Sos Libano. Appello per la raccolta di aiuti umanitari

Le drammatiche vicende della guerra israelo-libanese sono a tutti note. Il 12 luglio 2006, gli Hezbollah, militanti islamici del Partito di Dio, attivo nel Libano del sud nell’ambito di una estenuante guerra di rivendicazioni territoriali che prosegue ormai da più di vent’anni, sferrano un attacco contro le truppe israeliane uccidendo otto militari israeliani e rapendone due.

Immediata e violentissima la replica di Israele, che, affermando di interpretare il blitz degli Hezbollah come una dichiarazione di guerra, scatena un conflitto indiscriminatamente proteso alla distruzione del Libano intero.

Numerose ed eloquenti, durante e dopo l’attacco, sono state le prese di posizione critiche sulle ragioni e sugli esiti del conflitto: dai pronunciamenti delle organizzazioni umanitarie, alle esplicite dichiarazioni di numerosi prelati cristiani dell’area mediorientale, alle esternazioni di uomini insospettabili come l’attore ebreo Moni Ovadia…

Non è forse inutile riassumere attraverso le parole di Monsignor Fuad Twal, vescovo di Gerusalemme, le difficoltà che si presentano a chi tenti una ricostruzione delle vicende mediorientali. Presente a fine agosto al famoso Meeting che C.L. organizza annualmente a Rimini, Mons.

Twal, denunciando la manifesta partigianeria dei mass media internazionali, oltre ad esprimere il proprio punto di vista sulla guerra di Israele in Libano, ha ricordato che: "L’informazione è pilotata e non obiettiva. Ci vorrebbe più senso critico, che invece manca. Israele è forte in tutti i sensi e i mass media sono influenzati e così nessuno osa parlare di occupazione israeliana. (…)

Io sono responsabile religioso in Israele, Palestina e Giordania e voglio bene agli abitanti di questi tre stati e posso solo dire che oggi esiste una occupazione militare che può solo raccogliere ulteriore resistenza. Che Dio ci aiuti a ritrovare la via del dialogo, della ragionevolezza, della carità e ridia speranza a questa terra la cui vocazione è di essere una terra di pace e non di sangue".

Per consentire una valutazione sintetica ma effettiva sul significato e sugli scopi di questo ultimo grande conflitto mediorientale, non è in ogni caso superfluo riportare le cifre aride, eppure pregnanti, del disastro libanese, tutte desunte dalle più qualificate fonti giornalistiche del Paese dei cedri:

* l’ingaggio pianificato e ripetuto di obiettivi non militari ha causato la morte ed il ferimento rispettivamente di 1283 e 4055 civili. Significativamente l’83% dei decessi riguarda donne e bambini; tra questi ultimi, un quarto sono al di sotto dei 12 anni. I profughi libanesi sono stati circa 1 milione. Circa 70.000 persone hanno lasciato definitivamente il Paese;

* in 33 giorni l’aviazione israeliana ha compiuto 40.000 ore di volo e 15.500 raid aerei, portando distruzione e morte sul territorio libanese con circa 150.000 bombe. Senza alcun rispetto per le convenzioni internazionali sono state sganciate in quantità bombe al fosforo, bombe a grappolo e persino ordigni contenenti sostanze chimiche il cui contenuto resta a tutt’oggi non identificato. Più volte si sono levati in volo sino a 200 bombardieri contemporaneamente a desolare il Libano. L’artiglieria campale e la marina israeliana hanno sparato circa 175.000 bombe contro il territorio libanese;

* le bombe ancora inesplose, appositamente impiegate dagli israeliani come strumenti di guerra a scoppio ritardato per causare il maggior numero di morti e feriti dopo il cessate il fuoco, sono circa 1 milione e 200 mila (calcolate tenendo conto degli ordigni derivanti dalla frammentazione delle bombe a grappolo), sparse in tutto il paese. In base a rapporti militari e di associazioni libanesi ed internazionali, si parla di un periodo lunghissimo, difficilmente quantificabile, per la bonifica del territorio libanese;

* le costruzioni adibite a civile abitazione parzialmente o completamente distrutte, e quelle più in generale danneggiate, sono in totale circa 60.000, di cui la metà sono state rase a suolo. Soltanto nella periferia meridionale di Beirut, zona a maggioranza sciita, sono stati rasi al suolo 106 palazzi, per un totale di circa 5.000 abitazioni; * novecento sono le industrie e gli esercizi commerciali distrutti;

* i ponti distrutti dall’aviazione israeliana in Libano sono 70;

