Napoli, quartiere Ponticelli

Romeno o rom fa lo stesso. ? difficile non sapere che i rom corrispondono a un problema sociale e purtroppo criminale. ? difficile non sapere che i rom, numeri alla mano, tendono a compiere reati con regolarità e a non integrarsi nella comunità che li circonda. Altre cose, invece, puoi anche non saperle. Non sei obbligato a conoscere la differenza tra un romeno e un rumeno e un rom, e poi la differenza tra un rom romeno, un rom non romeno, un rom polacco, uno zingaro e un semplice nomade. Non sei tenuto a sapere che gli zingari, assieme a quella ebraica, furono l’unica razza che il nazismo decise di sterminare integralmente; che ad Auschwitz sopravvissero solo quattro zingari maschi; che il celebre dottor Mengele amava fare esperimenti soprattutto sugli zingari e che iniettava la malaria ai piccoli rom.
Potresti dire: ma queste non sono informazioni essenziali, questo non c’entra col fatto che al quartiere Ponticelli (forse) hanno tentato di rapire una bambina. E avresti ragione. Ma se decidi di vendicarti, se per ritorsione tu e altri venti deciderete di aggredire un romeno che non c’entra niente (pestare e accoltellare un operaio che ha una casa, un lavoro regolare e che non vive in un campo nomadi) allora c’è qualcosa che sei obbligato a sapere: che meriti la galera e basta. Romeno o rom fa lo stesso
Filippo Facci – Il Giornale – 15 maggio 2008

Indulto e carriere devianti

Tra le varie opinioni a proposito dell’indulto, comparse di recente sui giornali e nei salotti politici, voglio segnalarne una proveniente da un sociologo misconosciuto (per lo meno a chi scrive), il quale, in sintesi, ha definito l’indulto un provvedimento doveroso e naturale, essendo il crimine un elemento strutturale della nostra società, che è “da sempre insensibile ai bisogni degli ultimi e dei diversi”.
Questa posizione rappresenta bene quella che possiamo chiamare la cultura giustificazionista della devianza, un atteggiamento semi-patologico che arriva ad allucinare la realtà per i propri fini di buonismo sociale. La realtà, invece, è molto più prosaica: il crimine diviene strutturale alla società quando la criminalità diventa una vera e propria carriera, una carriera deviante con connotati simili ad un qualsiasi investimento sociale ed esistenziale; con i suoi rischi, i suoi profitti, le perdite, i fallimenti. Se le perdite superano i profitti, la carriera deviante può interrompersi attraverso meccanismi che non sono solo espiatori. Ma se nella carriera deviante i profitti sono costanti, se l’ambiente sociale è tollerante e culturalmente “giustificazionista”, se il sistema sanzionatorio è inefficiente (condanne non scontate, processi infiniti, indulto), se il passivo, il rischio e le perdite sono annullati da prebende assistenziali e parassitarie, ebbene, la carriera deviante non troverà motivo di interrompersi se non con l’estinzione del soggetto deviante o con il suo “fallimento”. Generalmente questo fallimento coincide con la commissione di un crimine di gravità tale da espellere per sempre il deviante dal proprio ciclo produttivo (ad esempio l’ergastolo che si beccherà l’assassino del bimbo di Parma, psichiatri e assistenti sociali permettendo). Ma quanto danno sociale produce impunemente il deviante, prima del suo definitivo “fallimento”?
Una soluzione esiste, peraltro assai politicamente scorretta, e quindi verosimilmente efficace. Il crimine può essere combattuto attivando meccanismi repressivi che rendano la carriera deviante massicciamente improduttiva e disagevole, rispetto a quanto non lo sia il comportamento conforme alle norme. In altri termini, bisogna rendere la vita dei criminali molto più difficile di quanto si è fatto finora. E la cultura giustificazionista della devianza, che è spesso conseguente e connivente con la devianza stessa, deve essere oggetto di un precoce e continuativo vituperio sociale, e relegata nella pattumiera culturale dei nostri tempi.

Ladri di biciclette

nella foto, un'immagine tratta dal film Chiedo scusa se racconto un fatto personale, ma temo, anzi, sono sicuro che sia capitato e accada anche ad altri. E meriti, quindi, il dominio pubblico.

Sabato notte mi hanno rubato la bici davanti a casa. E’ la quarta volta che succede. Davvero non ne posso più.

E pensare che dopo gli ultimi furti subiti avevo preso apposta un modello giurassico strausato, immaginando che non potesse esservi miglior antifurto di un ferrovecchio arrugginito. Oddio, perfettamente funzionante. Ma con almeno cinquant’anni di strada, e forse più, nelle ruote.

Ciò nonostante l’ho sempre accuratamente chiuso con tanto di megacatenaccio neanche fosse l’Honda di Valentino Rossi.

Invece niente. Rieccomi appiedato e furibondo per il senso di impotenza che ci si ritrova addosso in queste circostanze. Ho provato ovviamente a girovagare qua e là, alla disperata ricerca della mia balilla a pedali. Ma, sia pur a malincuore, dopo un po’ mi sono arreso.

E ho rinunciato anche alla denuncia, per la sufficienza con cui ogni volta, dopo essere rimasto vittima dei precedenti furti, carabinieri e polizia hanno sempre preso svogliatamente nota dell’accaduto, lasciandomi intendere che l’atto, pur dovuto, non sarebbe servito a nulla. Inutile illudersi, sembravano dirmi. La bici non salterà più fuori. Né si troverà l’autore del furto. Sempre che – aggiungevo io mentalmente – questi non si presenti spontaneamente in questura, meglio se con il maltolto, spinto dall’irrefrenabile impulso di subire la sanzione prevista dalla legge.

Amari sarcasmi a parte, a sentire le forze dell’ordine si dovrebbe prendere atto che il furto di biciclette come di altri analoghi beni personali (pare che oggi vadano molto – cioè spariscano – anche le macchine fotografiche digitali) appartenendo alla categoria della micro-criminalità, è destinato a rimanere come tale impunito. A diventare “normale”.

Già: normale. Perché quello da me subito rientra fra le migliaia di reati minori ai quali, secondo carabinieri e polizia, occorre rassegnarsi perché è già tanto se nel nostro territorio il numero di crimini e delitti di rilevanza medio-alta (dai furti negli appartamenti a quelli delle automobili, dalle rapine in banca alle violenze sulle persone), risulta relativamente più basso e sotto controllo rispetto al resto del Paese.

Morale: noi che abitiamo quest’isola felice – il Trentino non è statisticamente paragonabile, in termini di criminalità, a certe regioni italiane del nord e del sud dove il problema è ben più drammatico – dovremmo insomma non dico rallegrarci, ma sicuramente non lamentarci di questi reati.

Di essi, anzi, faremmo bene ad autoaccusarci un po’ per non essere stati abbastanza previdenti. Nel mio caso, parcheggiando la bicicletta per strada. Vuol dire che la prossima volta, per non sentirmi in colpa, me la porterò a letto.

Gian Burrasca