Marco d’Aviano il “medico spirituale dell’Europa”.

Capita talvolta durante un viaggio di trovarsi di fronte a luoghi talmente carichi di storia e di suggestioni che quasi restiamo increduli, storditi, commossi. E’ successo recentemente che, dovendo recarmi a Vienna per lavoro, ho voluto ritagliarmi un po’ di tempo per compiere una sorta di pellegrinaggio sulle tracce di quel gigante del XVII? secolo che fu Marco d’Aviano, anima della liberazione di Vienna nel 1683. Un gigante dicevo, eppure ancora oggi in gran parte d’Italia poco noto, tenuto nascosto quasi come un parente scomodo che, per timore del giudizio altrui, si tiene in cucina quando arrivano ospiti.

Padre Marco è sepolto nella Chiesa dei Cappuccini a Vienna, sopra la celebre Cripta che ospita le spoglie mortali degli Asburgo, unico non appartenente alla dinastia ad aver avuto questo privilegio; eppure nelle guide ufficiali che accompagnano il turista italiano medio a conoscere la città, vedi per esempio il celeberrimo “libro verde” delle Guide d’Europa del Touring Club Italiano, neppure una parola, un accenno, un rimando: Marco d’Aviano semplicemente non esiste. Solo ignoranza? Non è da escludere, ma se dietro questa “dimenticanza” ci fosse invece la volontà di occultare la memoria scomoda, almeno da noi, di colui che ancora oggi è venerato come un santo non solo in Austria, ma anche in Ungheria, Slovenia e in altre regioni danubiane? La figura di padre Marco certamente spaventa le anime belle del dialogo ad oltranza e del pacifismo che si fa codardia, sottomissione a culture e religioni altrui in nome di una tolleranza che svilisce e avvizzisce le nostre radici. Queste anime belle dimenticano certamente che senza l’azione ferma, decisa, incrollabile nella Fede del frate friulano, forse oggi la nostra pavida Europa, o almeno gran parte di essa, sarebbe certamente islamizzata, una realizzazione compiuta di quella “Eurabia” che tanto spaventava Oriana Fallaci.

Marco fu, non dimentiachiamolo mai, in primo luogo uomo di Fede, animato da una volontà tenace di restituire alla cristianità le terre ormai sottomesse all’Islam, in Europa ed in Terra santa. Uomo del suo tempo, avvertiva i pericoli delle divisioni interne alla cristianità di fronte all’espansionismo turco e si prodigò girando gran parte d’Europa sorretto dalla Parola, predicando e compiendo guarigioni miracolose e prodigi che ben presto lo fecero conoscere ovunque nel continente. Numerosi furono i regnanti e i nobili europei, dalla Germania al Belgio, dalla Boemia alla Francia, alla Svizzera, che richiedevano la presenza e la parola del frate friulano e particolarmente devoto a padre Marco fu Leopoldo I d’Asburgo, che lo volle sempre accanto nei momenti di difficoltà e crisi anche politica, diventandone con il passare del tempo, confidente, padre spirituale ed amico. Ai confini del suo regno, l’Impero turco si stava preparando per sferrare l’assalto decisivo al mondo cristiano: nell’aprile 1683 un esercito turco di 150.000 uomini più circa altrettanti ausiliari e trecento cannoni, con 50.000 carri, si mise in marcia sotto il comando del sultano Maometto IV il quale dopo aver raggiunto Belgrado, lasciò la responsabilità dell’armata al gran visir Kara Mustaf?. Da un punto di vista strettamente militare si trattò davvero di un’impresa epica, la più grande spedizione militare mai organizzata dai turchi. Il 12 luglio 1683 l’armata turca raggiunge Vienna dopo aver occupato e saccheggiato gran parte dei Balcani e messo a ferro e fuoco oltre 400 città. Di fronte alla minaccia islamica si mobilitò in primis Papa beato Innocenzo XI tentando di coalizzare i principi cristiani in una Lega Santa contro la mezzaluna. Alla chiamata del Santo Padre risposero la Polonia di re Jan III Sobieski, alcuni volontari italiani ed alcuni principati germanici come Baviera, Turingia, Holstein, Renania e Sassonia, cattolici e protestanti insieme. La Francia, come altre volte, restò sorda all’appello del Pontefice, attendendo di godere i frutti dell’auspicata sconfitta degli odiati Asburgo.

Il comando delle truppe cristiane, che contavano circa 70.000 uomini, fu affidato dapprima a Carlo V di Lorena, cognato dell’Imperatore e discepolo di padre Marco, ed in seguito al Re di Polonia Sobieski. Vera guida della coalizione cristiana fu in realtà padre Marco, che riuscì, inoltre, ad impedire che i dissidi fra i vari principi mandassero in fumo la già fragile alleanza tra loro. Il giorno 11 settembre, le truppe cristiane occuparono il Kahlenberg, il colle che guarda Vienna da occidente. Fu da questa altura che padre Marco infiammò le truppe con i suoi incitamenti, con le sue prediche, instancabile incoraggiò e benedisse tutti i soldati e loro comandanti. Sulla parete della piccola chiesa, la Josefskirche, una targa ricorda la visita di papa Giovanni Paolo II su questo colle nel 1983: il papa polacco sostò in preghiera sul luogo della celebrazione della Messa da parte di padre Marco a Jan Sobieski e agli altri principi cristiani. All’alba del giorno 12 settembre, dopo aver celebrato la Santa Messa e benedetto le truppe della coalizione, seguì l’evolversi della battaglia correndo da un punto all’altro dell’epico scontro. Nonostante il numero nettamente inferiore di soldati, le schiere cristiane sbaragliarono il poderoso esercito turco, già in serata padre Marco entrò in Vienna liberata e il giorno seguente volle celebrare il Te Deum nella cattedrale di Santo Stefano. Dopo Vienna guidò con impegno e fede incrollabile la riscossa cristiana nei Balcani fino alla liberazione di Belgrado nel 1688. L’incessante impegno e gli sforzi continui minarono la sua salute: il 25 luglio 1699 fu costretto a letto a Vienna vegliato dai membri della casa d’Austria, ed il 13 agosto morì assistito dalla famiglia imperiale, dall’imperatore Leopoldo e dall’imperatrice Eleonora. Dal 1703, come ricordato, riposa in una cappella nella chiesa dei Cappuccini.

