Cuba divora i suoi figli

Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista

Nel febbraio dello scorso anno Orlando Zapata, dissidente cubano, ostile al regime dittatoriale di Castro, è morto in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame. Zapata era un ex muratore di Santiago di Cuba, e aveva solo 42 anni.

La sua morte, così spettacolare, ha destato per qualche tempo l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica per una delle dittature comuniste ancora vive nel XXI secolo. La protesta tramite scioperi della fame, sino alla morte, è una consuetudine degli oppositori cubani, sin dal principio del regime, come dimostra, tra le altre, la vicenda di Pedro Luis Boitel.

Costui, già nemico di Batista, era anche un oppositore di Fidel Castro, e fece l’errore di candidarsi alla presidenza della Federazione studentesca universitaria. Arrestato di lì a poco, venne condannato a dieci anni di prigione, durante i quali in più occasioni fece degli scioperi della fame per protestare contro il feroce trattamento subito.

Il 3 aprile 1972 Boitel iniziò l’ennesimo sciopero: al quarantanovesimo giorno cadde in uno “stato di semicoma”: morì dopo altri quattro giorni, senza cure e senza che alla madre fosse neppure permesso di vedere il corpo del figlio. Il fatto è che a Cuba non solo è estremamente facile finire nella galere-gulag di Castro, ma è altresì terribile rimanervi. In più occasioni infatti sono stati denunciati l’uso dell’elettrochoc, di cani da guardia lanciati contro i prigionieri, la privazione del sonno e la rottura del ritmo del sonno come modalità per sfiancare i detenuti e portarli, non di rado, alla pazzia…

Le celle cubane godono di soprannomi inquietanti. Tostadoras (tostapane), per il caldo insopportabile che vi regna; ratoneras (buchi per topi), quelle piccolissime e sotterranee; gavetas (gabbie), quelle piccole e strette come delle gabbie…

A marcirvi dentro, per anni e anni, magari in mezzo agli escrementi, senza acqua né assistenza medica, gli oppositori, religiosi e politici, a cui è negato persino il titolo di uomini: vengono infatti definiti, dal regime, gusanos cioè vermi.

Dal 1959 a oggi, secondo Pascal Fontaine, collaboratore del “Libro nero del comunismo”, circa centomila cubani “hanno sperimentato i campi di lavoro” e “sono state fucilate dalle quindicimila alle diciassettemila persone”. In verità queste cifre sembrano prudenziali, visto che i cubani che sono riusciti a scappare all’estero, evitando la morte, frequente, nelle acque dello stretto della Florida, parlano di cifre anche quattro volte superiori.

La morte di Zapata, cui si accennava, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza di altri dissidenti che coraggiosamente affrontano il regime con incredibile coraggio e speranza. Tra questi il celebre Guillermo Farinas, psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva cominciato un lunghissimo sciopero della fame che lo ha ridotto alla condizione di uno spettro, ormai solo pelle e ossa. Farinas ha interrotto proprio in questi giorni la sua protesta grazie alle trattative tra chiesa cattolica e regime, che hanno portato alla liberazione di 52 prigionieri politici.

Ma se queste notizie sono più o meno note, molto meno conosciuto è il fatto che uno dei motivi che hanno spinto diversi cubani a dare la propria vita per combattere il regime – oltre alla mancanza di libertà, politica ed economica -, è la dissoluzione morale del paese promossa dal regime di Castro.

Già in un messaggio ai presidenti statunitense e centroamericani in occasione del vertice di Costa Rica, del 7 maggio 1997, i dirigenti degli esuli cubani descrivevano il dramma della loro isola anche sottolineando l'”enorme tragedia di un’isola carcere comunista con i più elevati indici di suicidi e di aborti dell’emisfero e con una prostituzione, anche infantile, che ha trasformato Cuba in un vergognoso ‘paradiso sessuale’ per turisti senza scrupoli” (Cristianità, n.265-266, 1997).

