, grande la sua devozione alla Madonna di Fatima, arriva anche a dare una sua interpretazione del Terzo Segreto, frequenta più volte Assisi dove ora riposano le sue spoglie mortali, ama La Verna, nella sua vita spirituale e anche nel suo apostolato ha sempre ben presenti i Novissimi: “Se veramente le anime corrono il rischio di dannarsi, come in effetti molti Santi hanno testimoniato e anche le apparizioni di Fatima hanno confermato, mi chiedo il motivo per cui oggi non si parli quasi mai dell’Inferno”.
Le varie testimonianze su di lui sono unanimi in particolare per quanto riguarda la sua fedeltà alla Chiesa e al Papa, attivo in Parrocchia, non ha mai nascosto la sua scelta di Fede, sempre rispettoso delle posizioni altrui, non rinunciava mai alla chiarezza dei suoi principi. Molto legato alla figura del Pontefice, egli ha spesso difeso le posizioni della Chiesa sia dottrinali, che morali e non di rado si è trovato di fronte persone contrarie al Magistero. La sua malattia durerà il breve spazio di 10 giorni, poco prima di essere ricoverato i genitori si sentono dire da Lui: “Offro tutte le sofferenze che dovrò patire al Signore per il Papa e per la Chiesa, per non fare il Purgatorio e andare dritto in Cielo”. 
 
Caro Carlo, scusami se ti ho tirato in ballo, ma mi pare che ormai solo la santità cristallina possa evitare che il sale perda tutto il sapore. Soffro tanto a dover leggere interviste di grandi personalità della Chiesa che propongono il “dubbio” come status di maturità nella Fede, libri scritti a due o quattro mani che, invece, di illuminare confondono le idee, cose da cattolici adulti. Io, come molti altri, resto colpito dalle tue parole che arrivano al cuore e stimolano la ragione ad andare oltre sé, mi guardo intorno e vedo tanta sete di autenticità, molto meno di “dubbi” che fanno tanto “churc intellectuals”, ma alla fine favoriscono il “fai da te”, l’opinione personale. Il “fai da te” è una gran cosa per l’hobbistica, ma parlando di “salvezza eterna” non riesco proprio a capire come possa aiutare le persone. “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui…E’ vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno” (Curato d’Ars). Ora pro nobis Carlo.

Cristiani per fede, cristiani per cultura.

Questa distinzione tra cristiani per fede e cristiani per cultura l’ho raccolta partecipando alla presentazione bolognese del libro “Perché dobbiamo dirci cristiani” scritto dal Sen. Marcello Pera, all’incontro erano presenti il Prof. Panebianco e il Card. Caffarra. Senza entrare nel merito dell’analisi svolta dall’autore (tra l’altro condivisa in buona parte anche da Panebianco) credo siano molto interessanti alcune considerazioni conclusive presentate dal Cardinale, considerazioni che appunto si rifanno alla distinzione di cui sopra. A pag. 54 del libro vi è un paragrafo intitolato “Come se Dio esistesse” dove l’autore dà la sua definizione di cristiani per fede e cristiani per cultura, il Card. Caffarra le riprende e ne sottolinea alcuni aspetti.

Il cristiano per fede è colui che vive una esperienza, ha un rapporto con una Persona, con Gesù Risorto. Tale rapporto non è soltanto un fatto intellettuale o sentimentale, è ben di più, infatti, da esso il “cristiano per fede” arriva “a riconoscere la vera identità di Gesù”, quella di Figlio di Dio. Da questa scoperta, risolutiva rispetto alle domande esistenziali, non si può non far discendere “un modo proprio di stare al mondo”. Chi riconoscendo l’Origine e il Fine di tutto potrebbe fare altrimenti? Quindi “la Fede non può che generare una cultura”.

Questa cultura può essere riconosciuta nella sua rilevanza anche da chi non ha fede, il non-credente può perfino ritrovarsi nella stessa “in quanto corrisponde alle esigenze della ragione”, ma solo però se vi si avvicina non censurando le domande sul senso dell’esistenza, questo è il “cristiano per cultura”. Il Cardinale fa giustamente notare che “la presenza di Cristo dentro ad una cultura, l’esistenza solida di una cultura cristiana, è esclusivamente assicurata dalla Fede dei suoi discepoli, la quale non è destinata a rimanere confinata nell’intimo, né a comunità separate dal mondo, molti vorrebbero che la Chiesa tornasse nella catacombe, ma lì c’è andata non per sua volontà!”.