Numerosi sono i documenti e le testimonianze che riportano guarigioni e miracoli dovuti all’intercessione di padre Marco d’Aviano; il processo di canonizzazione fu avviato da S. Pio X nel 1912 e fu papa Giovanni Paolo II a concludere la causa di beatificazione, proclamandolo beato a Roma il 27 aprile 2003, suscitando anche numerose polemiche all’interno di un certo mondo cattolico progressista che considerava e considera padre Marco troppo combattivo e una minaccia per il dialogo interreligioso. Marco d’Aviano e Giovanni Paolo II, due figure immense della cristianità, combattive, generose, mai dome, sorrette da una Fede solida, scevra da ogni compromesso, in quel giorno di quattro anni fa una di fronte all’altra, due campioni della Fede di fronte alle minacce dei loro tempi. Marco d’Aviano fu comunque un uomo che si attirò anche il rispetto dei musulmani della sua epoca, non dobbiamo dimenticarlo, proprio per la sua incrollabile Fede, per la coerenza delle sue azioni. Mai, inoltre, nelle sue prediche scaturì un sentimento di odio verso le schiere avversarie, i prigionieri turchi furono trattati con giustizia, secondo il volere dello stesso Marco. Il messaggio che padre Marco ci invia, oggi più forte che mai, è proprio rivolto ad ognuno di noi, cittadini di quest’Europa che si vergogna di riconoscere le proprie radici cristiane, a seguire il suo esempio nell’opera di riappropriazione di quelle nostre radici, dei nostri valori morali e spirituali. Il male principale della nostra epoca, il laicismo imperante, un nemico forse ancora più subdolo e pericoloso della minaccia islamica che atterriva l’Europa di allora, sarà sconfitto solo seguendo l’esempio di abnegazione e di Fede del piccolo grande frate di Aviano, il quale amava definirsi, non a caso, il “medico spirituale d’Europa”. Ditelo anche ai redattori, e alle redattrici, della guida turistica del Touring Club Italiano…

Il nunzio apostolico in Israele e Tornielli sul caso Pio XII.

La notizia che il nunzio della Santa Sede in Israele, mons. Antonio Franco, non andrà domenica alla cerimonia per la commemorazione della Shoà al museo Yad Vashem(lunedì 16 è il giorno in cui Israele ricorda appunto l’Olocausto) è oggi sulle prime pagine dei giornali italiani.
Al centro della controversia, una didascalia sotto la foto di Papa Pio XII proprio nel memoriale della Shoà. In una lettera il nunzio pontificio ha spiegato le ragioni della mancata partecipazione: “La mia assenza non significa mancanza di rispetto per il ricordo e per le vittime di questa tragedia. Lo Yad Vashem sostiene che non si può cambiare la verità storica. Ma ai fatti viene data un’interpretazione contraria a molte altre verità storiche”.
La vicenda dell’annunciata diserzione alla cerimonia ha fatto riesplodere in tutta la sua virulenza la polemica sulla figura e sul ruolo di Papa Pacelli, che viene dipinto dagli autori della didascalia quasi come un fiancheggiatore del nazismo.
Per Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano Il Giornale e storico di Papa Pacelli (il prossimo 22 aprile esce per i tipi di Mondadori Pio XII, un uomo sul trono di Pietro, una ponderosa biografia di 660 pagine contenente molti documenti inediti), data la situazione è sacrosanto che mons. Franco non vada alla cerimonia.
Tornielli, nel testo dello Yad Vashem si ripropongono i silenzi (e l’ignavia) di Pio XII…
La didascalia sotto la foto contiene diverse inesattezze. Si dice che il Papa abbia nascosto un’enciclica redatta dal suo predecessore, nella quale si toccavano i temi dell’antisemitismo… Bisognerebbe dire invece che per fortuna non l’ha pubblicata, perché proprio quella lettera conteneva accenni antisemiti. Si dice che non ha protestato, denunciato… Ma nel 1942 in un radiomessaggio parlò di moltissime di persone che “senza colpa propria solo a motivo della nazionalità” venivano condotte a morte. Si dice che nell’ottobre del 1943 non intervenne in alcun modo… ? documentato che fece tre interventi, e grazie a padre Pancrazio Pfeiffer, superiore generale dei salvatoriani, riuscì a intervenire sulle autorità militari tedesche per fermare la razzia nazista nel ghetto di Roma.
La didascalia afferma ancora che Papa Pio XII non diede direttive al clero… ? invece attestato e documentato anche attraverso testimonanze, che Papa Pacelli ordinò ai conventi di Roma di accogliere gli ebrei nell’ottobre 1943.
Nei libri scritti da lei su Pio XII, penso in particolare a Il Papa che salvò gli ebrei, si denunciano menzogne, omissioni ed eclatanti svarioni….
Viene coltivata una leggenda nera che tende a presentare Pio XII come filo nazista e antisemita. Oggi grazie a qualche ricerca più recente siamo in grado di capire che questi attacchi vengono dalla Russia e da ambienti del cattolicesimo progressista francese. Dietro la campagna di accuse contro Pio XII, culminata con l’uscita del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth rappresentato per la prima volta a Berlino nel 1963, ci sarebbe stato direttamente il Kgb e un’operazione di disinformazione gestita dai servizi segreti della Romania per conto di Mosca e finalizzata a screditare la Santa sede. L’Unione Sovietica non aveva perdonato a Papa Pacelli il grande e personale impegno profuso nel 1948 per impedire la vittoria del fronte social-comunista in Italia. Sul fronte opposto, sappiamo anche che Hitler e i nazisti lo consideravano proprio avversario. Sono attestati i contatti di Pio XII con un gruppo inglese per cercare di abbattere Hitler.