Quando Castro andò al potere, infatti, dichiarò in più occasioni un concetto che anche i bolscevichi russi avevano espresso chiaramente sin dalle origini: il comunismo realizzerà il bene dei lavoratori e dei proletari, e la nuova condizione sociale ed economica eliminerà anche la piaga della prostituzione. Quanto all’aborto, si proclamò che la sua legalizzazione avrebbe sconfitto prima l’aborto clandestino e poi l’aborto stesso.

Le cose, a Cuba come nell’Unione Sovietica, non sono andate propriamente così. Per tanti anni Cuba è stato uno dei paradisi per pedofili del mondo, in cui giungevano persone da vari paesi, sapendo di trovare giovani donne ed anche bambine, disposte a tutto, per qualche soldo.

Con il regime che non solo chiudeva gli occhi, ma in molti casi favoriva lo squallido commercio del turismo sessuale, pur sempre portatore di ricchezza. Chiaramente, insieme alla prostituzione e alla pedofilia, nell’isola si è diffusa terribilmente la piaga dell’aborto: secondo alcune fonti tra il 1968 e il 1996 si sono registrati 5,6 milioni di nati vivi e si sono effettuati 2,3 milioni di aborti.

Un dato sicuro, di cui semmai si può dubitare che sia per difetto, sono i centomila aborti annui che si compiono in questo paese, con solo undici milioni di abitanti! Una cifra che colloca Cuba ai primissimi posti al mondo per ricorso all’interruzione violenta di gravidanza, nonostante nel paese vi sia un altissimo ricorso alla contraccezione (ne fanno uso circa il 72 per cento delle donne) e persino alla sterilizzazione, secondo gli insegnamenti del Cenesex (Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba), oggi diretto da Mariela Castro Espìn, figlia di Raul.

Ai centomila aborti legali di Cuba, vanno poi aggiunti quelli forzati, a scopo di “ricerca” e di “cura”. La radicale Mirella Parachini ricorda infatti che a Cuba, secondo la testimonianza di molti medici locali, tessuti fetali e neuronali vengono procurati a scopo di ricerca o di cura, a scapito di piccole e innocenti vite umane.

Dopo aver richiamato la testimonianza della dottoressa cubana Hilda Molina, secondo la quale a Cuba la medicina rigenerativa vive di “sostanza nera fetale” procurata anche nei modi più delittuosi, per fornire a malati stranieri cure presunte, che fruttano però soldi verissimi allo stato, la Parachini scrive: “Altri due dottori che avevano lavorato al Ciren (Centro Internacional de Restauraci?n Neurol?gica de Cuba) sono scappati da Cuba e dall’esilio hanno denunciato come a quei malati di Parkinson, per lo più stranieri, che pagavano in dollari, venivano praticati questi innesti di materiale fetale (con esiti tutti da dimostrare, ndr). Il dottor Antonio Guedes racconta che quando il centro ne aveva necessità urgente, in qualche centro ginecologico venivano ingannate delle donne in gravidanza, veniva loro detto che il figlio che aspettavano aveva gravi malformazioni, e veniva offerta la strada dell’aborto. Il tessuto era così procurato facilmente. Il dottor Julian Alvarez ha scritto un libro, “Artigiani della vita”. Spiega come a Cuba “attualmente si realizzano centomila aborti ogni anno. Il Ciren si trova di conseguenza a ottenere, con relativa facilità, il tessuto embrionale per il suo impiego in questi trattamenti”. Alvarez specifica che le donne danno il loro consenso sia per l’aborto che per la cessione del materiale biologico alla medicina, ma poi aggiunge un dettaglio non rassicurante: “tutti quelli che conoscono da dentro la vita di Cuba, sanno che le ‘pazienti’ non possono decidere nulla in merito. Molti degli aborti o ‘interruzioni’ si fanno in accordo con le necessità del Ciren” (http://salute.aduc.it/staminali/articolo/cuba+ricerca+democrazia+binomio+inscindibile_8359.php; per la Molina vedi Repubblica 13/8/1995: “Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall’America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a ventimila dollari ciascuno“).

