LA GLORIA DI DIO E LA VISIONE BEATIFICA

Cristo Pantocratore, 1180-1190, -Duomo-di-Monreale, Mosaico absidale

La grande dimenticanza

La nostra preoccupazione verso le cose contingenti e la tendenza ad interessarci solo verso ciò che nel cristianesimo conduce ad un’utilità sociale, ci portano spesso a dimenticare che il fondamento e il fine di

tutto quanto esiste è la Gloria di Dio.

L’agire dell’uomo, per quanto nobile possa essere, non è un agire cristiano se non ha come meta la Gloria di Dio. La carità verso i poveri, l’aiuto verso gli emarginati o i tossicodipendenti, la cura dei portatori di handicap, ed ogni altra forma di servizio come anche di apostolato, acquistano una direzione e un senso se la speranza che ci anima è quella di vedere un giorno tutti questi fratelli partecipare alla Gloria di Dio. Ciò che di bello e di buono noi riusciamo a realizzare nel tempo deve essere visto solo come il primo precario frammento di un Regno che completerà in gloria quello che noi abbiamo fatto. Anzi, è proprio per questa ragione che ogni opera umana merita la massima attenzione. Perché se è vero che le nostre azioni e il nostro annuncio sono solo un provvisorio e imperfetto segmento di cui non controlliamo il destino, è anche vero che tutto in Cielo sarà ripreso, valorizzato e perfezionato dall’Amore onnipotente di Dio che glorifica tutto ciò che gli somiglia.

Se non intende questo, anche il cristiano meglio intenzionato finisce nello scoraggiamento, finisce per dire: “Ho fatto e fatto, ma non sono riuscito a cambiare il mondo”, cadendo così in quella mentalità efficientista che rinchiude tutto nel contingente, e per la quale è buono ed ha senso solo ciò che produce un successo visibile. Ma il cristiano, che in stato di grazia è già, in parte, cittadino del Cielo, sa che Dio asciugherà ogni lacrima dai suoi occhi perché “il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza” e “i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima” (CCC 1042).

Il centro di tutto

Gerusalemme Celeste, Arazzo dell’Apocalisse, Francia, Castello di Angers

Tutto questo il cristiano può già pregustarlo nell’Eucaristia, che la chiesa antica chiamava “pegno della Gloria futura” e che il Catechismo definisce “anticipazione della Gloria del Cielo”(CCC 1402): lasciandosi trasfigurare dal Pane di vita eterna, egli infatti anticipa in sé e nel suo agire i tratti di quella Gloria.

È questa la radice di quella virtù teologale che chiamiamo Speranza, anche se spesso la riduciamo ad una semplice attesa di un qualche futuro migliore. In realtà, non è in gioco solo la nostra felicità, sebbene (e pure questo viene ricordato poco) questa ci sarà conferita in misura immensa e per tutta l’eternità. La Gloria di Dio non si riduce solo alla dilatazione di tutto l’essere al godimento celeste, ma è anche somma manifestazione dello Spirito, alla Luce ineffabile nel quale tutto il molteplice s’incontra e si unisce sublimandosi nell’Amore irradiato dalla Trinità. E sebbene quest’ultima sarebbe nella Gloria anche senza le creature, la storia personale di salvezza di ciascuna di queste, una volta glorificata, diventerà paradiso vicendevole per tutti i beati.

Se imparassimo a vedere nelle persone quello che esse in gloria saranno, riusciremmo ad amarle oltre ogni tentazione di scoraggiamento o rancore. Riusciremmo a capire che esse non sono quali ci appaiono, riusciremmo a scorgere in loro le membra risorte del Cristo.

Ed anche tutte le cose che ci circondano ci svelerebbero la loro natura di segni che nascondono e svelano i lineamenti della Città celeste.

Il Paradiso

Beato Angelico, I seguaci e i martiri di Cristo, Pala di Fiesole

Il Paradiso è una realtà sempre più trascurata dalle nostre omelie e catechesi, ma è invece la meta concreta della fede e dell’agire cristiano. Certamente ciò che appartiene alla dimensione dell’Eterno esula dai nostri schemi conoscitivi, dalle nostre terrene capacità di comprensione. Tuttavia, evitare di affrontarlo alla luce dei nostri strumenti di fede e di ragione, conduce inevitabilmente ad un progressivo scetticismo, e, così come accade per l’esistenza dell’Inferno, si rischia di approdare anche per il Paradiso alla scontata conclusione: poiché non sono in grado di comprenderlo, non ci credo. Chi ha responsabilità pastorali o di evangelizzazione deve perciò fare in modo che la comunità cristiana si riappropri di questi Novissimi per non perdere il suo fondamento e la sua destinazione escatologica.