Gli storici israeliani chiedono con insistenza l’apertura degli archivi segreti vaticani. C’è ancora qualche verità da raccontare?
Si tratta di una richiesta del tutto pretestuosa e a senso unico. Si è parlato recentemente di una lettera con presunte rivelazioni di Roncalli a un dignitario ebraico… Materiale che si troverebbe in archivio in Israele e che non viene reso noto… Un archivio viene aperto quando il materiale è catalogato e consultabile, un lavoro immane ed enorme. Finora il Vaticano ha aperto l’archivio segreto fino a tutto il pontificato di Pio XI e non è ancora disponibile il pontificato di Pio XII. Ma bisogna ricordare che Paolo VI, dopo le accuse contenute nel “Vicario”, volle pubblicare tutti i documenti del periodo della seconda guerra mondiale. Quindi quello che c’è da conoscere sull’opera caritativa della Chiesa e di papa Pacelli negli anni della Shoà e in favore degli ebrei, è disponibile. Si tratta di una enorme mole di documenti che nessuno legge. Men che meno gli storici dello Yad Vashem.
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Milano – Siria. Largo alle donne!
Milano – Profilo. Il vescovo anglicano Suheil Dawani
Gerusalemme – Nel nome di san Lorenzo
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Messori, l’Europa, e gli Usa liberatori.

Se per qualcuno mi sono espresso male, lascio la parola ad un personaggio che si esprime meglio, dicendo però le stess ecose: Vittorio Messori, che mi sembra apprezzato, in questo sito, e dal mondo cattolcio in generale.
“Il cosiddetto “american way of life” non è certo il mio ideale. “Ci hanno salvati due volte”, dicono spesso i fanatici dell’Usa-mania, riferendosi alle due guerre mondiali. Ma, a ben guardare, i motivi degli Stati Uniti per intervenire non erano così limpidi, e proprio certi loro errori furono all’origine dell’emergere dei fascismi.
Poiché amo la mia cultura – quella, cioè, di italiano “padano” nonché di cattolico – rispetto ogni altra cultura e tradizione. In effetti, come dimenticano spesso certi “dialoganti” confusionari, l’amore di sé è condizione indispensabile per l’amore verso gli altri. Solo chi è consapevole della sua identità e non vuole essere offeso in ciò che gli è caro, si guarda dall’offendere ciò che è caro ad altri. Dunque, alla pari di ogni altro Paese, rispetto anche gli Stati Uniti e quella loro cultura, della cui bontà sono così convinti da farne un’ideologia da esportazione mondiale, dandole un nome: american way of life. Rispetto, dunque. Ma, a differenza di tanti, oggi, non faccio del Nord America il mio ideale, non ho alcuna intenzione di abbandonare le mie tradizioni per adottare le loro. Il mio “istinto” cattolico si sente estraneo a un Paese che è figlio prima del protestantesimo radicale, poi della massoneria (tutti i Padri della Patria erano massoni e vollero riempire dei loro simboli non soltanto il dollaro ma ogni altro emblema, a cominciare dalle bandiere dei singoli Stati), infine di un ebraismo, soprattutto ashkenazita, che è sceso in profondo attraverso la cultura, i mass media, lo spettacolo. Mi ha sempre sorpreso il totale oblio che ha avvolto la lettera apostolica Testem benevolentiam del 1899, con la quale Leone XIII condannava quello che fu chiamato “americanismo” e denunciava una deriva che il cristianesimo stava prendendo (ma, malgrado gli avvertimenti, sempre più avrebbe preso) nel Nuovo Continente. Naturalmente, lascio che chi vuole sia affascinato dagli States sino a vestire, cantare, parlare come loro; e facciano pure se rischiano così la figura dei provinciali se non dei barbari nell’impero romano, ansiosi di adeguarsi a usi, costumi, lingua dei dominatori. Amando però la verità – e conoscendo un poco la storia – non accetto una sorta di ricatto cui si è spesso sottoposti quando si è sospettati, quasi fosse una colpa, di non volere confondere il doveroso rispetto anche per gli americani con l’ammirazione o magari l’entusiasmo: “Ingrati! Dovreste essere riconoscenti a quel grande Paese che, nel secolo scorso, ha salvato l’Europa almeno due volte”. Si allude, naturalmente, alle due guerre mondiali, nelle quali fu decisivo l’intervento statunitense. Varrà allora la pena di ricordare, almeno a grandi linee, come siano andate davvero le cose: cercare di ricostruire la verità storica e dare a ciascuno il suo non è forse tra i doveri del cristiano? Va detto, innanzitutto, che alla fine del 1916 gli americani rielessero come loro presidente il figlio di un pastore presbiteriano, secondo molti massone (come tutti o quasi i suoi predecessori), Thomas Woodrow Wilson. Lo slogan vincente della sua campagna elettorale era stato: “Vi ho tenuti fuori dalla guerra! “. In effetti, Wilson aveva subito proclamato la neutralità davanti all’incendio scoppiato in Europa nel 1914. Una decisione che piacque agli americani che, perciò, premiarono con un nuovo, trionfale mandato l’uomo che non voleva trascinarli nelle beghe sanguinose di un’Europa poco amata da un popolo la cui maggioranza aveva dovuto fuggire dal Vecchio Continente a causa della miseria o della persecuzione, religiosa e politica. I cattolici erano tra i più contrari alla guerra, soprattutto se a fianco di inglesi e francesi: non solo per amore religioso di pace, ma anche perché il nerbo del cattolicesimo americano era costituito o da irlandesi che non dimenticavano le persecuzioni britanniche o da austriaci, tedeschi o altre etnie dell’Europa centrale che non intendevano combattere contro le loro patrie d’origine. Quanto ai cattolici di provenienza italiana, erano stati ben contenti di affiancare la Penisola nella neutralità ed erano