Ancora oggi tra gli oppositori in carcere dei fratelli Castro, spiccano le figure di Eduardo Dìaz Fleitas, vicepresidente del movimento clandestino “5 agosto”, colpevole di aver protestato contro l’aborto forzato nel paese, e soprattutto quella del medico cattolico Oscar Elìas Biscet.

Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla vita. Nello stesso anno 1997 il dottor Biscet ha effettuato uno studio per documentare le tecniche di aborto utilizzate nell’ospedale Hijas de Galicia. Lo studio, che espone rivelazioni raccapriccianti su infanticidi, aborti forzati e sull’uso del Rivanol come abortivo utilizzato sino alla XXV-XXVI settimana, è intitolato: “Rivanol. Un metodo per distruggere la vita”.

In questo lavoro sono enumerati i metodi abortivi comuni utilizzati nel sistema sanitario cubano e si denuncia che nel caso di fallimento del Rivanol, cioè in un’alta percentuale di casi, il bambino viene ucciso per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza. Inoltre Biscet elenca statistiche preoccupanti su quanto siano numerosi gli aborti su bambine molto piccole, probabilmente vittime del turismo sessuale e della promiscuità ormai diffusa.

Le conseguenze della battaglia pro life di Biscet non tardano ad arrivare: nel febbraio 1998 viene ufficialmente espulso del Sistema sanitario nazionale. Ma Biscet continua a portare avanti la sua battaglia in difesa della vita tramite manifestazioni davanti agli ospedali e scioperi della fame, alternando libertà e carcere. Amnesty International e Freedom Now ricordano che Biscet è stato arrestato il 3 novembre 1999 e rilasciato il 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.

Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi è in condizioni terrificanti. Secondo Human rights first, Biscet, “difensore dei diritti umani”, soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua.

Quello che però non si capisce bene, leggendo buona parte dei comunicati di Human rights first, come del resto quelli di Amnesty International, sono due cose: che il diritto umano primario per cui Biscet si batte è quello alla vita (“No a la pena de muerte, no al aborto”); e che nella sua lotta questo eroe sconosciuto è sostenuto dalla fede e dalla preghiera. Paradossalmente sono verità, almeno la prima, che neppure il regime vuole far conoscere, visto che Biscet è in galera, ufficialmente, per motivi politici.

Molto più espliciti i siti cubani, di esuli o di suoi amici ed estimatori, che dicono apertamente che Biscet e la sua fondazione combattono per la libertà dei prigionieri e di tutti, e “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, “derechos fundamentales para la sociedad y el individuo”. Inizia infatti così un appello del dottore cubano ai suoi colleghi medici, il cui unico fine dovrebbe essere “promuovere la salute e preservare la vita”: noi siamo in difesa della famiglia, “la cellula fondamentale della società. La famiglia che è oggi in crisi per un sistema che promuove e stimola la mentalità antinatalista con metodi che offendono la dignità umana. Ci riferiamo all’aborto, crimine abominevole“, violenza contro la persona umana.

E finisce: “Diciamo no alla pena di morte per aborto, eutanasia o fucilazione… Abbasso l’aborto, abbasso la pena di morte, viva il diritto alla vita“. © – FOGLIO QUOTIDIANO di Francesco Agnoli

Appello per Oscar Elias Biscet

C’è un uomo che è divenuto un mito, una leggenda. Che ci guarda ogni giorno da magliette e gadget vari, in quasi tutto il mondo. Che ha un volto bello, virile, e duro. La cui fama è stata garantita da un miliardario italiano che voleva divenire anch’egli ispiratore di guerriglie rivoluzionarie, e che ne ha diffuso una foto, destinata a divenire leggendaria.