Il Paradiso non è una verità opzionale, né un destino utopico, né una sorta di fabulandia. Il Paradiso è il senso ultimo di tutte le cose, la meta finale del nostro esodo esistenziale, lo scopo di ogni nostro agire.

“Il Cielo è il fine ultimo dell’uomo, e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva” (CCC 1024).

Il Paradiso è il Regno preparatoci da Cristo, che, se da una parte “non è di questo mondo”, dall’altra è “già in mezzo a noi”. Trascendente e immanente al tempo stesso. Come del resto è trascendente ed immanente Dio, a cui tutti i redenti sono uniti. I santi, infatti, cooperano alle azioni del mondo e le guidano. Il Paradiso è la Gloria di Dio nell’eterna comunione di tutti i salvati, una condizione di Grazia perfetta, la quale però non è estranea alle vicende umane.

Il fine di ogni cosa

Il Cristo, l’Agnello con il libro dai sette sigilli – Fonte non identificata

Le opere di bene sulla terra, pur rimanendo terrene, sono già segmenti di quella retta infinita che conduce al Cielo. Ecco perché i cattolici dediti al sociale non debbono temere che il pensare troppo al Paradiso sia una forma di alienazione, un modo per trascurare gli impegni terreni. Tutt’altro; è l’appartenenza piena al nostro destino ultimo che ci conferisce piena concretezza quaggiù. Anzi, proprio coloro che abitano col cuore già nel Regno di Dio hanno vere capacità trasformanti della realtà che li circonda. Sono quei credenti la cui statura arriva fino in Cielo, perché Cristo vive in loro e tramite essi distribuisce la grazia donata alla terra. Le azioni sociali create solo da uno spirito di efficientismo rimangono finalizzate a se stesse, col tempo, si rivelano sterili, prive di capacità redentiva e trasformante. Sono le opere della fede a veicolare la grazia. “Saremo simili a Lui, poiché lo vedremo come Egli è; chiunque ha questa speranza in Lui, diventa puro come Egli è puro”, scrive Giovanni nella sua prima lettera (3,2-3). Credere nel Paradiso è avere questa speranza.

Non si tratta di un sogno, di un desiderio illusorio, si tratta di una verità garantitaci da Cristo, preparata per noi fin dall’origine del mondo (Mt 25,34). È in questa “città di Dio” che ci riappropriamo della nostra natura originaria:

“Adesso vediamo come in uno specchio, in una immagine; ma allora vedremo faccia a faccia; adesso conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto” (1Cor 13,12).

E se certamente là udiremo “parole ineffabili, che non è possibile ad un uomo proferire” (2Cor 12,4), il nostro compito qua è di non tacere, ma di annunciare, riguardo a questa verità, ciò che invece ci è lecito (e doveroso) proferire. 

La visione beatifica

Giotto, S. Francesco d’Assisi in estasi, 1295-1299,
Assisi, Basilica di S. Francesco
Fonte Wikipedìa

In cosa consiste la visione beatifica? E in che misura potremo contemplare Dio, se ci spetterà quella condizione di beatitudine promessa dal Vangelo? Nella Prima Lettera ai Corinzi, San Paolo scrive che, una volta redenti ed entrati nella gloria di Dio, potremo contemplarlo “faccia a faccia” (1Cor 13,12). Dinanzi a questa fortissima affermazione, nei secoli si sono sviluppate due correnti: i Padri delle chiese orientali tendevano a negare la possibilità che si potesse vedere Dio in modo perfetto, in quanto la perfezione è solo di Dio, e solo le Persone divine, nella loro infinitudine, potevano conoscersi totalmente. In particolare, Crisostomo affermava che neppure gli spiriti celesti più alti, ossia neppure i Cherubini e i Serafini, possono vedere Dio così com’è, e Dionigi l’Areopagita nel suo De Divinis Nominibus sosteneva che Dio non è oggetto di conoscenza, in quanto superava ogni conoscenza, e in altri scritti parlava perfino di “tenebre che coprono Dio”, da lui denominate “sovrabbondanza di luce”, che “oscurano ogni lume e si nascondono a ogni conoscenza”: perciò, secondo lui, nessun intelletto creato potrà vedere Dio nella sua essenza, perché “Dio rimane invisibile per l’eccesso del suo splendore”. Questa posizione era in linea con la spiritualità bizantina, che ha sempre sottolineato l’aspetto dell’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’uomo. Nelle chiese occidentali, invece, e in particolare nella chiesa di Roma, prevalse la tesi secondo la quale all’uomo, tramite la grazia santificante, viene concessa la possibilità di una visione perfetta una volta raggiunta la condizione di beatitudine, così come uno specchio è in grado di riflettere per intero la luce del sole pur non identificandosi con esso.