d’accordo con il Papa che definiva quanto stava avvenendo una “inutile strage”. Se gli irlandesi detestavano l’Inghilterra persecutrice, nessun credente amava la Francia, con il suo governo tra i più anticlericali del mondo che da poco aveva sciolto le congregazioni religiose e cacciato frati e suore. Invece, pochi mesi dopo la rielezione, il 6 aprile del 1917, Wilson rinnegava le promesse elettorali e dichiarava guerra alla Germania scegliendo per giunta (per alcuni non fu un caso) la ricorrenza del venerdì santo per la dichiarazione ufficiale. Naturalmente – come avviene dappertutto,ma in particolare negli Stati Uniti – pure quella volta la decisione di scendere in guerra fu ammantata di nobili ideali, a cominciare dal fatto che l’America “madre e custode della democrazia nel mondo” intendeva difendere con le armi quel grande valore minacciato. Motivazione stupefacente: accanto alla Gran Bretagna e alla Francia, combatteva la Russia zarista, cioè uno dei sistemi meno democratici e più totalitari, sino alla barbarie, del mondo intero. Inoltre, sia la Germania che l’Austria-Ungheria erano Paesi parlamentari, con libere elezioni e, tra l’altro, potenti partiti d’opposizione socialisti. Il sistema sociale tedesco a favore degli operai e dei lavoratori era, sin dai tempi di Bismarck, tra i più avanzati. Quanto all’Impero austro-ungarico, la prova della tutela culturale dei molti popoli che ne facevano parte e della loro fedeltà al comune sovrano fu testimoniata dalla compattezza e dal valore con cui quelle sue armate multietniche combatterono sino alla fine. E, come si sa, ci sono ancora molti (anche nelle provincie italiane che ne facevano parte) che sono nostalgici dell’Impero perduto. La propaganda di Wilson insistette pure, per giustificare l’intervento, nel riesumare il siluramento – avvenuto peraltro due anni prima e legittimo secondo il diritto di guerra – del transatlantico inglese Lusitania, sul quale erano morti un centinaio di americani. Non si esitò neppure a sfruttare una delle menzogne più odiose divulgate dagli alleati: l’accusa, cioè, ai tedeschi di mozzare le mani ai bambini belgi. La realtà, era, ovviamente diversa: tra i motivi dell’intervento c’era il timore che la sconfitta dell’Intesa impedisse il rimborso dei grandi prestiti fatti a Inghilterra, Francia, Italia, Russia. Accanto alla pressione dei finanzieri, c’era quella degli industriali nonché degli imprenditori agricoli: i commerci con i tedeschi erano impediti dal blocco della flotta inglese nel Mare del Nord, quelli con gli austro-ungarici dalle flotte francese e italiana nel Mediterraneo. Dunque, le gigantesche esportazioni dell’America ancora neutrale verso l’Europa erano dirette esclusivamente agli Alleati. In caso di loro disfatta (che appariva sempre più probabile) sarebbe ovviamente cessato quel lucrosissimo mercato e nessuno, per giunta, avrebbe pagato i debiti. La stampa americana che, unanime, aveva sostenuto Wilson nel suo neutralismo, cambiò all’improvviso atteggiamento e difese ora, senza esitazioni, il suo interventismo. Una svolta sorprendente che, stando a molti storici, trova spiegazione nella celebre “dichiarazione Balfour”. Questo Lord era il ministro degli esteri della Gran Bretagna: recatosi negli Stati Uniti per cercare di ottenerne l’ingresso nella guerra, dichiarò pubblicamente che, dopo la vittoria, il suo Paese, ereditando la Palestina dall’impero turco, vi avrebbe favorito la creazione di un “focolare nazionale ebraico”. In cambio di quella “dichiarazione” senza la quale, 30 anni dopo, non sarebbe nato lo Stato d’Israele, i trust ebraici americani, che possedevano i media più influenti (i giornali, ma anche le già potenti case di produzione cinematografica) decisero di appoggiare l’intervento. Non mancò neppure la pressione della massoneria, che contava negli Stati Uniti milioni di aderenti. Malgrado le logge inglesi e americane siano contrassegnate meno che le latine dall’anticlericalismo, i “fratelli” anglosassoni vollero manifestare solidarietà ai massoni europei che desideravano la distruzione dell’impero austro-ungaric
o, considerato l’ultimo erede dell’aborrito Sacro Romano Impero e bastione della Tradizione soprattutto cattolica. Qualcuno ha osservato che la storia sembra talvolta avere a che fare con le leggi della fisica: l’Europa era esplosa sotto la pressione di forze interne che dovevano ora trovare un nuovo equilibrio. Ma a questo non si poteva giungere, pur attraverso tanta violenza, se sul “sistema” irrompeva all’improvviso un elemento estraneo come la potenza americana. Questa, facendo pendere il piatto della bilancia da una parte, squilibrava l’Europa, impedendo che i rapporti di forza locali riassestassero durevolmente il continente. Mala pesante mano allungata attraverso l’Atlantico agì anche, forse soprattutto, alla fine della guerra. Sebbene cercassero di trattenerlo, Wilson, caldo di spirito umanitario, volle andare in persona alla conferenza di pace di Versailles: e, qui, con quei trattati sciagurati che vi furono imposti, contribuì in modo forse decisivo a porre le basi per lo scoppio, vent’anni dopo, della seconda guerra mondiale. A Versailles, come si sa, il presidente americano portò i suoi celebri “quattordici punti per una pace giusta”: l’aspetto era edificante e nobile ma in realtà quei “punti” erano un condensato di utopia, di moralismo puritano, di ignoranza della vera realtà europea, di “democraticismo” ridotto a ideologia. In nome, ad esempio, di un astratto “principio di nazionalità” (oltre che dell’odio massonico cui accennammo) si procedette alla distruzione totale dell’impero