Il suo nome è Ernesto Che Guevara. Il suo merito, aver contribuito al trionfo, in Cuba, di una feroce dittatura, ereditaria (dopo Fidel Castro, Raul Castro), che persiste da cinquant’anni. Chi era Che Guevara? Un rivoluzionario feroce, dogmatico, che considerava l’Unione Sovietica, i paesi dell’est, Cecoslovacchia, Polonia ecc., un modello di benessere; un ammiratore dello sterminatore Stalin, prima di divenire un seguace entusiasta del più grande massacratore di tutti i tempi, il dittatore cinese Mao Tse Tung.

Il Che fu il primo filocomunista e il primo filosovietico, ben prima di Castro, tra i ribelli cubani, e riempì l’isola di manuali e di tecnici russi; fu l’ uomo che durante la crisi dei missili di Cuba del 1962 sperò ardentemente che potesse scoppiare la guerra mondiale tra Usa e URSS, ritenendo che essa avrebbe sconfitto il nemico americano e portato automaticamente la pace e la giustizia sociale ai popoli. Un uomo che ebbe due mogli e cinque figli, ma secondo la testimonianza di uno di questi, Camilo Guevara, non dedicò loro un solo attimo del suo tempo, intento com’era a cambiare il mondo con le armi.

Che Guevara fu un feroce sanguinario. “Era disumano, un uomo senza sentimenti che in realtà voleva fare solo ciò che aveva occupato tutto il suo tempo: la guerra di guerriglia”: così, dopo aver ricordato le fucilazioni indiscriminate ordinate dal Che a la Cabaña, Juanita Castro, la sorella di Fidel, che fu rivoluzionaria al suo fianco per alcuni anni (Juanita Castro, I miei fratelli Fidel e Raùl, Roma, 2010).

 “La sua arroganza e il disprezzo verso gli altri, che considerava inferiori e trattava con i piedi – aggiungeva Carlos Franqui, che fu direttore di radio Rebelde e del quotidiano Revolucion, voci ufficiali della rivoluzione castrista-, erano proverbiali”. E ancora: “Esiste il mito di Guevara, nonostante tutti i suoi insuccessi economici e politici, che contribuirono fortemente alla distruzione dell’ economia e della società cubane” (Carlos Franqui, Cuba, la rivoluzione: mito o realtà, Milano, 2007).

Il Che era un uomo crudele, fanatico, un "dogmatico, freddo, intollerante che non ha nulla da spartire con la natura calorosa e aperta dei cubani", scriveva Regis Debray, un intellettuale francese marxista, che fu amico intimo di Castro e di Guevara, e che venne arrestato insieme a lui in Bolivia, prima di divenire consigliere del presidente socialista Mitterand (Révolution dans la révolution?, Paris, 1967 e Loués soient nos seigneurs, Paris, 1996)

Secondo Alvaro Vargas Llosa (figlio del celebre Mario, che fu sostenitore della rivoluzione cubana), il Che fu il responsabile di centinaia di esecuzioni nel carcere della Cabaña nelle prime settimane di potere; contribuì a consegnare la rivoluzione anti-Batista nelle mani del comunismo, allacciando le relazioni con il regime sovietico, e organizzò i primi campi di concentramento per i prigionieri politici, i credenti e gli “asociali” (tra cui gli omosessuali), creando nello stesso tempo un sistema economico autoritario che andò ben presto in bancarotta. (Il mito Che Guevara e il futuro della libertà, Torino 2007; Enrico Oliari, Pride, 9/2004).

Del resto è stato Guevara stesso a scrivere, in quello che è considerato il suo testamento: “Agirà il grande insegnamento dell’invincibilità della guerriglia…L’odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare le sue limitazioni naturali e lo converte in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così” (E. Che Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia (1959-1967), Torino, 1969).

Così come era lui, capace di condannare a morte su due piedi avversari e talora persino compagni di lotta, e di dichiarare: “Prendete un fucile e sparate alla testa di ogni imperialista che abbia più di quindici anni". (Massimo Caprara, già segretario di Palmiro Togliatti, Il Timone, luglio-agosto 2002).

