40 Giorni per la Vita

Durerà dal 28 settembre al 6 novembre: non a caso si chiama 40 Days for Life, 40 Giorni per la Vita, la massiccia campagna di sensibilizzazione internazionale contro l’aborto, varata per l’autunno dall’omonimo movimento, sorto solo 7 anni fa, ma già forte di oltre 300 sedi in tutto il mondo. A darne notizia in Italia, ha provveduto “L’Osservatore Romano” nel numero dello scorso 31 agosto, a pag. 6.

Gli strumenti scelti per quest’azione di pressing culturale, ma soprattutto spirituale, sono digiuno e preghiera all’esterno delle strutture ove si praticano gli aborti.

L’impegno prevede, in particolare, la recita quotidiana del Santo Rosario e della Preghiera per la Vita del Beato Giovanni Paolo II.

48 gli Stati d’America interessati dall’iniziativa, 7 le province canadesi, e poi l’Australia, l’Inghilterra, la Spagna e, per la prima volta, anche Germania ed Argentina: un vasto coinvolgimento, segno “che la gente vuole reagire”, ha commentato il fondatore di 40 Days for Life, Shawn Carney di Bryan, Texas: “La gente è riuscita a superare la paura di scendere in strada, per manifestare il proprio dissenso – ha dichiarato -. Credo che la campagna abbia aiutato ad aprire gli occhi ed a rendersi conto che gli aborti avvengono, purtroppo, a pochi passi da casa nostra. Si può fare qualcosa per impedire tutto questo”.

Carney ha buoni motivi per poterlo dire: grazie all’azione svolta dalla sua organizzazione, negli Stati Uniti sono stati salvati oltre 4 mila nascituri e si sono registrati numerosi casi di autentica conversione, come quello di Abby Johnson, 29 anni, ex-direttrice di un Centro di Planned Parenthood: ha lasciato l’incarico dopo 8 anni per aver assistito ad un aborto con gli ultrasuoni.

Ora collabora con quanti, fino a ieri, pregavano per lei. Ed ai programmi radiofonici e televisivi, cui è stata invitata, ha dichiarato di aver sperimentato “un cambiamento del cuore, una conversione spirituale, definitiva”.

Ma molti altri sono i casi analoghi. Casi, che – afferma il direttore nazionale di 40 Days for Life, David Bereit – dimostrano “l’importanza di una presenza orante costante e pacifica di fronte alle strutture abortiste”. Negli ultimi quattro anni, l’iniziativa ha raccolto oltre 400 mila persone e più di 13 mila congregazioni e movimenti ecclesiali.

da www.corrispondenzaromana.it

Il Liechtenstein respinge l’aborto

Con il 52,3% di “no” e il 47,7% di “sì”, domenica 18 settembre i cittadini del Liechtenstein hanno bocciato il referendum in cui si chiedeva la depenalizzazione dell’aborto.

Nonostante una campagna internazionale a favore dell’aborto e i sondaggi che prevedevano una vittoria del fronte favorevole alla liberalizzazione della interruzione volontaria di gravidanza, i cittadini del Liechtenstein si sono opposti in maggioranza.

Attualmente nel Principato l’aborto è vietato ed è punibile con una pena fino ad un anno di detenzione, anche se praticato all’estero. Da anni non ci sono state condanne.

Il testo di legge proposto nel referendum proponeva la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza entro le prime 12 settimane con una modifica in tal senso del codice penale.

Chiedeva anche il diritto di abortire dopo questo termine se il feto presenta un grave pericolo di handicap fisico o mentale.

In Parlamento solo una minoranza aveva accettato l’iniziativa per legalizzare l’aborto. In agosto, il principe ereditario Alois si era espresso contro la liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza.

Anche la Chiesa cattolica aveva espresso la propria contrarietà. In occasione della festa nazionale, l’Arcivescovo di Vaduz Wolfgang Haas si era persino rifiutato di officiare la Messa in segno di protesta contro l’aborto.

Ora che il referendum è stato respinto i due partiti di governo Unione patriottica e il Partito borghese progressista hanno annunciato che proporranno una modifica del Codice penale. L’aborto sarà vietato, ma non sarà più punibile penalmente se praticato all’estero.

Il principato del Liechtenstein conta oltre 35.446 (dati 2008) con una densità demografica di 209 persone per chilometro quadrato, ed ha un reddito pro-capite tra i più alti d’Europa.

www.zenit.org

19/09/2011

L’aborto post-partum non è più fantascienza

Philip K. Dick style=Philip Kindred Dick forse è un nome che dice poco al ‘grande pubblico’, ma è il nome di un grande scrittore di fantascienza, dai cui racconti sono stati tratti diversi film di successo come Blade Runner, Atto di Forza e Minority Report.
Nel racconto ‘Le pre-persone’, Dick descrive un’America in cui il Congresso ha legalizzato l’uccisione dei figli fino a dodici anni:

L’unica cosa reale è un orribile furgone bianco con i finestrini coperti di rete metallica, che porta via i bambini che i genitori non vogliono più.
Alcuni genitori usavano un emendamento estensivo della vecchia legge sull’aborto, che permetteva loro di uccidere un bambino indesiderato prima che nascesse: dal momento che non aveva anima o identità, poteva essere risucchiato da un sistema pneumatico in meno di due minuti. Un medico poteva eliminarne un centinaio al giorno, ed era perfettamente legale, perché il bambino non ancora nato non era umano. Era una pre-persona. Lo stesso succedeva col furgone. Solo, avevano spostato in avanti il momento in cui l’anima entrava nel corpo. (…)
Il Congresso aveva elaborato un test molto semplice per determinare il momento approssimativo dell’entrata dell’anima nel corpo: la capacità di risolvere problemi di matematica superiore, di tipo algebrico. Fino a quel momento, c’era solo il corpo, istinti animali, riflessi e risposte a stimoli esterni…. Il Presidente e il Congresso hanno deciso che, una volta superati i dodici anni, si ha un’anima.

Il racconto fu scritto all’indomani della sentenza Roe v. Wade (1973) che legalizzò l’aborto negli Stati Uniti.
Fantascienza?
Qualche giorno fa un tribunale canadese si è occupato del caso di Katrina Effert, che nel 2005 aveva partorito un bambino nella casa dei genitori e poco dopo l’aveva strangolato e aveva lanciato il suo corpicino nel giardino dei vicini.
Siamo a Edmonton, in Canada, dove l’aborto è legale per tutto il tempo della gravidanza.
Il giudice Joanne Veit (una donna) ha condannato la Effert a tre anni con sospensione della pena. La madre di quel bambino, dunque, non sconterà neppure un giorno di prigione.
Il giudice ha scritto che “se è vero che molti canadesi senza dubbio considerano l’aborto come una soluzione non certo ideale al sesso non protetto e alla gravidanza indesiderata, in genere comprendono, accettano, e provano empatia per le richieste gravose che la gravidanza e la nascita richiedono alle madri, specialmente le madri senza sostegni… Naturalmente i canadesi sono addolorati per la morte di un bambino, specialmente se avviene per mano della madre, ma i canadesi sono addolorati anche per la madre.”
La Abortion Rights Coalition of Canada ha commentato sulla sua pagina facebook: “Una situazione tragica, ma certo ci sono ragioni inoppugnabili per ritenere l’infanticidio un crimine inferiore all’omicidio”
Mark Steyn così commenta nel suo post “Aborto al quarto trimestre”

Ho capito: così un giudice di alta corte, in un sistema giuridico relativamente civile, è felice di estendere i principi sottostanti all’aborto legalizzato per sminuire l’uccisione di una persona legale, cioè qualcuno che è riuscito ad arrivare allo stadio post-fetale. Per quanto tempo si possono applicare questi fattori? Voglio dire, “richieste gravose”: giusto, il primo mese di vita di un neonato non è una scampagnata per la madre. Ma che dire dei primi sei mesi? E dei primi terribili due anni?
Parlando di “richieste gravose”, che dire se tu sei una “madre senza sostegno” che ha anche un parente anziano con una condizione cronica “gravosa” che interferisce con la tua vita?
E in che senso la Effert era una “madre senza sostegno” ? Viveva a casa dei suoi genitori, che le fornivano vitto e alloggio. Quanto dolcemente gli untuosi eufemismi “accettano, provano empatia…. richieste gravose” rendono scivoloso il piano inclinato!