austro-ungarico, inventando persino Paesi come la Jugoslavia o la Cecoslovacchia che non a caso si sciolsero appena ne ebbero la possibilità. La nascita e l’affermazione del fascismo italiano, che avrebbe fatto scuola nel mondo (senza di esso, lo riconobbe sempre Hitler, non ci sarebbe stato il nazionalsocialismo) furono stimolate da quella che fu chiamata “la vittoria mutilata”. Wilson, infatti, in nome dei suoi schemi di “principio di nazionalità” e di “autodeterminazione”, oltre che di ignoranza della storia e della situazione concreta, favorì le richieste in Istria e Dalmazia, per secoli terre veneziane, di croati e sloveni che pure avevano combattuto sino alla fine con gli austriaci. Come si sa, davanti alla intransigenza ideologica americana, la delegazione italiana abbandonò polemicamente Versailles. D’Annunzio, con un colpo di mano, occupò Fiume, dove inventò tutto l’armamentario che sarebbe stato adottato dal fascismo nascente. Sta di fatto che fu il trattato di Versailles – misto di spirito francese di vendetta e di dilettantismo britannico, ma anche di utopismo e moralismo americani – che permise a Mussolini di ascendere al potere. Ma fu lo stesso trattato, così pesantemente condizionato dagli Stati Uniti, che – con la sua carica di ingiustizia brutale e insieme di ingenuo irrealismo – pose le condizioni perché Hitler conquistasse il potere “democraticamente”, portato al cancellierato con libere elezioni dalla disperazione tedesca. Se questi, a grandi linee, sono i fatti, c’è da chiedersi se – tra 1917 e 1919 – l’America abbia davvero “salvato” l’Europa o se non ne abbia aggravato i problemi, contribuendo per giunta a porre le basi per la tragedia successiva. Quando poi questa giunse, la scelta degli Stati Uniti fu netta: stroncare il totalitarismo nazista ma, al contempo, favorire il totalitarismo marxista. Mai l’Urss avrebbe fermato i tedeschi davanti a Mosca e Leningrado senza l’enorme fiume di materiali, munizioni, viveri, denaro che le giungevano dagli States. E mai i russi avrebbero potuto occupare tutta l’Europa orientale e parte di quella centrale se gli americani non avessero respinto l’invito dei più realisti inglesi: dopo avere sgominato i nazisti, fermare i comunisti almeno nei loro confini, se necessario con le armi. O, più semplicemente, con un semplice avvertimento: solo gli Usa, allora, avevano una potenza nucleare. Mai, poi, gli uomini con la stella rossa avrebbero potuto assurgere alla dignità e al prestigio di giudici della barbarie altrui se gli americani non li avessero voluti in quella Norimberga dove si vide uno spettacolo tragicamente grottesco: Stalin che, virtuosamente, giudicava Hitler. ? verità storica che la potenza militare americana salvaguardò l’Europa dall’aggressione sovietica. Ma è altrettanto vero che il “socialismo reale” non avrebbe raggiunto quella potenza e quello status senza le scelte americane tra il 1941 e il 1948. Insomma, che ciascuno faccia ciò che gli pare: quanto a me, mi guarderò sempre dall’insolentire qualunque popolo, dunque neppure quello americano. Ma neanche accetterò di considerarlo “salvatore” del continente di cui la mia terra è parte”.
Vittorio Messori, Jesus, 2004

La questione palestinese nella Redemptoris Nostri di Pio XII.

I luoghi santi della Palestina
15 aprile 1949.
La passione del nostro divin Redentore, che nei giorni di questa settimana santa si ripresenta come in una viva scena al nostro sguardo, richiama con intensa commozione la mente dei cristiani a quella terra che, prescelta per divino consiglio a essere la patria terrena del Verbo incarnato, e testimone della sua vita e della sua morte, fu bagnata del suo sangue preziosissimo.
Ma quest’anno, al pio ricordo di quei luoghi santi, il Nostro animo è profondamente addolorato, per la loro critica e incerta situazione.
Già nello scorso anno con due Nostre lettere encicliche, vi abbiamo caldamente esortato, venerabili fratelli, a indire pubbliche e solenni preghiere, per affrettare la cessazione del conflitto che insanguinava la terra santa, e ottenere una sua giusta sistemazione, che assicurasse piena libertà ai cattolici, e la conservazione e tutela di quei sacri luoghi.
Poiché oggi le ostilità sono cessate, o per lo meno sono sospese, in seguito agli armistizi recentemente conclusi, Noi rendiamo ardentissime grazie all’Altissimo ed esprimiamo il Nostro sentito apprezzamento per l’opera di coloro che si sono nobilmente adoperati per la causa della pace.
Ma, con la sospensione delle ostilità, si è ancora lungi dallo stabilire effettivamente in Palestina la tranquillità e l’ordine. Infatti, giungono ancora a Noi i lamenti di chi giustamente deplora danni e profanazione di santuari e di sacre immagini, e distruzione di pacifiche dimore di comunità religiose. Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere.
Noi non ignoriamo quanto è stato generosamente compiuto da pubblici organismi e da iniziative private per alleviare la sorte di questa provatissima moltitudine; e Noi stessi, continuando l’opera di carità, intrapresa sin dall’inizio del Nostro pontificato, abbiamo fatto e facciamo quanto è possibile per sovvenire ai loro più urgenti bisogni.
Ma la situazione di questi profughi è così incerta e precaria, che non potrebbe protrarsi più a lungo. Mentre perciò esortiamo tutte le persone nobili e generose a soccorrere secondo le loro possibilità questi esuli, sofferenti e privi di tutto, rivolgiamo un caldo appello a coloro cui spetta provvedere, perché sia resa giustizia a quanti, costretti dal turbine della guerra a lasciare le loro case, non bramano che ricostituire in pace la loro vita.