 In altre parole “la possibilità dell’esistenza di cristiani per cultura è assicurata esclusivamente dall’esistenza di cristiani per Fede, ma a questo punto una domanda si impone: il distacco dell’edificio culturale dallo stile cristiano è dovuto anche (o soprattutto?) dal declino della Fede, dall’indebolirsi della confessione della Fede nella Chiesa in Europa?” Questo è vero – risponde il Sen. Pera – ma per recuperare questa forza della Fede non sarà necessario che i cattolici per Fede recuperino anche la loro cultura? Difficile rispondere a quesiti complessi e importanti, soprattutto perché il significato profondo di Fede Cattolica e relativa cultura sono a volte un po’ annebbiati nella mentalità comune, io mi limito a riportare una mia riflessione.

La Fede, proprio perché nasce da un incontro personale, mette in gioco tutto di sé (intelletto e volontà) e si alimenta della “vita dello spirito” (preghiera soprattutto) sostenuta dalla Grazia. La cultura che ne discende, se così si può dire, non è frutto di una interpretazione personale, ma – nella gioia dell’appartenenza alla Chiesa – “proviene dall’unità che lo Spirito ha posto tra Sacra Tradizione, Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente” (Giovanni Paolo II – Fides et Ratio n°55). La tentazione di prendere solo quello che ci piace è sempre dietro l’angolo… “cattolici da buffet?” Qualcuno si vergogna del Vangelo, molti della Sacra Tradizione, tanti del Magistero, perché? Non sarà che molti “cristiani per Fede”, oltre alla loro cultura, devono ritrovare la Fede stessa, confusa a tal punto da essere completamente smarrita? E non sarà che la perdita della Fede nasce e si espande proprio a partire dai molti cattolici che trovano gusto intellettuale a porsi in “dialettico disaccordo” con il Magistero e la Tradizione?

Chi si vergogna del Catechismo della Chiesa Cattolica (e sono molti anche fra i teologi cattolici) potrebbe guardare a Francesco d’Assisi, il cui “stile” non è buono solo per giudicare gli eventuali eccessi della Curia romana, ma la povertà e l’umiltà in lui generano obbedienza sincera, quella di chi sa riconoscere la Casa del suo Re, anzi sa di esserne parte viva proprio perché non è fatta di mattoni. L’obbedienza alla Chiesa del poverello di Assisi, come quella riscontrabile nelle biografie di tutti i Santi, non è accecamento della ragione, ma è l’intelligenza dell’Amore o Sapienza del Cuore, quella cioè che ammette un deposito della verità senza il quale non c’è più Fede, né cultura, ma solo opinioni.

Elogio della semplicità, ad onor dei Saggi (ad uso della Scienza).

“A differenza delle dottrine e delle elucubrazioni concettuali, i fatti non si possono accogliere parzialmente. I “sapienti” e gli “intelligenti”, considerati come tali, si trovano qui a mal partito. Al contrario i “piccoli” – che di solito faticano ad assimilare i ragionamenti, le analisi, le costruzioni ideali – coi fatti si trovano a loro agio…”, così scrive un Pastore, il Card. Biffi, del cui gregge non mi è affatto spiaciuto esser stato pecora. Il fatto al centro del brano è l’avvenimento pasquale, realtà di cui i “piccoli”, forse più degli intellettuali di professione, sono in grado “di riconoscere la consistenza e la forza con la semplicità del loro cuore”.

Paradossalmente proprio chi dice di attenersi strettamente al “reale misurabile” (i fatti!) si trova a mal partito laddove il fatto c’è, ma non rientra nella categoria riconosciuta come tale e quindi conclude che non c’è in assoluto o, quando non può farne a meno, si rifugia nel caso. L’ambito scientifico è sempre più abitato da costruzioni logico/matematiche non sempre chiare, quante di queste formule o apparati teorici sono effettivamente necessari per dare ragione dei risultati di ricerca?; quante servono semplicemente per rendere “elegante” il lavoro? Il rischio è quello di ridursi a un esercizio per pochi eletti, quasi un fenomeno esoterico in cui i “maestri” si compiacciono del loro essere distanti dalla plebaglia (ah l’orgoglio…).