Lascio le conclusioni a Philip Dick, ricordando che queste parole risalgono a quasi quarant’anni fa:

Voi e l’aborto post-partum, e le leggi sull’aborto che c’erano prima, quando il bambino non ancora nato non aveva diritti legali, e veniva estirpato come un tumore. Guardate a cosa si è arrivati. Se un bambino non ancora nato può essere ucciso senza processo, perché non fare lo stesso con un bambino già nato? Quello che io ci vedo in comune, in entrambi i casi, è il fatto che sono indifesi. L’organismo ucciso non ha nessuna possibilità, nessuna capacità di proteggersi…

Perry, texano antiaborto (e la paura del Corriere)

NEW YORK — Dopo «Irene», a seminare il panico in America è arrivato ora l’«uragano Perry», il candidato che, ad appena due settimane dalla sua discesa in campo, sembra già aver sbaragliato gli altri aspiranti alla «nomination» repubblicana alla Casa Bianca, compreso Mitt Romney, dato da tutti come favorito fino a Ferragosto.

Il governatore del Texas trionfa in tutti i sondaggi e intanto si tuffa in una durissima polemica contro un giudice che ha bloccato una legge del suo Stato che, nel tentativo di disincentivare in ogni modo gli aborti, impone alle donne e ai medici quella che la corte federale ha giudicato un’inammissibile violazione della libertà di espressione tutelata dalla Costituzione americana.

Perry ha fulminato Sam Sparks (giudice, peraltro, a suo tempo nominato da George Bush e tutt’altro che progressista) ribadendo la sua linea favorevole, in caso di aborto anche per stupro, non solo all’obbligo di sottoporsi a un’ecografia transvaginale, ma anche a imporre ai medici a spiegare in dettaglio alla donna incinta come avviene lo sviluppo del feto e persino a farle ascoltare il battito cardiaco, in modo da cercare di dissuaderla dalla decisione di interrompere la gravidanza.

Contemporaneamente il governatore repubblicano ha continuato a snocciolare il suo programma economico arciconservatore, mentre la lettura di «Fed Up» (Non se ne può più), il suo libro-manifesto appena dato alle stampe, sta facendo venire i brividi alla sinistra americana.

Ma comincia a esserci preoccupazione anche tra i conservatori moderati e nell’«establishment» economico che aveva scelto di puntare su un uomo d’impresa come Romney rispetto a un Rick Perry che oggi fa l’iperliberista pronto ad azzerare — dalle pensioni alla sanità — ogni brandello di «Stato sociale», ma la cui biografia è densa di episodi nei quali il governatore in anni più o meno lontani si è lasciato andare a scelte stataliste, per giunta poco trasparenti. Fin qui la prospettiva di una sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e un esponente della destra radicale non era stata presa più di tanto in considerazione un po’ perché i candidati potenziali — da Sarah Palin a Michele Bachmann — non sembravano avere la caratura per aspirare alla nomination, un po’ perché si riteneva che un leader integralista, non appoggiato dalla parte moderata del fronte conservatore, avrebbe finito per favorire la riconferma del presidente democratico per un secondo mandato.

Perry, però, ha sconvolto i termini dell’equazione: anche se ha assunto posizioni spesso estreme (definendo, ad esempio «incostituzionale» Medicare, l’assistenza sanitaria per gli anziani) e se ha usato espressioni durissime contro Ben Bernanke (un altro repubblicano scelto a suo tempo da Bush), affermando che, se stampasse dollari da qui alle elezioni del 2012, il capo della Federal Reserve commetterebbe «alto tradimento», nei sondaggi il governatore ha rapidamente sopravanzato tutti gli altri candidati.

 Il sondaggio Quinnipac, il più recente, lo dà al 24 per cento dei consensi, sei punti più di Romney. Quello della Cnn vede, addirittura, un Romney doppiato da Perry (27 a 14) con la Palin al 10 per cento e la Bachmann al 9 insieme a Rudy Giuliani. I giochi non sono ancora fatti, certo.

Tra qualche giorno toccherà alla Palin decidere se candidarsi mentre alcuni conservatori spaventati da Perry stanno cercando di convincere il governatore del New Jersey Chris Christie (che però continua ad opporre un fermissimo rifiuto) – a scendere in campo.

Per adesso l’effetto Perry ha fatto emergere soprattutto la disaffezione dell’elettorato repubblicano per Romney: accettato come il minore dei mali, ma guardato sempre con diffidenza perché considerato poco sincero, poco comunicativo e anche per la sua fede mormone.

Meglio, almeno per ora, l’evangelico Perry, che sa tenere la scena e vanta i successi economici colti negli 11 anni in cui ha governato il Texas. Anche se radicale, Perry è un avversario assai temibile per un Obama sempre più indebolito dalla crisi economica e occupazionale, proprio perché il politico repubblicano può affermare di aver guidato uno Stato molto attivo nella «job creation».

«Posti di lavoro creati soprattutto nel settore pubblico e con le commesse militari di Washington» replicano indispettiti i democratici, il cui improvviso panico è giustificato dal record di Perry che in vita sua non ha mai perso un’elezione importante. Chi, come Ruth Marcus del Washington Post , ha già letto «Fed Up», conclude, tra l’atterrito e lo sconsolato, che George Bush, in confronto, era un «liberal» alla George McGovern. Massimo Gaggi – Corriere della Sera Venerdì 02 Settembre 2011

Il significato della cosidetta “capacità di sopravvivenza autonoma” e gli aborti nel secondo trimestre di gravidanza