Visione perfetta o visione imperfetta?

Nicolas  Poussin, L’estasi di San Paolo, Parigi, Museo del Louvre
Fonte Frammenti Arte

Nel Medio Evo, grazie anche al contributo di teologi mistici, prevalse la tese della “visione perfetta”, tanto che già nel 1241 e nel 1244 la Chiesa sconfessò la tesi della “visione imperfetta”. Questo provocò un lungo dibattito che si concluse con la presa di posizione ufficiale e definitiva di Benedetto XII, che pose fine alla controversia sulla visione beatifica, promulgando il 29 gennaio 1336 la costituzione Benedictus Deus, nella quale sancisce, sotto forma di articolo di fede, che i giusti che salgono al Cielo contemplano l’Essenza divina con una visione intuitiva e diretta, in una beatitudine che continua nell’eternità. Del resto già l’apostolo Giovanni nella sua Prima Lettera, aveva scritto: “Saremo simili a Lui, poiché lo vedremo come egli è” (3,2-3), confermando quel “vedremo faccia a faccia” con cui San Paolo introduceva il suo “conoscerò perfettamente” (1Cor 13,12). A quel punto, si aprì perfino la strada a quanti sostenevano la possibilità di accesso alla visione beatifica già ai santi sulla terra. Ma il dibattito teologico su questo punto si era già confrontato, e ne erano nate posizioni divergenti: gli agostiniani, per esempio, sostenevano la possibilità della contemplazione beatifica perfetta solo “in patria” e non “in via”, cioè solo con l’ingresso dell’anima nel Paradiso, e pertanto successivamente alla morte. Anche San Bernardo di Chiaravalle riteneva fosse impossibile la “visio facialis” di San Paolo durante la vita, e sosteneva che questa fosse possibile nella condizione ultraterrena solo grazie all’amore perfetto che fondeva creatura e creatore pur nella loro distinzione. Questo stesso amore, secondo la spiritualità francescana (San Bonaventura, Duns Scoto…) rendeva possibile sulla terra questa anticipazione della “visio beatifica”, mentre per i domenicani (San Alberto Magno, San Tommaso d’Aquino…) era l’intelletto, e non il cuore, lo strumento per accedere alla contemplazione di Dio. In realtà si trattava di un dualismo artificioso, perché il dualismo mente-cuore si risolve appunto nello stato di grazia che apporta una condizione unificante delle varie capacità umane.

Il lumen gloriae

Giovanni di Paolo, Paradiso, Dante e Adamo – Fonte Wikimedia Commons

San Tommaso introdusse il concetto di “lumen gloriae”, una condizione speciale della grazia santificante che permetteva a Dio di ampliare all’infinito la capacità conoscitiva degli esseri umani così come degli angeli. Nonostante questa centralità conferita alla grazia, la tentazione di considerare possibile l’accesso alle conoscenze più alte tramite un itinerario filosofico dell’intelletto riaffiorò nel corso dei secoli, ma la posizione dell’ortodossia cattolica fu sempre quella di ritenere la “visio beatifica” un dono della grazia, e non una conquista della mente, sebbene quest’ultima dovesse ovviamente essere ben predisposta ed allineata con il cuore.

Evitato il pericolo dello gnosticismo (possibilità di raggiungere la conoscenza divina con le proprie forze) la teologia evitò anche quello del panteismo, che sotto l’influsso pressante delle religioni dell’Oriente pretendeva di far coincidere la visione beatifica con l’assoluta identificazione tra Dio e creatura. La dottrina del “lumen gloriae”, del resto, aveva spiegato chiaramente che la fusione non portava all’identificazione, ma che, nello stato di gloria, Dio vede se stesso nell’anima che lo rispecchia, riempiendo con la sua presenza il vuoto che l’anima ha fatto in sé. 

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