* i danni alla rete idrica ammontano a 75 milioni di dollari;

* i danni al sistema di approvvigionamento elettrico del Paese sono stimati per 180 milioni di dollari. Il bombardamento dei serbatoi di carburante nelle centrali elettriche di Jiyeh – 23 chilometri circa a sud di Beirut – ha comportato il (necessariamente) previsto riversarsi in mare di 15.000 tonnellate di petrolio, fatto questo che oltre al danno in sé e per sé (svariati milioni di dollari di carburante “bruciati”), ha causato una catastrofe ambientale su tutta la costa libanese, così ponendo una pesante ipoteca sulle possibilità del Libano di risollevarsi grazie al turismo proveniente dall’estero, facendo leva sulle proprie attrattive naturalistiche.

Ripercussioni gravissime, ancora non quantificabili, sono quelle che vanno di conseguenza ad incidere sulla vitale economia di sfruttamento delle risorse ittiche del mare libanese, da sempre essenziali per il sostentamento delle popolazioni costiere, che costituiscono la stragrande maggioranza del popolo libanese.

Non è secondario, in definitiva, considerare quale sia stata la portata del volume di fuoco israeliano contro il cuore di un Paese che ha un’estensione territoriale di circa 10 mila km quadrati (poco meno della metà della Lombardia, per avere un’idea più concreta), la più gran parte dei quali sono rappresentati da una dorsale montuosa, poco ospitale e scarsamente popolata.

Lo scopo di mettere in ginocchio il Libano nell’ambito di una guerra che non ha mai inteso limitarsi a sconfiggere alcune migliaia di guerriglieri Hezbollah, è evidente a chi voglia riconoscere l’evidenza: da regione che poteva competere – unica nell’area di riferimento – con la stessa Israele, in ogni campo di rilevanza culturale ed economica – anche grazie ai propri esclusivi legami con l’Occidente, possibili in forza della massiccia presenza, anche nella vita pubblica, di esponenti della comunità cristiana libanese – attualmente il Paese dei cedri avrà davanti a sé lunghi anni di sforzi esclusivamente finalizzati alla sopravvivenza ed alla ricostruzione.

Israele stessa è stata infine costretta dalla medesima natura delle cose ad esplicitare almeno parzialmente i propri scopi. Ciò è avvenuto in specialissimo modo quando l’esercito ebraico si è disperatamente ma inutilmente accanito per penetrare nel territorio libanese del sud sino al fiume Litani – tutte le fonti giornalistiche sono state costrette a riportare questo dato, anche se per lo più mistificandone il valore – nel tentativo di occupare un’area strategica, accaparrandosi una bramata ed importantissima porzione delle risorse idriche libanesi.

Si tratta di mire ormai datate, che di certo Israele continuerà a perseguire. I media occidentali non hanno però riportato un altro – uno dei numerosi – sintomatico aspetto della guerra israeliana in Libano.

Come a Betlemme, dove l’esercito ebraico, approfittando dell’eterno conflitto israelo-palestinese, nel 2002, aveva mitragliato e danneggiato senza scopo apparente la Basilica della Natività, uno dei luoghi più cari della cristianità, così anche oggi, anche in Libano, dietro alla cortina pretestuosa della guerra contro l’Islam, Israele ha bombardato e distrutto almeno 15 fra chiese e monasteri nella sola regione di Tiro, coinvolgendo anche vari villaggi cristiani, come ha denunciato Mons Georges Bakouni, metropolita di Tiro dei greco-melkiti. “Israele – ha ricordato con estrema franchezza quel prelato – ha voluto bombardare le nostre chiese, i nostri villaggi perché vuole svuotare il Libano dei cristiani”.

Qualunque lettura peraltro si voglia dare del conflitto, sarebbe falsificante sostenere che la distruzione del Libano, di interi ed estesi quartieri residenziali, la pressoché totale tabula rasa fatta delle infrastrutture civili, dei ponti, delle arterie più importanti e vitali, delle fonti di approvvigionamento, delle reti di distribuzione idrica per l’irrigazione dei campi… sia servita al solo, propagandato scopo di estirpare gli Hezbollah.

Il dissanguamento delle risorse materiali di un Paese è un abusato sistema di deportazione (peraltro noto agli studiosi di dottrina militare) di desolazione, di condanna a morte: “pulito”, scientifico, estremamente efficace, che ovviamente colpisce tutti; i civili in primissimo luogo: i cristiani, gli sciiti, i sunniti… Chi non intende morire sotto i bombardamenti, chi comprende l’esigenza elementare di fuggire da un’area priva di fonti di sostentamento su cui ormai aleggiano lo spettro della morte, il terrore di un nuovo e più devastante conflitto, il timore della diffusione di contagi in condizioni igieniche e di approvvigionamenti idrici ed alimentari spaventose, se ne va con il proprio carico di stracci.