Le “formule” devono comunque confrontarsi con l’imprevedibilità del reale (anche quello rigorosamente misurabile), possono avvicinarla in parte, o con gradi di probabilità, ma mai riassumerla completamente. Questo non sarebbe un problema, anzi è allo stesso tempo il limite e la forza della scienza, ma lo diventa quando questa visione della realtà è considerata come l’unica possibile, cosicché il punto di vista scientifico diviene più reale del reale.

Giuseppe Sermonti è senza dubbio uno scienziato fuori dal coro, discusso, ma a tal proposito introduce un argomento interessante: “dobbiamo ritrovare la giusta distanza dalle cose, …saper vivere la realtà intorno a noi praticando quel leggero disincantamento che la renda un tantino ragionevole, senza sacrificarla alla Ragione che subito pretende di privarla di ogni essenza”. Così facendo nulla si toglierebbe al fascino della scienza, anzi penso permetterebbe il recupero di una passione troppe volte costretta in formule e formulette inaridite, che pretendono di dirci tutto, senza però ammettere nessun altro codice di interpretazione oltre il loro linguaggio. Avvicinare senza presunzione la realtà è già sintomo di semplicità, condizione sicuramente positiva anche nell’approccio scientifico, infatti, credo non sia un caso che moltissime scoperte siano avvenute in modo inaspettato o “accidentale”.

La semplicità del cuore richiamata dalle parole di Biffi non può essere sbrigativamente catalogata alla voce ignoranza, mi pare, invece, possa considerarsi come “retta ragione”, cioè quel modo di intendere ed elaborare non corrotto da qualche “–ismo” di varia natura (scientismo, materialismo, relativismo, fideismo, ecc.), ma radicato su una chiara visione della propria condizione umana (onestamente limitata e fragile, ma capace di andare oltre sè).

Allora cantiamo la semplicità, virtù figlia dell’umiltà, si esprime con chiarezza, giunge a spiegare concetti complessi senza rinunciare all’onestà, è leale la semplicità, riduce le premesse a quelle essenziali, evita l’eleganza troppo ricercata, sa stare con i sapienti, ma non disdegna gli ignoranti la semplicità, preferisce tacere al troppo dire, il suo parlare è “sì, sì, no,no” perché il “di più” sa da dove proviene. Infine, per chiudere questo breve elogio, Giovannino Guareschi con sintesi da “scarpe grosse e cervello fino” trova anche il senso semplice delle “cose ultime”: “…quelli della Bassa finiscono sottoterra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale, mentre a quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la morte”.

Strade di campagna

Studiando la storia dell’agricoltura si resta colpiti di come normalmente facciamo memoria di personalità come Cesare, Napoleone o grandi re, inventori, soldati, artisti, ma non sempre prestiamo sufficiente attenzione ai gesti compiuti nella quotidianità dalle persone “comuni” e quanto, invece, questi incidano fortemente sull’evolversi degli eventi.

 Ad esempio, alcune semplici invenzioni non hanno un padre certo, ma sono state dirompenti per la storia dell’umanità: l’aratro, il giogo, la rotazione delle colture, sono frutto di intuizioni fondamentali su cui l’uomo ha potuto costruire la sua vicenda (“Dio ha scelto le cose deboli del mondo e quelle che non contano nulla per annullare quelle che presumono di sé”- 1 Corinzi 1,28). L’opinione pubblica ha, e ha sempre avuto, una concezione del “contadino” molto riduttiva, quando non denigratoria, ma l’agricoltore è una persona che vivendo a stretto contatto con i ritmi dettati dalla natura è dotato di un profondo senso pratico, non superficiale, ma conscio dei suoi limiti.

Abituato alla fatica l’agricoltore sa che deve aspettare, che anche mettendo in gioco tutte le sue possibilità tecniche dovrà sperare e confidare nel clima buono, in una buona fioritura, in animali sani, ancora deve inchinarsi di fronte al mistero, di fronte a leggi che può conoscere sempre di più, governare al meglio, ma non possedere fino in fondo, l’agricoltore conserva di fatto la capacità di stupirsi.