Per giudicare Che Guevara non importa dunque quanto fosse giusta la sua denuncia delle colpe del capitalismo e degli Usa! Importa che la soluzione da lui scelta era sicuramente folle, sanguinaria: l’odio, la dittatura, il totalitarismo comunista, in stile stalinista o maoista! Soleva dire, lamentandosi con molti compagni rivoluzionari cubani non comunisti o addirittura anticomunisti: “Appartengo a coloro che credono che la soluzione dei problemi di questo mondo si trovi dietro la cortina di ferro” (Antonio Moscato, Che Guevara, Teti, Roma, 1996).

Dietro quella cortina, il Che andò, e ne rimase entusiasta, ma oggi tutti noi sappiamo quello che c’era davvero! Sappiamo anche cosa c’è oggi, a Cuba, dopo tante promesse: “Senza i beni di base provenienti dagli yankees e da altri occidentali (tra cui in prima fila anche noi italiani) i cubani sarebbero alla fame. Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cuba è quella di un paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata servita nei paladares… Sullo sfondo dell’eroica rivoluzione contro Batista e delle grandiose ambizioni geopolitiche del carismatico Fidel, questa Cuba immiserita e sopravvivente, cucita su misura di turista (sessuale, non più ideologico) sembra rassegnata a recitar se stessa” (Lucio Caracciolo, sul settimanale di sinistra L’Espresso 1/1/2009).

 Il fallimento dell’ ideologia comunista è ormai sotto gli occhi di tutti, in tutti i paesi ex comunisti ed anche a Cuba (si veda anche intervista ad Alina Castro, figlia ribelle di Fidel fuggita da Cuba, su Corriere 17/11/2006). E’ dunque ancora possibile portare la maglietta del Che? E’ ancora lecito considerarlo un eroe ed un modello, come fecero anche le Br italiane, dopo che persino uno scrittore graniticamente comunista, e amico di Castro, come Josè Saramago, dopo la durissima e sommaria condanna di 79 dissidenti cubani, ebbe a dichiarare: “Fino a qui sono arrivato. D’ora in poi Cuba seguirà la sua strada e io la mia” (la Repubblica, 17/4/2003)?

Forse è il caso di rimuovere un idolo. Di rivisitare una mitologia.

Ma soprattutto di tributare onore e ammirazione ad altri, che della rivoluzione cubana del Che e di Castro sono, ancora oggi, le vittime! Il nostro eroe, allora, che vogliamo ricordare nella preghiera e sulle magliette, non è un guerrigliero, né un fanatico dell’ideologia. E’ un cattolico, un nero, un medico che crede nella dignità della persona: per tutti questi motivi, è un perseguitato.

Il suo nome è Oscar Elias Biscet. Per Amnesty International, Human rights first, Freddom now, per migliaia e migliaia di cubani, è un “prigioniero di coscienza” e un vero eroe.

 Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla Vita. Diritto alla vita violato costantemente in un paese in cui esistono la pena di morte per i nemici politici; in cui organismi governativi sostengono la liceità della clonazione umana cosiddetta “terapeutica”, contro l’ “atteggiamento oscurantista”, a loro dire, di chi si oppone; in cui esiste l’aborto forzato, per motivi di ricerca medica, e il tasso di abortività è circa 5 volte quello italiano; in cui l’uso del farmaco Rivanol come abortivo determina il fatto che nel caso di fallimento, cioè in un’alta percentuale, il bambino viene ucciso (infanticidio) per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza; in cui il turismo sessuale, anche pedofilo, che è per molti cubani e cubane l’unico modo per sopravvivere, porta ad una tasso altissimo di aborti e di aborti su giovanissime!

In un paese in cui embrioni e feti sono spesso utilizzati e uccisi a scopo di ricerca, nel più perfetto stile nazi-comunista, a vantaggio di persone provenenti dai paesi più ricchi (il turismo medico, accanto a quello sessuale; vedi le testimonianze di medici cubani come Hilda Molina, Julian Alvarez, José Luis García Paneque…).