È meno inquietante il timore di perdere la vita per strada che non quello di restare. La dispersione della classe media, soprattutto dei cristiani, che da sempre rappresentano parte qualificante della dirigenza libanese, pone il Libano in una condizione angosciante.

Anche se la ricostruzione procede, il Libano è attualmente privo di numerosi servizi essenziali: la distruzione delle infrastrutture ostacola potentemente il recupero collettivo. Gli ospedali e più in generale tutti i servizi sanitari non riescono ad operare correttamente.

E ciò che vale per la sanità vale per ogni altra ipotesi di azione sociale ed individuale. In molte zone scarseggiano cibo, acqua, servizi, medicinali e in buona parte la possibilità stessa di avere quei rapporti che sono indispensabili per recuperare il necessario.

La distruzione del tessuto connettivo del Libano ha effetti che difficilmente in Occidente si possono rappresentare: le ridotte dimensioni del Paese dei cedri hanno determinato una situazione per cui senza aiuti dall’esterno è difficilissimo recuperare facendo affidamento sulle proprie forze, ormai disperse, dissanguate e slegate.

Ad oggi, nell’ottobre del 2006, la possibilità di coordinare dall’interno il sistema sono in effetti misere. Nel tentativo di fornire il mio modesto apporto a favore del Libano, mi rivolgo a chi vorrà sostenere concretamente le attività intraprese a favore del mio Paese d’origine, effettuando un versamento sul conto corrente postale di seguito indicato.

Dall’Italia, che è ormai da molti anni divenuto il mio Paese di adozione, aiutato da alcuni amici, tengo contatti diretti con alcune realtà ecclesiali libanesi, in particolare con la Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo (Kafarchima – Beirut), attivissima nella propria opera di sostegno spirituale e materiale a favore di chi crede che il Libano possa ancora una volta risollevarsi dalla polvere.

Confidando nella Provvidenza, di cui ognuno di voi potrà essere benefico messo, mi affido alla vostra generosità, una generosità che – ne ho la certezza – verrà ricompensata da Chi scruta le reni ed i cuori.

Don Elie Wehbe (Padre Ildebrando) – Padre Benedettino Abbazia San Miniato Via del Monte alle Croci, 34 50125 Firenze C.C. Poste italiane n. 000075343129, causale: SOS LIBANO www.soslibano.it e-mail: soslibano@gmail.com

Carron a Trento sul rischio educativo: sfida per tutti e per ciascuno

Mercoledì 8 novembre alle ore 20.30 l’Auditorium Santa Chiara ospiterà un incontro che, per la personalità del relatore e l’argomento trattato, è – fra i tanti quotidianamente in calendario – davvero da non perdere. Quest’incontro avrà infatti un requisito piuttosto raro: quello di interessare contemporaneamente tutti e ciascuno.

Per la prima volta parlerà a Trento, invitato dall’Università e introdotto dal rettore Davide Bassi, Juliàn Carron, presidente della fraternità di Comunione e liberazione. Tema del suo intervento: la presentazione del libro "Il rischio educativo", uno degli scritti più significativi ed emblematici dell’opera di Luigi Giussani, il sacerdote brianzolo che, poco tempo prima di morire (nel febbraio di due anni fa), aveva scelto proprio Carron, teologo spagnolo, come suo successore alla guida del movimento ecclesiale da lui fondato e oggi diffuso in molti paesi del mondo.

Perché quest’uomo e la questione educativa di cui si occuperà meritano l’attenzione di tutti e di ciascuno?

Perché diversamente da quel che si potrebbe pensare, chi parteciperà alla serata non sentirà discorsi sulla chiesa, ma la testimonianza di un’avventura umana colta nella concretezza dei problemi e delle scelte, e specialmente il racconto di come sia possibile a ciascuno di noi vivere il rapporto con gli altri e la realtà rimanendo liberi.

Qualche tempo fa era stata promossa nel nostro Paese una raccolta di firme a sostegno di quello che era stato chiamato “Appello per l’educazione”. In quel manifesto si diceva che “l’emergenza” in cui siamo immersi non è innanzitutto politica o economica, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. La prima vera emergenza oggi si chiama “educazione”. Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro.

Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli.

Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere.

È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta.

È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa.

Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose.