Ciò che più ardentemente desidera il Nostro cuore e quello di tutti i cattolici, specialmente in questi santi giorni, è che finalmente la pace torni a splendere su quella terra, dove visse e versò il suo sangue Colui che dai profeti fu annunziato come “il Principe della pace” (Is 9,6) e dall’apostolo Paolo proclamato “la Pace” (cf. Ef 2,14).
Questa pace, vera e duratura, Noi abbiamo ripetutamente invocato; e, per affrettarla e consolidarla, già dichiarammo nella Nostra lettera enciclica In multiplicibus “essere assai opportuno che per Gerusalemme e per i suoi dintorni – là dove si trovano i venerandi monumenti della vita e della morte del divin Redentore – sia stabilito un regime internazionale, che nelle attuali circostanze sembra il più adatto per la tutela di questi sacri monumenti”.(2)
Ora non possiamo che rinnovare quella Nostra dichiarazione, che vuole essere anche invito ai fedeli di qualsiasi parte del mondo ad adoperarsi con ogni mezzo legale, affinché i loro governanti e tutti coloro ai quali spetta la decisione di così importante problema si persuadano a dare alla città santa e ai suoi dintorni una conveniente situazione giuridica, la cui stabilità, nelle presenti circostanze, può essere assicurata e garantita soltanto da una comune intesa delle nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui.
Ma è inoltre necessario provvedere alla tutela di tutti i luoghi santi, che si trovano non solo in Gerusalemme e nelle sue vicinanze, ma anche in altre città e villaggi della Palestina.
Poiché non pochi di essi, in seguito alle vicende della recente guerra, sono stati esposti a gravi pericoli e hanno subìto danni notevoli, è necessario che quei luoghi, depositari di così grandi e venerabili memorie, fonte e nutrimento di pietà per ogni cristiano, siano convenientemente protetti da uno statuto giuridico, garantito da una forma di accordo o di impegno internazionale.
Sappiamo quanto i Nostri figli desiderino di riprendere verso quella terra i tradizionali pellegrinaggi, che i quasi universali sconvolgimenti hanno da lungo tempo sospeso. E il desiderio dei Nostri figli si fa più ardente ora, nell’imminenza dell’anno santo; perché è naturale che in quel tempo i cristiani sospirino di visitare quella regione, che fu spettatrice dei misteri della divina redenzione. Volesse il cielo che questo ardentissimo desiderio fosse presto esaudito!
Ma perché ciò si verifichi, bisogna che siano adottate tutte quelle misure che rendano possibile ai pellegrini di accedere liberamente ai vari santuari; compiervi senza alcun ostacolo pubbliche manifestazioni di pietà; soggiornarvi senza pericoli e senza preoccupazioni. Né vorremmo che i pellegrini dovessero provare il dolore di vedere quella terra profanata da luoghi di divertimento mondani e peccaminosi: il che recherebbe ingiuria al divin Redentore e offesa al sentimento cristiano.
Anche le molte istituzioni cattoliche, di cui è ricca la Palestina per la beneficenza, l’insegnamento e l’ospitalità dei pellegrini, dovranno, com’è loro diritto, poter continuare a svolgere, senza restrizioni, quella loro attività, con cui in passato si sono acquistate tante benemerenze.
Non possiamo, infine, non far presente la necessità che siano garantiti tutti quei diritti sui luoghi santi, che i cattolici già da molti secoli hanno acquistato, che hanno sempre decisamente e ripetutamente difeso, e che i Nostri predecessori hanno solennemente ed efficacemente affermato.
Queste sono, o venerabili fratelli, le cose sulle quali abbiamo creduto opportuno richiamare la vostra attenzione.
Esortate perciò i vostri fedeli a prendere sempre più a cuore le sorti della Palestina e a far presenti alle Autorità competenti i loro desideri e i loro diritti. Ma specialmente con una insistente preghiera implorino l’aiuto di Colui che guida gli uomini e le nazioni. Dio guardi benigno il mondo intero, ma specialmente quella terra, bagnata dal sangue del divin Redentore, affinché sopra gli odi e i rancori trionfi la carità di Cristo, che sola può essere apportatrice di tranquillità e di pace.
Intanto, in auspicio dei celesti favori e in attestato della Nostra benevolenza, impartiamo di tutto cuore a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli l’apostolica benedizione.
Roma, presso San Pietro, il 15 aprile, venerdì santo, dell’anno 1949, XI del Nostro pontificato.
Note
(1) PIUS PP. XII, Epist. enc. Redemptoris nostri de sacris Palaestinae locis, (Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes), 15 aprilis 1949: AAS 41(1949), pp. 161-164.
(2) AAS 40(1948), p. 435; EE 6/662.

Martino aveva previsto tutto.

Anche ieri sono morti in Iraq altri 9 soldati americani. Siamo ormai ben oltre i 3000 morti americani, e alcune decine di migliaia di feriti. Ma nulla cambia. E’ interessante allora sentire quanto diceva il cardinal Martino, a nome del Vaticano, nel febbraio 2003. Sembra un profeta, ma non lo è. Bastava la ragione….e la conoscenza storica…
Intervista con l’arcivescovo Renato Raffaele Martino
“Una vera azione preventiva? Evitare la guerra”
Parla il nuovo presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. “La guerra preventiva è guerra di aggressione, non è giustificabile e non risolve nulla. Non bisogna abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena”
di Gianni Cardinale
Dopo sedici anni passati al Palazzo di Vetro di New York, l’arcivescovo Renato Raffaele Martino è stato chiamato a guidare il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dicastero che ha il compito primario di mirare a far sì che nel mondo siano promosse appunto la giustizia e la pace “secondo il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa”. Succede, in questo incarico, a personalità prestigiose come il cardinale francese Roger Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita Fran?ois Xavier Nguy?n Van Thu?n.