Per la sua battaglia “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, cioè a favore della vita dei più piccoli, contro il degrado umano, contro la pena di morte e la tortura per i dissidenti e contro l’eutanasia, praticata su malati poveri, che si rivelano un peso economico, Biscet è stato aggredito, picchiato, additato come pazzo. Poi allontanato dal suo lavoro, rinchiuso in galera dal 3 novembre 1999 e al 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.

Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi giace nella stessa isola in cui sorge Guantanamo, in condizioni terrificanti e disumane (ben descritte da prigionieri cubani come Armando Valladares, autore di Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag delle Americhe dal fondo delle carceri di Fidel Castro, SugarCo 1985, Spirali 2007, e Pierre Golendorf, autore di Un comunista nelle prigioni di Fidel Castro, SugarCo 1978).

 Prigioni in cui, secondo le Nazioni Unite, avvengono: “Isolamenti in stanze fredde; perdita del controllo di tempo e spazio; immersione in pozzi neri; intimidazioni coi cani; simulazioni di esecuzioni; botte ai reclusi; lavori forzati; confinamento per anni in prigioni chiamate ‘cassetti’; uso di altoparlanti con rumori assordanti durante gli scioperi della fame; spersonalizzazione del detenuto mediante totale nudità in celle di castigo; soppressione di acqua ai prigionieri dichiarati in sciopero della fame; presentazione del recluso nudo davanti ai familiari per obbligarli ad accettare il piano di riabilitazione politica…”.

Secondo Human rights first, Oscar Biscet soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie, talora sotterranee, o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua. La sua salute è rovinata. Ha perso quasi tutti i denti, ma non il coraggio. Manda a dire ai suoi sostenitori: “La mia coscienza e il mio spirito stanno bene”. Biscet è forse, vista la lunghezza della sua pena, il massimo prigioniero di coscienza oggi al mondo.

Lo chiamano anche il “negro olvidado” (il “negro dimenticato”).

 Noi, invece, vogliamo ricordarlo e chiederne la liberazione.

La maglietta è disponibile sul sito www.fedecultura.com

 

Per contatti: biscetlibero@tiscali.it

Firmatari:

Francesco Agnoli, presidente Medv (Movimento Europeo Difesa Vita); Luigi Amicone, direttore del settimanale “Tempi”; Elena Baldini, Assistente Pastorale per la Vita; Giampaolo Barra, direttore del mensile Il Timone; Toni Brandi, presidente Laogai Research Foundation Italia; Carlos Carralero, rifugiato politico cubano, ha fondato "L’Unione per le Libertà a Cuba"; Giovanni Ceroni,  responsabile Giovani Federvita Piemonte; Pucci Cipriani, giornalista; Roberto de Mattei, storico, presidente della Fondazione Lepanto; Renato Farina, scrittore; Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano Il Foglio; Giuseppe Garrone, fondatore del numero verde SOS Vita (8008/13000), cofondatore del Progetto Gemma e riscopritore della Ruota degli esposti (1992); Antonio Gaspari, direttore editoriale L’Ottimista; Silvio Ghielmi, cofondatore e per anni gestore del Progetto Gemma del MpV; Federico Iadicicco, consigliere provincia di Roma; Mario Mauro, presidente PPE al Parlamento Europeo; Giorgia Meloni, ministro della Gioventù; Andrea Morigi, giornalista; Mario Palmaro, filosofo del diritto e giornalista; Massimo Pandolfi, giornalista e scrittore; Antonio Socci, giornalista e scrittore, Luca Teofili, presidente associazione romana Archè; Giovanni Zenone, direttore di Fede & Cultura

Magdi Cristiano Allam, Europarlamentare e presidente del movimento

politico "Io amo l’Italia".

Lorenzo Fontana, Europarlamentare