DEL DOTT.ROBERTO ALGRANATI

Il 24 aprile 2010 all’ospedale di Rossano Calabro fu eseguito un aborto legale alla 22a settimana di gravidanza perché il feto era affetto da labbro leporino, una malformazione che poteva essere facilmente corretta con un intervento chirurgico dopo la nascita. Attuato l’aborto con induzione artificiale del parto, il feto, un vero bambino in miniatura della lunghezza di 20 cm., fu ritenuto morto ed abbandonato in una bacinella. Dopo quasi ventiquattro ore il cappellano dell’ospedale si recò a pregare su quello che riteneva essere il cadavere del bambino abortito e si accorse che era vivo. Il bambino fu ricoverato urgentemente nel reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Cosenza ma mori 24 ore dopo.
Non era la prima volta che avvenivano fatti del genere. Nel marzo 2007 un bambino abortito alla 22a settimana di gravidanza all’ospedale Careggi di Firenze per una malformazione dell’esofago (poi rivelatasi inesistente e anch’essa correggibile chirurgicamente) è sopravvissuto per sei giorni nell’unità di terapia intensiva neonatale.
Anche in passato la trasmissione televisiva " i figli dell’aborto ", andata in onda su Canale 5 il 12 marzo 1999, suscitò molta emozione e numerosi commenti sulla stampa. Un bambino non ancora nato era sopravvissuto a un’interruzione legale di gravidanza alla 24ª settimana di gestazione ed era poi stato dichiarato adottabile.
Nel 2007 ha suscitato accese discussioni la dichiarazione dei neonatologi di quattro Università nella quale si riaffermava l’obbligo di tentare sempre la rianimazione di neonati molto prematuri ma vivi, anche se la nascita era il risultato di un aborto volontario legale nel secondo trimestre di gravidanza.
Questi fatti hanno messo in crisi ripetutamente le idee erronee, diffuse ampiamente nell’opinione pubblica, sulla cosiddetta "capacità di sopravvivenza autonoma del feto” e hanno evidenziato la disinformazione che regna, anche in ambienti colti, sulla vera natura della vita umana prenatale e sulle conoscenze che la biologia scientifica ha ormai da tempo acquisito in questo campo. L’ultimo esempio è la bocciatura da parte del TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) dell’ordinanza della Regione Lombardia con la quale si riduceva a sole 22 settimane di gravidanza il limite di tempo massimo in cui poteva essere eseguito un aborto cosiddetto “terapeutico”.
La realtà è che si fanno grandi discussioni su argomenti che non hanno alcun senso, perché contraddicono palesemente la verità scientifica, e sono solo il frutto di pregiudizi ideologici senza alcun nesso con la realtà. E come se nelle società razziste del passato si fosse discusso qual era la percentuale massima di sangue nero o ebraico che un individuo poteva avere nel suo patrimonio genetico per godere dei diritti umani. La discussione sarebbe stata del tutto irragionevole semplicemente perché l’appartenenza razziale non poteva giustificare alcuna discriminazione quanto ai diritti umani. Oggi l’assurdità di simili discussioni appare evidente perché, fortunatamente, viviamo in una società in cui il razzismo è, a ragione, condannato dalla legge e dall’opinione pubblica.
Purtroppo però ragionamenti molto simili e ugualmente assurdi si fanno quando si tratta della capacità di sopravvivenza autonoma del feto.
Già la stessa espressione "capacità di sopravvivenza autonoma” è impropria e ingannevole. Essa induce a pensare erroneamente che, nel seno materno, il feto non abbia una vita propria ma partecipi alla vita stessa della madre, come se fosse un organo del suo corpo e che, solo a partire da circa 26-28 o, più recentemente, da 24 o 22 settimane di gravidanza, il nascituro acquisti in qualche modo misterioso una vita propria e “autonoma", di valore superiore alla precedente, che gli permetterebbe di sopravvivere fuori del corpo della madre e che gli conferirebbe una vera dignità umana e un pieno diritto alla vita. Gli articoli 6 e 7 della legge 194/78, che regolamentano l’aborto legale nel secondo trimestre di gravidanza, si basano proprio su questa idea erronea della vita umana prenatale.
Questa idea, infatti, risale a un’epoca prescientifica, in cui le informazioni sulla vita prenatale erano rudimentali, ed è completamente falsa, come la biologia scientifica ha dimostrato da più di un secolo.
In realtà si deve parlare di capacità del feto di “sopravvivere al di fuori dell’utero", senza alcun riferimento ad una presunta autonomia o meno della sua vita.
Infatti, nessun animale, e nemmeno l’uomo, è autonomo in senso assoluto ma, per la loro sopravvivenza, dipende sempre dell’ambiente in cui vive. È invece essenziale che esso sia dotato degli organi necessari per sopravvivere nell’ambiente al quale è destinato: nel caso del feto l’utero materno, nel caso del neonato e dell’adulto l’ambiente fuori dell’utero.
Per comprendere come stanno realmente le cose, bisogna fare una breve premessa di biologia generale.
Come una fiamma per ardere ha bisogno di carburante e di ossigeno, così qualunque animale, uomo compreso, per mantenersi in vita deve assumere dall’ambiente sostanze nutritive e ossigeno. Le sostanze nutritive sono costituite da alcuni gruppi di composti chimici (carboidrati, grassi e proteine) che forniscono la materia prima per la costruzione e il continuo rinnovamento del corpo. Inoltre queste sostanze sono anche ricche di energia chimica e vengono perciò utilizzate, in misura più o meno grande, anche come veri e propri "carburanti". Queste sostanze, infatti, combinandosi chimicamente con l’ossigeno, cioè subendo una vera e propria " combustione ", sia pur lenta e controllata, producono calore e altre forme di energia necessarie alle funzioni indispensabili alla sopravvivenza (per es. circolazione del sangue, respirazione, digestione, ecc.), e all’adempimento di altre funzioni tipiche degli animali (per es. deambulazione, nuoto, volo ecc..).
La combinazione di questi "carburanti" con l’ossigeno, cioè la loro “combustione", libera gran parte della loro energia chimica che è utilizzata dall’organismo vivente e porta alla formazione di composti chimici poveri di energia, (principalmente anidride carbonica, acqua, urea, e acido urico) che non sono più utilizzabili e devono perciò essere eliminati continuamente del corpo dell’animale.
Un essere umano adulto o un neonato compiono queste funzioni fondamentali prendendo l’ossigeno dall’aria per mezzo dei polmoni, assumendo sostanze nutritive (carboidrati, grassi, proteine) acqua e sali dai cibi per mezzo del tubo digerente, eliminando l’anidride carbonica (che è un gas) nell’aria attraverso i polmoni ed espellendo, per mezzo dei reni, sotto forma di una soluzione acquosa (l’urina), l’urea, l’acido urico e gli altri prodotti della “combustione”.
Invece l’embrione o il feto di un mammifero (uomo compreso) compiono le stesse funzioni fondamentali per mezzo di un unico organo, la placenta, che li rende capaci di utilizzare il sangue della madre (che circola nelle pareti dell’utero) come sorgente di ossigeno e di sostanze nutritive e come via di eliminazione dell’anidride carbonica, dell’urea e degli altri prodotti del metabolismo.
La placenta appartiene al corpo del feto, e ne è anzi l’organo più voluminoso. Nella specie umana la placenta ha la forma di un disco adeso alla parete della cavità dell’utero, ed è collegata al resto del corpo dell’embrione o del feto mediante il cordone ombelicale. In esso decorrono due arterie ed una vena le quali assicurano che il sangue del feto, po
mpato dal suo cuore, circoli continuamente e in grande quantità anche attraverso la placenta.
Il sangue del feto, che giunge alla placenta attraverso le due arterie ombelicali, è povero di ossigeno e di sostanze nutritive ed è carico di anidride carbonica, di urea e di altri prodotti del metabolismo che devono essere eliminati. Nella placenta il sangue fetale è distribuito, dalle successive ramificazioni delle arterie ombelicali, a un gran numero di sottili vasi sanguigni (i capillari), situati all’interno di strutture simili a finissime radici, i " villi " placentari che sono immersi nel sangue materno. Di qui, dopo aver percorso i capillari, il sangue fetale refluisce in piccole vene che, all’interno della placenta, confluiscono progressivamente in vene di calibro sempre maggiore e infine sboccano nella vena ombelicale. Attraverso questo vaso il sangue abbandona la placenta e ritorna al corpo del feto ricco di ossigeno e di sostanze nutritive e depurate dall’anidride carbonica, dall’urea e dagli altri prodotti del metabolismo. Ciò avviene perché il sangue del feto, circolando all’interno dei vasi sanguigni capillari contenuti nei villi della placenta, scorre a minima distanza dal sangue materno contenuto negli interstizi fra i villi, senza però mai mescolarsi con esso, perché separato dalla doppia parete dei villi placentari e dei capillari in essi contenuti. In tal modo possono avvenire per diffusione rapidi scambi di sostanze chimiche fra il sangue del feto e quello della madre. Il sangue fetale riceve dal sangue materno l’ossigeno e le sostanze nutritive che la madre ha assunto con i suoi polmoni e con il suo apparato digerente e contemporaneamente cede al sangue della madre l’anidride carbonica, l’urea e gli altri prodotti del metabolismo, che la madre poi provvederà ad eliminare con i suoi polmoni e i suoi reni.
La gravidanza consiste, dunque, non solo nello sviluppo dell’embrione o del feto all’interno dell’utero materno, ma nel fatto che essi si riforniscono di ossigeno e di sostanze nutritive ed eliminano l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo attraverso il corpo della madre, grazie al collegamento realizzato dalla placenta.
Dopo questa premessa di biologia generale, diventano chiari due punti fondamentali:
1. Il significato della nascita
2. il significato della sopravvivenza del feto fuori dell’utero.