Martino ha 70 anni. Originario di Salerno, è entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 e ha lavorato nelle nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e il 1975 ha guidato il dipartimento per le organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. Nel 1980 viene promosso arcivescovo e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei. Nel 1986 diventa osservatore permanente alla sede Onu di New York. ? il terzo ecclesiastico a ricoprire questo incarico, dopo monsignor Alberto Giovannetti e l’arcivescovo, oggi cardinale, Giovanni Cheli.
Nominato il 1� ottobre e insediatosi i primi di dicembre dello scorso anno, l’arcivescovo Martino si è gettato subito a capofitto nel suo nuovo incarico. Ha presentato il messaggio papale per la Giornata mondiale della pace che si celebra ogni capodanno, ha concelebrato la messa solenne del 1� gennaio nella Basilica vaticana e il giorno dopo è stato ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo II. Ha già compiuto degli interventi sulla situazione esplosiva del Venezuela e sul conflitto civile che sta vivendo la Costa d’Avorio. E soprattutto non ha fatto mancare la sua voce su quello che sta succedendo in Medio Oriente. Da qui parte l’intervista che il presule campano ha concesso a 30Giorni.
Eccellenza, come sta seguendo la Santa Sede l’evolversi della crisi irachena, con i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi su Baghdad?
RENATO RAFFAELE MARTINO: C’è grande apprensione. La guerra è distruzione, spargimento di sangue, miseria, espressione di odio. E non risolve niente. Ogni guerra è così. Anche quella annunciata contro l’Iraq.
Eppure un sondaggio condotto a dicembre dall’Università Lemoyne di Syracuse ? Stato di New York ? ha rivelato che i cattolici statunitensi sono in maggioranza favorevoli al conflitto.
MARTINO: Evidentemente si tratta di persone che non hanno mai visto la guerra. Ma se ci sarà l’attacco contro l’Iraq, le conseguenze toccheranno purtroppo anche il popolo americano. E se ne accorgeranno solo dopo, quando vedranno tornare a casa le bare dei propri cari. Perché non cercare di fare veramente di tutto per prevenire questa guerra? Una vera azione preventiva è cercare di non fare la guerra. Del resto la grande manifestazione svoltasi il 18 gennaio a Washington contro la guerra dimostra che anche negli Usa l’opinione pubblica si sta mobilitando e fa sentire la sua voce. Ho saputo che proprio in questi giorni [primi di febbraio, ndr], nell’aeroporto militare di Sigonella sono stati scaricati 100mila sacchi per cadaveri e 6000 bare… Il New York Times poi ha pubblicato un’inserzione di due pagine con l’appello per la pace di intellettuali e artisti che è stato sottoscritto da 45mila persone.
A proposito di manifestazioni pacifiste. Negli ultimi tempi, anche da autorevoli commentatori, viene ripetutamente affermato che il Papa “è per la pace, ma non è un pacifista”…
MARTINO: Di per sé si tratta di una affermazione ovvia. Ma questo non vuol dire che il Papa non sia in sintonia con i tanti cattolici e uomini di buona volontà che manifestano pubblicamente per la pace. Anzi… ricevendo sette nuovi ambasciatori lo scorso 13 dicembre il Papa ha detto: “Volere la pace non è un segno di debolezza, bensì di forza”.
C’è chi ha ipotizzato un suo viaggio, come inviato speciale del Papa, a Washington e Baghdad per scongiurare la guerra. Cosa c’è di vero?
MARTINO: Per ora non è previsto niente di tutto questo. Certo, se la situazione precipitasse, non è da escludere…
Per febbraio, l’ambasciata statunitense presso la Santa Sede ha organizzato un simposio per dimostrare che la cosiddetta “guerra preventiva” è giustificata dal punto di vista della dottrina cattolica. Crede sia possibile questa compatibilità?
MARTINO: No. Le espressioni usate dal Papa nei vari discorsi pronunciati tra dicembre e gennaio sono state chiarissime. Soprattutto in quello al corpo diplomatico del 13 gennaio. A questi discorsi si sono aggiunti interventi di autorevoli esponenti ed organi della Santa Sede che hanno pronunciato in modo univoco un secco no ad ogni ipotesi della cosiddetta “guerra preventiva”. Penso alle dichiarazioni dei cardinali Angelo Sodano e Camillo Ruini, a quelle dell’arcivescovo Jean-Louis Tauran, alla Radio Vaticana, all’Osservatore Romano, alla stessa Civiltà Cattolica che ha dedicato ben due editoriali [quelli del 2 novembre 2002 e del 18 gennaio 2003, ndr] a confutare in linea di principio la fondatezza morale e giuridica della cosiddetta “guerra preventiva”. Ed è bene ricordare che tutti questi interventi non sono stati fatti a titolo personale, né poteva essere altrimenti. La “guerra preventiva” è una guerra di aggressione, non giustificabile dal punto di vista morale e del diritto internazionale. Per intervenire bisogna avere le prove e la guerra deve essere sempre l’ultima ratio, “nel rispetto di ben rigorose condizioni”, come ha esplicitamente ricordato il Papa ai diplomatici il 13 gennaio. Continuava Giovanni Paolo II: “Né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari”.
Eppure si afferma che queste prove esistono.
MARTINO: Non c’è la dimostrazione chiara e lampante che l’Iraq sia tra i responsabili del terrorismo internazionale. Né che sia dotato di armi di distruzione di massa tali da costituire un pericolo imminente per l’umanità. Se ci sono prove serie in questo senso sarebbe bene che venissero prodotte. Come fece ai tempi di John Kennedy l’ambasciatore Usa presso l’Onu, Adlai Stevenson, quando rese pubblici ventisei fotogrammi che documentavano la presenza di missili sovietici a Cuba. Altrimenti affermazioni di questo genere hanno lo stesso valore di quelle contrarie. Gli ispettori dell’Onu in base alla risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza sono là proprio per accertare l’eventuale presenza di armi di distruzione di massa, per distruggerle o renderle inoffensive.