Il Prof. Lucio Rossi, figlio di agricoltori, importante fisico del Cern di Ginevra, tra i responsabili degli esperimenti con il Superconduttore, ha dichiarato ad un quotidiano: “Dall’agricoltura ho appreso che si semina, si suda, ma non si sa se si raccoglie. Il lavoro è indispensabile, ma non è quello che fa crescere i prodotti della terra. C’è di mezzo un disegno che non è del lavoratore.” Questo è il mistero che l’agricoltura manifesta nel meraviglioso rapporto tra uomo e creato, e proprio a partire dal mondo agricolo si possono trovare risposte originali (escludendo quelle materialistiche o naturalistiche) per comprendere il significato della relazione tra uomo, natura e Dio. L’agricoltore che semina non è un fatalista, ma è un uomo che pone fiducia nel suo gesto e sa che il raccolto arriverà, potrà essere più o meno abbondante, ma confida che arriverà. Mi piace pensare che l’agricoltore incarni la figura dell’”anawim” biblico cioè dell’umile, del povero in spirito, vale a dire colui che vive nella consapevolezza che è bisognoso, che è creatura e pertanto le sue azioni si fondano sulla fede e sulla speranza. Non si vuole vagheggiare un mondo antico e bucolico, conosco la durezza, a volte anche culturale, del mondo della campagna e l’agricoltore è uomo come lo siamo tutti, però resto convinto che questa professione abbia delle caratteristiche specifiche che la benedicono.

 Il 19 marzo 1993 a Vescovio in Sabina, Papa Giovanni Paolo II rivolgeva alcune parole agli agricoltori riuniti dinanzi al Santuario di Maria Santissima della Lode: “…certamente il campo rurale è quello più presente nella Parola di Cristo, nelle sue parabole, nel suo insegnamento evangelico. Allora deve portare in sé qualche cosa di divino, di soprannaturale, non solamente di economico-sociale. E serve a rivelare a noi la realtà più profonda della natura e la vicinanza del Creatore e Padre.” In queste parole è espressa una bellissima verità, il lavoro nei campi pur se faticoso e duro ha una stretta parentela con il divino, può permettere un particolare incontro con Dio, si potrebbe dire che costituisca l’ingresso ad una via privilegiata, quella che chiamiamo allora la “via degli anawim”. Gesù nel Vangelo utilizza spesso esempi di vita rurale per far comprendere il Regno e la sua missione, e tra questi possiamo trovare anche il senso profondo di questa via, una sorta di impronta che caratterizza l’anawim: “In verità, in verità vi dico se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se, invece, muore, produce molto frutto. (Gv 12,24)”.

 Il seme “contiene” la vita, la preserva, e perché possa germinare e liberala occorre che si rompa, cioè vi deve essere degradazione o rottura dei tegumenti in modo da realizzare delle fessurazioni; per alcuni semi si devono effettuare delle vere e proprie incisioni, denominate scarificazioni, mentre di solito sono abrasioni che normalmente avvengono con il contatto con la terra, o il forte dilavamento provocato dalle piogge, o l’alternanza gelo-disgelo. Colui che ha pronunciato queste parole ci ha dato l’esempio con il Suo Corpo, si è fatto flagellare e crocifiggere perché la Vita che era in Lui potesse essere donata a tutti noi, fratelli dello stesso Padre, la Sua Resurrezione è il frutto eterno del chicco che muore.

Se guardiamo a Lui ci accorgiamo allora che per seguirlo nei sentieri di campagna tracciati nel Vangelo dobbiamo imparare ad essere “nel mondo, ma non del mondo”, abbandonare l’egoismo che ci spinge continuamente al cercare strade asfaltate comode e veloci, per trasferirci nell’umiltà di vie sterrate dove non siamo più pieni di noi stessi. Lì si ribalta tutto, lì anche noi possiamo cominciare a morire a noi stessi per portare frutto: il mondo pensa che la personalità forte sia quella che impone, pretende, possiede, ma il seme morendo insegna che la vera personalità forte è quella che sceglie di donarsi. Questo è l’umile che si incammina sui sentieri di campagna lungo il Vangelo, colui che si svuota di sé per riempirsi di Dio.

La Pasqua ci ricorda che la vita e la morte non sono la stessa cosa, non sono indifferentemente sullo stesso piano, ma anzi la vita è talmente più importante che proprio dalla morte ha ricavato il massimo bene, una nuova vita, una vita eterna. La primavera è alle porte, buttate un occhio ai campi: la vita si risveglia ancora, ma noi sappiamo ancora stupirci?