Perché l’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. Questa è la strada sintetizzata nel libro ”Il rischio educativo” che Carron presenterà a Trento. In un momento nel quale tutti, anche in Trentino, parlano di risorse umane, di capitale umano, di formazione e di educazione, Carron descriverà il tentativo di rendere concreta, praticata, possibile, viva questa risposta.

Non è, appunto, solo una questione di scuola o di addetti ai lavori, ma di una sfida che coinvolge chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo e il futuro di tutti.

Se anche a Trento sorgerà una moschea, si eviti almeno di affidarne la gestione all’Ucoii

Molto probabilmente fra due o tre anni, se non prima, anche Trento avrà la sua moschea. Il nulla osta “politico” al progetto è arrivato dal sindaco Pacher, che ha preannnunciato l’impegno della commissione urbanistica comunale in questa direzione non appena conclusa la partita della variante al Prg.

E’ noto infatti che i cittadini di Trento e provincia non vedono l’ora di poter dotare questo territorio di una moschea. E’ risaputo che questa è la loro maggiore aspirazione. E si sa che il sindaco del capoluogo è sempre pronto a rendersi interprete delle principali attese della popolazione.

Il buon Alberto Pacher ha infatti commentato positivamente anche l’autotassazione lanciata dai musulmani interessati all’edificio. Come dire: impossibile negare un aiuto pubblico a chi per avere quel che chiede attinge alle proprie tasche. Ha poi aggiunto che “la comunità islamica non ha mai creato problemi”, lasciando intendere che a suo avviso neppure ne provocherà.

Ma il primo cittadino si dimostrerebbe un tantino più saggio e previdente se non si fermasse a considerare solo come sono andate le cose finora, e si chiedesse quali effetti potrà avere in futuro la realizzazione di una moschea nel capoluogo provinciale. Specialmente se la gestione verrà affidata all’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia), com’è già accaduto in molte altre città italiane.

Forse il sindaco ricorderà che l’Ucoii, guidata dal sedicente Imam “trentino” Breigheche e che si arroga il diritto di rappresentare la maggior parte dei musulmani, aveva acquistato intere pagine dei maggiori quotidiani nazionali per identificare lo Stato di Israele con la Germania nazista, respingendo poi la richiesta di scusarsi per questo, e non voleva sottoscrivere la carta dei valori comuni a tutti gli immigrati proposta dal ministro Amato alla consulta nazionale islamica.

Forse il sindaco ricorderà che Magdi Allam, autorevole giornalista musulmano del Corriere della Sera, intervenuto il mese scorso a Trento in un affollatissimo incontro pubblico, è costantemente protetto da una scorta perché su di lui pende da tempo una Fatwa (la condanna a morte islamica) dovuta al suo instancabile tentativo di rendere consapevoli le autorità nazionali, locali e l’opinione pubblica del nostro Paese, della minacciosa campagna di odio e violenza contro gli “infedeli” sistematicamente alimentata nelle moschee locali gestite dall’Ucoii. Ucoii che non a caso è affiliata, in campo internazionale, ai Fratelli Musulmani, una delle più potenti e aggressive organizzazioni islamiche da cui, in particolare dall’11 settembre in poi, sono stati sempre giustificati tutti gli attentati terroristici compiuti dai kamikaze di Al Qaeda.

E infine, forse il sindaco di Trento ricorderà che una moschea non è identificabile con una chiesa o con un luogo di culto qualsiasi così come noi lo intendiamo. Per la minoranza islamica che frequenta le moschee (perché anche in Trentino solo di esigua minoranza si tratta), il Corano non riguarda solo la sfera religiosa e spirituale dei fedeli, ma anche quella politica e detta quindi le leggi alle quali come cittadini si devono sottomettere. Leggi non solo diverse dalle nostre ma, se interpretate alla lettera, anche incompatibili con la Costituzione italiana e con il rispetto dei diritti della persona e in particolare della donna.

Per evitare che una moschea a Trento (perché è inutile illudersi: piaccia o no la moschea finirà per essere sicuramente costruita) possa significare tutto questo, cioè rappresentare una sorta di scuola di odio e di violenza nei confronti dei non islamici o degli islamici non praticanti, il sindaco Pacher dovrebbe innanzitutto evitare di affidarne la gestione all’Ucoii , e poi porre delle precise condizioni circa il rispetto delle leggi e i contenuti della predicazione.

Diversamente, fra non molto dovrà confrontarsi (insieme a tutti i trentini non allineati all’Ucoii) con una crescente “tensione sociale” (per usare un eufemismo) anche in quella che fu la città del Concilio.

Gian Burrasca