La nascita è un evento carico di grande contenuto emotivo, ma in realtà non è per nulla l’inizio della vita umana (come di ogni altro mammifero), ma solo un brusco cambiamento dell’ambiente di vita di un essere umano che già esiste, vive e si sviluppa fin dal concepimento.
La nascita può essere paragonata al varo di una nave. La nave viene costruita fuori dell’acqua finché la chiglia è completa e quindi da nave e in grado di galleggiare; solo allora la nave viene immessa nell’acqua che sarà il suo ambiente definitivo, anche se la sua costruzione non è ancora completata. Allo stesso modo un essere umano, come qualunque mammifero, è partorito e immesso nel suo ambiente definitivo solo dopo che i suoi polmoni, il suo tubo digerente e il suo apparato urinario hanno raggiunto uno sviluppo adeguato per adempiere efficacemente, fuori dell’utero materno, le funzioni fondamentali della respirazione, della nutrizione e dell’eliminazione dei prodotti del metabolismo che, durante la vita prenatale, vengono compiute dalla placenta.
Il feto ha "capacità di sopravvivenza fuori dell’utero" (e non di sopravvivenza autonoma, come erroneamente si dice) quando i suoi polmoni, i suoi reni e il suo apparato digerente sono abbastanza sviluppati per sostituire le funzioni della placenta nell’assunzione di ossigeno e di sostanze nutritive, e nell’eliminazione dell’anidride carbonica, dell’urea e degli altri prodotti del metabolismo. Per la sopravvivenza fuori dell’utero è soprattutto importante la funzione dei polmoni. Se essi non sono in grado di sostituire subito e adeguatamente la placenta nell’assunzione di ossigeno e nell’eliminazione dell’anidride carbonica, il bambino muore per insufficienza respiratoria. E’ questa la causa di gran lunga più importante della non sopravvivenza del feto fuori dell’utero materno. Da queste conoscenze scientifiche risulta chiaro che è una vera assurdità attribuire al feto un maggiore un minor grado di dignità umana e quindi condizionare il suo pieno diritto alla vita basandosi alla sua capacità di sopravvivere o meno fuori dell’utero, come invece stabilisce la legge 194 con gli articoli 6 e 7. Secondo la legge, infatti, nel secondo trimestre di gestazione l’interruzione di gravidanza, al fine di ottenere la morte del feto, può essere praticata per salvaguardare la vita o la salute, anche solo psichica, della donna; invece, … “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto”…, l’interruzione di gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza e il parto costituiscono un grave pericolo per la vita della madre e in questo caso il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

L’assurdità di queste disposizioni della legge è evidente per due ragioni:

1) Anzitutto perché la dignità umana ed il diritto alla vita non possono dipendere dal modo con cui un essere umano si rifornisce di ossigeno e di sostanze nutritive ed elimina l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo. Un embrione o un feto umano molto prematuro muoiono fuori dell’utero non perché hanno una vita di tipo inferiore, o sono poco “vitali”, ma perché non sono ancora in grado di respirare senza la placenta. Quest’organo invece permette loro di respirare e di nutrirsi, immersi nel liquido amniotico, nello speciale ambiente costituito dall’utero materno. Qualunque adulto affogherebbe subito in un simile ambiente perché, al contrario del feto, non ha la placenta che è indispensabile per respirare senza polmoni e per nutrirsi senza ingerire cibi.
2) In secondo luogo perché la capacità di sopravvivenza al di fuori dell’utero dipende dal grado di assistenza medica disponibile, cioè dalla capacità dei medici di sostituire subito e per lungo tempo la funzione della placenta, sopratutto per quanto riguarda l’assunzione di ossigeno e la eliminazione della anidride carbonica. Cento anni fa nessun neonato sopravviveva se nasceva prima delle 30 settimane di gravidanza ( sette mesi compiuti ); oggi, nei reparti di neonatologia dei nostri ospedali, sopravvive il 70% dei neonati partoriti fra la 25ª e la 28ª settimana, il 10% di quelli partoriti fra la 25a e la 23a settimana il 3% dei neonati venuti alla luce alla 22ª settimana. La ragione della progressiva riduzione dell’età di gravidanza in cui è possibile la sopravvivenza del feto fuori dell’utero è dovuta principalmente al fatto che i medici hanno trovato il modo di far funzionare sufficientemente i polmoni del neonato molto prematuro anche quando questi, da soli, non sono ancora in grado di farlo.
Quando i medici disporranno della placenta e dell’utero artificiali ( teoricamente possibili e attualmente in fase di studio e di sperimentazione sugli animali ), si potrà ottenere, senza danno, la sopravvivenza e l’ulteriore sviluppo di feti di età gestazionale molto minore e si potranno evitare molte delle gravi lesioni cerebrali conseguenti all’ asfissia neonatale dovuta a parti molto prematuri.

Ritorniamo alla legge 194/78. Lo scopo di ogni interruzione di gravidanza, secondo questa legge, è la difesa della vita o anche solo della salu
te fisica e psichica della madre ottenuta attraverso l’uccisione dell’embrione o del feto.
Nel primo trimestre di gravidanza la morte dell’embrione o del feto è “garantita” perché la si ottiene facendolo letteralmente a pezzi nel seno materno ed estraendo i frammenti dalla cavità dell’utero; nel secondo trimestre di gravidanza la morte del feto è ottenuta inducendo artificialmente il parto o praticando un taglio cesareo in un’età gestazionale in cui, presumibilmente, i suoi polmoni non sono ancora in grado di sostituire la funzione respiratoria della placenta, cosicché il feto, se non nasce già morto per effetto del trauma da parto, muore poco dopo per insufficienza respiratoria. Di fatto molti di questi feti nascono vivi, e muoiono in pochi minuti, ancora in sala parto, come pesci fuor d’acqua.
Ma qui nasce il “problema”: questi metodi di interruzione della gravidanza non “garantiscono” più la morte del feto, almeno subito dopo il parto: non si può infatti sapere in anticipo con certezza se un feto, alla fine del secondo trimestre di gravidanza, ha già i polmoni sufficientemente sviluppati o meno per sopravvivere dopo la nascita con l’assistenza della terapia intensiva neonatale.
La capacità di sopravvivenza fuori dell’utero, infatti, essendo legata principalmente al grado di sviluppo dei polmoni, compare progressivamente al passaggio dal secondo al terzo trimestre di gravidanza. Si dovrebbe piuttosto parlare di probabilità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero che, allo stato attuale dell’assistenza medica, va dal 3% a 22 settimane al 70% fra la 25a e la 28a settimana. A “scopo pratico” si è convenuto “formalmente”, in modo arbitrario, che la capacità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero non sussista fino all’ inizio della 24° settimana di gravidanza. Tuttavia, oltre a possibili errori nella determinazione dell’età gestazionale, anche prima della 24° settimana (raramente anche a 22 settimane) possono esserci feti un po’ più avanti nello sviluppo che hanno la capacità di sopravvivere, se aiutati dalla moderne tecniche di rianimazione. Si crea così una “incresciosa” situazione: il feto che doveva essere ucciso dall’interruzione di gravidanza continua ostinatamente a vivere. E allora cosa si deve fare? Lo si abbandona senza alcuna assistenza aspettando che muoia spontaneamente, magari dopo ore, oppure lo si ricovera nell’unità di terapia intensiva neonatale per tentare di salvargli la vita, con il rischio di gravi danni neurologici o psichici causati dalla asfissia dovuta al precocissimo parto? Se si è praticato l’aborto non era forse perché si voleva la morte del feto per la “salute” fisica o psichica della donna? Chi decide se il feto deve essere assistito nell’unità di terapia intensiva? I medici o la madre?
Per evitare il “problema”, prima di praticare l’aborto con il parto indotto o il piccolo taglio cesareo, il feto può essere ucciso nell’utero con un’iniezione di cloruro di potassio o di digitale praticata direttamente nel suo cuore con un ago guidato dall’ecografia. Per molti anni negli USA e stato praticato ampiamente anche l’aborto cosiddetto “a nascita parziale”; una procedura orribile, che consiste nella estrazione chirurgica del feto per via vaginale fin tanto che la testa, che è la parte più ampia del corpo fetale, non rimane bloccata nel collo dell’utero; a questo punto si perfora il cranio del feto, si introduce nel foro una sonda e si aspira il cervello: così le dimensioni del cranio si riducono e il feto può essere estratto senza difficoltà dal corpo della madre e la sua morte è certa. Questa tecnica di aborto, di fatto non è praticata in Italia, anche se di per sé sarebbe lecita dato che la legge 194 non proibisce alcuna tecnica abortiva chirurgica.
In Italia si preferisce l’iniezione intracardiaca, oppure si propone di proibire l’aborto dopo le 22 settimane di gravidanza, quando già esiste qualche probabilità di sopravvivenza del feto. E’ questa la decisione della Regione Lombardia che però è stata bocciata dal TAR.
Tuttavia, se non si usano questi “metodi preventivi” e il feto abortito nasce vivo e non muore subito in sala parto, le opinioni dei medici e dei bioeticisti si dividono: c’è chi sostiene che il feto deve sempre essere rianimato e assistito in terapia intensiva neonatale (Società Italiana di Neonatologia e Comitato Nazionale di Bioetica), altri che deve essere rianimato solo se ha raggiunto l’età gestazionale di 25 settimane, mentre nei casi di età compresa tra le 22 e le 25 settimane si dovrebbe decidere caso per caso e affidando ai medici la valutazione della “vitalità” del feto, delle sue probabilità di sopravvivenza e del rischio di lesioni cerebrali da asfissia, sentendo in proposito la volontà dei genitori (Carta di Firenze).
Non si può evitare un senso di orrore di fronte a queste considerazioni circa il modo più “appropriato” per far morire legalmente un bambino non nato nel 2° trimestre di gravidanza.
Certamente alla luce delle conoscenze scientifiche sulla vita umana prenatale e sulla capacità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero, appare evidente, oltre all’aspetto disumano, anche la natura assolutamente antiscientifica ed arbitraria della legge 194/78 e, in generale, di tutte le leggi permissive in materia di aborto che considerano la capacità di sopravvivenza fuori dell’utero come discrimine fra il diritto o il non diritto alla vita.
In realtà, in tutto il mondo occidentale, queste leggi non sono nate dallo sviluppo della scienza medica, come invece è avvenuto per le leggi sulle donazioni e sui trapianti d’organo. Al contrario, esse sono state il frutto di un’imposizione ideologica, attuata con l’inganno programmato e sistematico dell’opinione pubblica e con la collaborazione di politici senza scrupoli, per scopi che nulla hanno a che vedere con quelli delle scienze mediche. Un inganno che continua anche oggi con una rigorosa censura sui mezzi di comunicazione di massa.
Ciò ha creato una situazione giuridica assurda e un insanabile conflitto fra la legge positiva e la realtà di fatto, da cui non si potrà mai uscire fin quando le leggi in materia cesseranno di basarsi su pregiudizi ideologici e finalmente terranno conto della realtà, cioè dei dati certi delle scienze biologiche.
In attesa che i politici rinsaviscano e si rendano conto che la legge 194/78 è una vera follia giuridica, si potrebbero almeno proibire gli aborti nel secondo trimestre di gravidanza nel caso in cui le i processi patologici o le malformazioni del feto fossero guaribili per mezzo di terapie mediche o chirurgiche attuate prima o dopo la nascita. Infatti, secondo la legge 194, i processi patologici o le malformazioni fetali giustificano l’aborto perché rappresentano un pericolo per la salute psichica della madre (Art, 6). Ma se queste patologie sono guaribili questa giustificazione legale viene meno. E’ un’eventualità che finora la legge 194 non prevede. Perciò ogni anno, in Italia, centinaia di bambini non ancora nati continuano ad essere uccisi con l’aborto legale mentre potrebbero vivere ed essere guariti dalle loro infermità.

Quello studio che fa scricchiolare la retorica di una scelta a “costo zero”

INT.
Giulia Galeotti

L’Osservatorio del Nord Ovest ha da poco condotto un’ indagine sulla legge 194 riguardo l’interruzione di gravidanza e i dati che ne emergono risultano interessanti e a tratti sorprendenti. Il primo che salta immediatamente agli occhi è quello che riguarda i giovanissimi: più di due terzi delle ragazze, come anche la maggior parte degli uomini maturi tra i 45 e i 54 anni, sono convinte che sia meglio mantenere la legge così com’è, mentre i giovani maschi quasi per metà vorrebbero su questo tema un atteggiamento più restrittivo da parte dello Stato. IlSussidiario.net ha chiesto di commentare questa discrepanza tra giovani uomini e donne a Giulia Galeotti, storica e saggista, autrice di numerose pubblicazioni su questo argomento: “Questo dato è interessante perché, se andiamo invece a vedere gli atteggiamenti di uomini e donne nei confronti dell’aborto fino a oggi, la maggiore criticità è ravvisata più dalle donne, che si sono presto accorte sulla loro pelle che abortire non è quella scelta “a costo zero” che era stata presentata. I maschi invece sono ancora favorevoli, perché ovviamente è una scelta che loro non vivono in prima persona e non sulla loro pelle. Quindi stupisce la notizia di una differenziazione sessuale, ma non quella di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’aborto”. Possiamo quindi dire che l’atteggiamento nei confronti dell’aborto è notevolmente cambiato nel corso del tempo?
“Possiamo dire che c’è un atteggiamento globale più contrario all’interruzione di gravidanza. Mentre con un occhio al passato, è interessante notare come dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Novanta, man mano che i vari paesi occidentali hanno legalizzato l’aborto, le leggi sono sempre state in realtà più restrittive. Per esempio la legge inglese del 1967 è molto più aperta rispetto alla legge tedesca creata dopo l’unificazione della Germania, che invece è molto più rigorosa nei confronti di questo tema”.
Dall’indagine dell’Osservatorio del Nord Ovest emerge anche che in Italia la natalità continua ad essere bassa, ma è sempre più basso anche il ricorso all’aborto, tanto che nel 2010 il numero di interruzioni volontarie di gravidanza è risultato in calo del 2,5% rispetto all’anno precedente. “Da giovane donna quale sono – continua a spiegare Giulia Galeotti – leggo il problema della scarsa natalità tra le donne italiane non come un fatto di egoismo, ma come un problema oggettivo legato al mondo del lavoro. La gravidanza è vista ancora dai datori di lavoro come un grande handicap e purtroppo le donne risentono anche del troppo precariato: non credo che la politica si renda conto del fatto che questo problema stia influenzando l’identità di un’intera generazione, e che il fatto di essere precari, fa sì tirare fuori a molti giovani potenzialità e dinamismo intellettuale che forse le generazioni precedenti non avevano, ma sta anche rimodellando le coscienze. Purtroppo il dato della bassa natalità è molto preoccupante, e deve essere guardato in modo diverso da come si sta facendo ora”.
Un’altra parte del sondaggio cerca di spiegare invece quanto religione e politica possano influenzare l’opinione degli italiani, arrivando a due conclusioni: la prima che la frequenza religiosa influisce in maniera determinante, e la seconda che le persone più inclini a modificare la legge 194 in senso restrittivo si trovano fra gli aderenti a partiti di ispirazione cristiana: “A differenza di quello che è accaduto in Spagna, – continua la Galeotti – credo che in Italia la tenuta dei valori morali e etici che vengono dal cattolicesimo abbia modellato in positivo e aiutato tante persone, anche coloro che non si professano cattolici. Quindi gli italiani mantengono queste radici, e nelle scelte bioetiche domina sicuramente più la religione dell’appartenenza politica”.
Infine fa riflettere il fatto che tra le donne con cittadinanza estera ci sia un tasso di abortività stimato 3-4 volte maggiore delle donne italiane, soprattutto tra le immigrate provenienti dai Paesi dell’Est. Solo nel 2009, la percentuale di aborti delle donne straniere è stata del 33,4% del totale, mentre dieci anni prima era del 10,1%. “Questo è un altro dato che deve far riflettere – conclude Giulia Galeotti – di come il nostro Paese riesce ad accogliere gli extracomunitari. Credo che le donne straniere che abortiscono siano il segno della nostra incapacità di aiutarle, di ascoltarle e sono persone spesso costrette dalla povertà, dall’emarginazione e dal fatto di trovarsi in mezzo a una strada. Fortunatamente, per andare incontro a questi bisogni, le associazioni cattoliche stanno già facendo moltissimo, ma resta comunque un altro dato su cui tutti dobbiamo riflettere e impegnarci”.


(Claudio Perlini)

Il sussidiario.net,
martedì 9 agosto 2011

Se 115 mila aborti vi sembran pochi…

“Continua a diminuire il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese”: questo l’incipit di un articolo del quotidiano Avvenire. A noi 115 mila aborti all’anno paiono sempre troppi…

Continua a diminuire il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese: nel 2010 gli aborti volontari sono stati 115.372, in calo del 2,7% rispetto al 2009, un dato più che dimezzato rispetto al 1982, anno record con 234.801 casi. Se la diminuzione è indubbiamente positiva, il numero assoluto resta impressionante.
I dati sono forniti dalla relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge194, trasmessa oggi al Parlamento. Il tasso di abortività (numero delle IVG per 1.000 donne in età feconda tra 15-49anni), nel 2010 è risultato pari a 8.2 per 1.000, con un decremento del 2.5% rispetto al 2009 (8.5 per 1.000) e del 52.3% sul 1982 (17.2 per 1.000).
Il valore italiano è tra ipiù bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati. Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato nel resto dell’Europa Occidentale.
L’analisi delle caratteristiche delle IVG, riferita ai dati definitivi dell’anno 2009, conferma che nel corso degli anni è andata crescendo la percentuale di donne con cittadinanza estera che ricorrono all’aborto, raggiungendo nel 2009 il 33.4% del totale, mentre nel 1998 era del 10.1. Nel 2009, dei 38.309 aborti di donne con cittadinanza straniera 19.762 (il 51.6%) sono di donne provenienti dall’Europa dell’Est.
In generale nel corso degli anni le più rapide riduzioni del ricorso all’aborto sono state osservate tra le donne più istruite, tra le occupate e tra le coniugate. Allo stesso tempo però i dati mostrano che quasi la metà delle IVG, sia tra le italiane (47.3%) sia tra le straniere (43.8) sono di donne con occupazione lavorativa, e solo il 13.4 delle IVG tra le italiane e il 23.4 tra le straniere riguardano disoccupate o in cerca di prima occupazione. Riguardo allo stato civile, le IVG tra nubili e coniugate sono in percentuali simili: tra le straniere prevalgono le coniugate (49.4%) mentre tra le italiane le nubili (50.8). Tra le italiane che hanno effettuato un aborto, il 45.4% non aveva figli, così come il 31.9% delle straniere. La quasi totalità degli interventi ormai avviene in day hospital con degenze inferiori a un giorno (93.6% dei casi).
Sono obiettori sette ginecologi su dieci, e più della metà degli anestesisti. Nel 2009, si legge nel rapporto, si evince una stabilizzazione generale dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi e gli anestesisti, dopo un notevole aumento negli ultimi anni. Per il personale non medico si è osservato un ulteriore incremento, con valori che sono passati dal 38.6% nel2005 al 44.4% nel 2009.
La tendenza, negli stessi anni, alla diminuzione dei tempi di attesa tra il rilascio della certificazione e l’intervento, sembra però indicare secondo il ministero che il livello dell’obiezione di coscienza non ha una diretta incidenza nel ricorso all’IVG.
Quanto al ricorso al Consultorio Familiare per la documentazione/certificazione, il dato rimane ancora basso (39.4%), specialmente al Sud e Isole, anche se in aumento, in gran parte per il maggior ricorso da parte delle straniere (52.7% rispetto a 32.7% relativo alle italiane). Le cittadine straniere ricorrono più facilmente al Consultorio Familiare in quanto servizio a bassa soglia di accesso, anche grazie alla presenza in alcune sedi della mediatrice culturale. Il numero dei consultori familiari pubblici notificato recentemente dalle Regioni è stato 2.156 e 144 quelli privati; pertanto risultano 0.7 consultori per 20.000 abitanti, come nel 2006, 2007 e 2008, valore inferiore a quanto previsto dalla legge 34/1996 (uno ogni 20.000 abitanti).

Da Avvenire, 4 agosto 2011

L’aborto ha ucciso solo negli USA 300’000 donne

Vi propongo questo articolo che è stato pubblicato originariamente in inglese sul sito LifeNews.com. Alcune ulteriori considerazioni in fondo all’articolo stesso.

di Steven Ertelt

Un importante studioso di cancro al seno afferma che l’aborto ha causato almeno 300’000 casi di cancro al seno con conseguente morte della donna da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha legalizzato l’aborto praticamente senza limiti nel 1973 [con la famigerata sentenza Roe v. Wade, ndT].

Con decine di milioni di aborti dalla decisione della Corte ‒ e la ricerca conferma che l’aborto aumenta il rischio di contrarre il cancro al seno ‒ senza dubbio si è verificato un gran numero di casi di cancro al seno provocati dall’aborto negli ultimi 38 anni.

Il professor Joel Brind, endocrinologo del Baruch College di New York, ha lavorato con diversi scienziati a un articolo del 1996, pubblicato sul Journal of Epidemiol Community Health, che mostra un “aumento del 30% di probabilità di sviluppare cancro al seno” per le donne che hanno avuto aborti procurati. Recentemente egli ha commentato sul numero di donne che ne sono rimaste vittime:

Se consideriamo attorno al 10% il rischio complessivo di cancro al seno (non considerando l’aborto), e lo aumentiamo del 30%, otteniamo un rischio del 13% complessivo riferito a tutta la vita. Considerando i 50 milioni di aborti dalla sentenza Roe v. Wade, otteniamo un eccesso di 1,5 milioni di casi di cancro al seno. Ad una mortalità media del 20% dal 1973, questo implica che l’aborto legale ha provocato circa 300’000 morti in più a causa di cancro al seno dalla sentenza Roe v. Wade.

Brind ha detto che la sua stima esclude le morti dovute all’utilizzo dell’aborto per ritardare la prima gravidanza portata a termine, un fattore di rischio riconosciuto per il cancro al seno.

Karin Malec, a capo di Coalition on Abortion/Breast Cancer, un gruppo per sensibilizzare l’opinione pubblica, dice che il numero di studi che mostra il legame tra aborto e cancro al seno continua a crescere negli anni dopo l’analisi innovativa fatta da Brind nel 1996 sui principali studi dell’epoca:

Negli ultimi 21 mesi, quattro studi epidemiologici e una recensione hanno riportato un legame tra aborto e cancro al seno. Uno studio includeva come coautrice Louise Brinton, direttrice di del settore nel National Cancer Institute. Abbiamo circa 50 studi epidemiologici pubblicati dal 1957 a oggi che riportano un legame. Vi sono anche studi biologici e sperimentali a sostenere questo legame. Gli esperti hanno dimostrato nelle riviste mediche che quasi tutti i circa 20 studi che negano il legame tra aborto e cancro al senso sono gravemente difettosi (fraudolenti). Come nel caso dell’occultamento del legame tra tabacco e cancro, essi sono usati per imbrogliare le donne e far loro credere che l’aborto sia sicuro.

Chirurghi come la dottoressa Angela Lanfranchi, Clinical Assistant Professor di Chirurgia presso la Robert Wood Johnson Medical School del New Jersey, che ha ampiamente spiegato come l’aborto aumenti il rischio di cancro al seno, hanno visto in prima persona come l’aborto faccia male alle donne.

Nel 2002 Angela Lanfranchi ha testimoniato sotto giuramento in una causa contro Planned Parenthood in California di aver avuto conversazioni private con importanti esperti che concordavano sul fatto che l’aborto aumenti il rischio di cancro al seno, ma si rifiutavano di discuterne pubblicamente dicendo che era una questione “troppo politica”.

Come co-direttore del Programma di Sanofi-Aventis Breast Care presso il Steeplechase Cancer Center, la Lanfranchi ha curato innumerevoli donne con una diagnosi di cancro al seno. La Lanfranchi è stata nominata “Top Doc” 2010 in chirurgia del seno per l’area metropolitana di New York dalla Castle Connolly.

In un articolo che ha scritto per la rivista medica Linacre Quarterly, la Lanfranchi spiega perché l’aborto comporta dei problemi per le donne e aumenta il rischio di cancro al seno:

L’aborto indotto aumenta notevolmente il rischio di cancro al seno perché interrompe i normali cambiamenti fisiologici al seno che avvengono durante una gravidanza a termine, e che abbassano il rischio di cancro al seno per la madre. Una donna che porta a termine una gravidanza a 20 anni ha una diminuzione del rischio di cancro al seno del 90% rispetto ad una donna che aspetta fino a 30 anni.

Il tessuto del seno dopo la pubertà, e prima di una gravidanza a termine, è immaturo e vulnerabile al cancro. Il 75% di questo tessuto è di lobuli di tipo 1 dove inizia il cancro duttale e del 25% di lobuli del tipo 2 dove inizia il cancro lobulare. Il cancro duttale costituisce l’85% di tutti i tumori al seno mentre il cancro lobulare ne costituisce il 12-15%.

Nonappena una donna concepisce, l’embrione secerne gonadotropina corionica umana (hCG), l’ormone la cui presenza viene rilevata nei test di gravidanza.

L’hCG fa sì che le ovaie della madre aumentino i livelli di estrogeno e di progesterone nel suo corpo, provocando un raddoppiamento della quantità di tessuto mammario. In effetti, ha più lobuli di tipo 1 e 2, dove il cancro inizia.

A metà gravidanza, a 20 settimane, il feto e la placenta producono hPL, un altro ormone, che comincia a far maturare il tessuto mammario in modo che possa produrre latte. ? solo dopo 32 settimane che la madre ha abbastanza lobuli del tipo 4, maturo, che sono resistenti al cancro, così che il rischio di cancro al seno diminuisce.

L’aborto procurato prima delle 32 settimane lascia il seno materno con più tessuto vulnerabile per l’inizio del cancro. Questo è anche il perché ogni nascita prematura prima delle 32 settimane, non solo l’aborto procurato, aumenta o duplica il rischio di cancro al seno.

Aborti spontanei nel primo trimestre d’altra parte non aumentano il rischio di cancro al seno perché c’è qualcosa che non va con l’embrione, cosicché i livelli di hCG sono bassi. Un’altra possibilità è che ci sia qualcosa che non vada con le ovaie della madre e i livelli di estrogeno e progesterone siano bassi. Quando questi ormoni sono bassi il seno della madre non cresce e non cambia.

Al termine della gravidanza, l’85% del suo tessuto mammario è resistente al cancro. Ogni gravidanza successiva diminuisce il rischio di un ulteriore 10%.

Se una donna decide di abortire per qualunque ragione, dovrebbe cominciare a fare test preventivi a partire da 8-10 anni dopo l’aborto, in modo che, se si sviluppa un cancro, esso possa essere rilevato e curato precocemente per una prognosi migliore.

Due considerazioni:

1) ? abbastanza evidente che, come è esistita una lobby del tabacco che ha cercato di negare e occultare il legame tra fumo e cancro ai polmoni, esiste parimenti una lobby dell’aborto che cerca di negare e occultare i legami tra aborto e diverse patologie fisiche e psichiche che esso può comportare per la madre (come mostra la storia della ricerca effettuata dal dottor Fergusson sulle conseguenze psichiatriche dell’aborto)

2) Rapportando i numeri americani all’Italia, dal 1978 l’aborto legale ha causato in Italia la morte di 30’000 donne per cancro al seno. Anche considerando il fatto che una parte degli aborti avvenuti avrebbero avuto luogo anche se l’aborto fosse stato illegale (possiamo stimare attorno alla metà), arriviamo a un surplus di 15’000 morti dovute alla sola legalizzazione dell’aborto. Le morti per aborto clandestino erano stimate (approssimativamente) attorno a 10-30 l’anno. Arriviamo così alla conclusione che la legge 194, da una parte ha ‘salvato’ un numero di donne che si aggira attorno al migliaio, dall’altra parte ne ha uccise molte, ma molte di più. Senza ovviamente contare il dolore morale, le conseguenze psicologiche e i suicidi, la mattanza degli innocenti, e l’aver reso nelle coscienze di molti l’aborto un fatto ‘moralmente indifferente’.

Seppelliamo l’idiozia crudele

Di questo passo, dopo i cimiteri per «animali d’affezione», istituiranno anche quelli per dare degna sepoltura alle zanzare. E se d’estate proverai ad ucciderne una mentre invade casa tua, ti beccherai come minimo una sanzione amministrativa. Dopotutto, chi l’ha detto che la vita di un zanzara valga meno di quella di un cane o di un gatto? E perché poi, solo perché è più piccola e non ha bisogno di una cuccia? Facciamo come per noi: seppelliamo tutti gli animali, senza distinzione, no? Su questo dobbiamo dare atto ad Eugenio Scalfari di essere coerente quando, dal basso del suo nichilismo barboso e barbuto, precisa: «Dove sta la differenza tra il gatto e la persona? Io non la vedo» (Cit. in “Agorà”, Avvenire 26/8/2007, p. 5)  Ma noi che, grazie al Cielo, quella differenza la vediamo ad occhio nudo, dobbiamo stare all’erta. Per cui, quando leggiamo che l’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta è sotto accusa per aver sottoscritto un protocollo per il seppellimento dei bambini non nati perché abortiti, dobbiamo ribellarci. L’idiozia crudele di una società che tra poco tumulerà anche le zanzare ma rifiuta di fare lo stesso per i propri figli più piccoli è qualcosa di insopportabile. E merita, anche questa, di essere seppellita al più presto.

Russia: aborto, si cambia

In Russia la pubblicità favorevole all’aborto sarà limitata dalle stesse regole che ora restringono la reclame di sigarette e superalcolici. Alcuni giorni fa la Duma ha approvato in terza lettura e ormai in via definitiva una serie di emendamenti alla legge sulla pubblicità.

Secondo questa legge, almeno il 10 per cento della superficie di qualsiasi spazio pubblicitario che offre assistenza nell’interruzione della gravidanza deve essere destinato a un’avvertenza sulle gravi conseguenze di una simile procedura, per esempio il rischio di futura sterilità e «altri effetti dannosi per la salute della donna».

Inoltre la legge prescrive ai pubblicitari di rinunciare a qualsiasi formula o slogan che sottolineino la sicurezza di questo tipo di interventi, la sua facilità e il suo carattere indolore.

Il provvedimento appare necessario perché diverse cliniche in Russia reclamizzano sui giornali la loro disponibilità a compiere aborti mettendo l’accento appunto sul preteso «carattere innocuo» dell’intervento.

Viktor Zvagelskij, deputato di Russia Unita, il partito del premier Vladimir Putin, uno dei promotori degli emendamenti, ha rilevato che le cliniche sono molto interessate alla reclame dell’aborto, perché «si tratta di un business dal quale esse traggono denaro».

Il vice capogruppo di Russia Unita alla Duma, Tatjana Jakovleva, ha sottolineato che «nel nostro paese, una morte su cinque di donne in gravidanza è il risultato di un aborto».

La precedente redazione della legge sulla pubblicità, adottata nel 2009, proibiva completamente di reclamizzare servizi per l’interruzione artificiale della gravidanza con affissioni nei luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto, sui giornali e riviste. Riferendosi alla nuova redazione, l’avvocato Aleksandr Saverskij, presidente della Società panrussa per la difesa dei pazienti, ha dichiarato al settimanale Moskovskije Novosti: «È una misura attesa e pienamente giustificata. La gravidanza non è una malattia che esiga di essere curata, a spese dello Stato, immediatamente e senza obiezioni».

 Il giurista e difensore dei diritti dei pazienti sottolinea che «la gravidanza come tale non comporta minacce per la salute della donna, l’aborto invece sì». Di conseguenza, sostiene l’avvocato, «lo Stato ha il dovere di mettere in guardia sui pericoli dell’aborto».

Tanto più che, afferma Elena Mizulina, presidente della Commissione parlamentare per la famiglia, la donna e l’infanzia, «oggi lo Stato spende, traendoli da bilanci di vario livello, quasi 4 miliardi di rubli l’anno, mentre per i sussidi all’infanzia ne spende solo poco meno di 5». Mizulina, impegnata in prima persone nella lotta contro l’aborto, osserva che «fare un aborto oggi in Russia è semplice tanto quanto acquistare una bottiglia di vodka, ma che l’alcol faccia male alla salute lo sanno tutti, mentre le conseguenze micidiali dell’aborto vengono taciute. Adesso ciò viene corretto», ha detto Mizulina dopo l’approvazione della nuova legge, osservando che le norme concernenti il tema dell’aborto «sono in continua evoluzione».

Elena Mizulina ha presentato anche radicali emendamenti alla legge sulla protezione della salute, anche se dubita che troveranno una maggioranza alla Duma. «Dai sondaggi effettuati – afferma la battagliera parlamentare – emerge come la gente non sia ancora preparata al fatto che l’aborto sia escluso dal novero dei servizi medici a carico dal bilancio dell’assicurazione medica obbligatoria. Non ha trovato appoggio – continua Elena Mizulina – neppure la nostra proposta di introdurre il consenso obbligatorio del marito all’aborto. Molti sostengono che questo potrebbe diventare un’arma di ricatto».

 I deputati sembrano orientati a votare solo un’estensione del «consenso informato» e l’adozione obbligatoria nella prassi clinica della cosiddetta «settimana della quiete», un periodo concesso alla donna per riflettere bene sulla sua decisione di abortire.

Un progetto di legge che dovrebbe portare ad una riduzione degli aborti in Russia era stato presentato di recente da un altro deputato di Russia Unita, Valerij Draganov, ma dopo poche ore egli lo aveva ritirato a causa di «un errore rilevato nel testo del documento».

 Erano già circolate voci di indebite pressioni sul parlamentare, ma lo stesso Draganov ha assicurato che l’errore aveva solo un carattere «tecnico» e che il ddl sarà ripresentato a breve. Il deputato ha confermato che il suo progetto è stato elaborato insieme con diverse organizzazioni sociali e con la Chiesa ortodossa, ma ha negato che si tratti di un’iniziativa di quest’ultima.

 L’Unione Sovietica fu il primo Paese del mondo a legalizzare l’aborto volontario nel 1920 ma il dittatore Iosif Stalin lo mise fuori legge nel 1936, nel tentativo di compensare la perdita di popolazione provocata dal "grande terrore" da lui stesso scatenato e dalla guerra, e vi restò fino alla sua morte nel 1953.

Dalla fine dell’Urss nel 1991, la popolazione russa si è costantemente ridotta, perdendo fra il 1992 e il 2008 più di 12 milioni di abitanti, per attestarsi infine a quota 143 milioni. Giovanni Bensi, Avvenire, 19 luglio 2011