Anche in occasione della guerra del Golfo del ’91, la Santa Sede espresse la sua contrarietà. Quali sono le differenze tra allora e oggi?
MARTINO: All’epoca c’era stata l’invasione di uno Stato sovrano, il Kuwait, e almeno dal punto di vista del diritto internazionale poteva essere considerata giustificata. Oggi no. Credo che non si debba abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena, come indicato chiaramente nella risoluzione 1441. Quando infatti a decidere non è solo uno Stato ma più governi, è più facile che le soluzioni adottate siano accurate ed eque.
Comunque dopo gli attacchi dell’11 settembre è necessaria una risposta da parte della comunità internazionale…
MARTINO: Certamente. Ma, come ha scritto La Civiltà Cattolica nel suo ultimo editoriale, gli strumenti più adatti a combattere il terrorismo sono la diplomazia e l’intelligence. E non la guerra. E poi bisogna sempre ricordare che per eliminare il fenomeno terribile del terrorismo non basta rendere inoffensivi i singoli terroristi. Bisogna anche che i Paesi ricchi si mettano una mano sulla coscienza e riconoscano quanta responsabilità hanno nei confronti di quelle società, i cui giovani vivono un presente terribile e non hanno una speranza ragionevole per un futuro più dignitoso, anzi sono senza futuro, tanto che per loro vivere o morire è la stessa cosa. Il vivaio del terrorismo si trova in quelle realtà in cui domina la povertà, dove le promesse non sono state mantenute. Penso soprattutto alla situazione permanentemente esplosiva che vive la Terra Santa. La delusione per le promesse non mantenute è grande e non sempre si risolve in rassegnazione… Del resto, quando i Paesi ricchi si atteggiano a donors, anche con le migliori intenzioni, a malapena con quel che donano pagano gli interessi sui debiti accumulati con centinaia di anni di sfruttamento di quelli rimasti poveri.
Alcuni analisti affermano che il terrorismo odierno sia il frutto del fanatismo religioso…
MARTINO: Assolutamente no. Allora dovremmo definire terroristi anche quanti uccidono i medici che procurano gli aborti volontari ? e negli Stati Uniti ci sono stati casi di questo genere ? col paradosso di poter accusare di filoterrorismo anche i semplici pro-life che non hanno commesso alcun delitto… Il fanatismo, il fondamentalismo si trovano dappertutto. Ma non hanno niente a che spartire con la vera religione, col Vangelo, con il Corano, con la Torah. Si tratta di aberrazioni, strumentalizzabili, che si possono trovare in ogni religione.
Quindi non condivide la teoria dello scontro tra civiltà del professor Samuel Huntington…
MARTINO: Il conflitto tra civiltà è possibile, ma come fatto culturale, non religioso. Bisogna distinguere bene le cose. Comunque per evitare questo scontro l’Onu promuove il dialogo tra le civiltà e lo ha fatto con una risoluzione proposta dall’Iran.
Prima di chiederle della sua esperienza al Palazzo di Vetro, un’ultima domanda riguardante il suo nuovo incarico. Lo scorso anno sembrava imminente la pubblicazione, da parte del dicastero che ora presiede, di un compendio della dottrina sociale della Chiesa. A che punto siamo?
MARTINO: Penso che ci sarà un ritardo, dovuto alla mia nomina. Ovviamente non posso firmare nulla che non abbia letto, studiato, corretto. Ci vorrà ancora un po’.
Pensa potrà essere pubblicato nel 2003?
MARTINO: Dipende dal tempo che potrò dedicarvi.
Eccellenza, come può descrivere, in sintesi, il ruolo della Santa Sede nell’Onu?
MARTINO: Bastano poche parole: difesa della vita, difesa della famiglia, difesa della libertà religiosa, azione incessante per la pace nel mondo.
Qual è il ricordo meno piacevole dei 16 anni passati a New York?
MARTINO: Il ricordo più sofferto fu quello legato alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove si ebbe uno scontro molto duro con diverse delegazioni, tra cui quella Usa, la quale spingeva affinché l’aborto fosse riconosciuto come un diritto universale. Uno degli esperti statunitensi, poi, l’ex senatore Tim Wirth, ebbe anche atteggiamenti arroganti e irrispettosi. E la mia non è una valutazione esclusivamente soggettiva. Basta leggersi, a riguardo, le memorie dell’allora ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Raymond Flynn, pubblicate di recente.
Il ricordo più lieto?
MARTINO: ? sempre legato alla Conferenza del Cairo perché alla fine, con l’appoggio di oltre quaranta delegazioni, riuscimmo a far passare nel documento finale il famoso articolo 8.25 in cui si stabilisce che l’aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Un principio che ha resistito in questi nove anni, nonostante i circoli abortisti abbiano cercato di annullarlo nelle conferenze successive.
Comunque l’attività della Santa Sede non si è “limitata” ai temi riguardanti l’aborto e la contraccezione…
MARTINO: La difesa della vita non riguarda solo la giusta e sacrosanta lotta contro l’aborto. Un altro dei punti qualificanti della presenza della Santa Sede all’Onu è quello di promuovere il disarmo, di appoggiare i tentativi di ridurre il debito estero dei Paesi più poveri e ovviamente la promozione della pace.
Periodicamente hanno un certo risalto sulla stampa le richieste da parte di alcune Ong di espellere la Santa Sede dall’Onu. Si tratta solo di gesti goliardici?
MARTINO: Talleyrand diceva: “Calunnia, calunnia, qualcosa resta”. I gruppi Ong non incidono sulla posizione degli Stati membri. Anzi. Il Congresso Usa, ma anche il Senato cileno e quello filippino, hanno approvato risoluzioni in favore della presenza e del ruolo della Santa Sede nell’Onu e sulla scena internazionale. Questi gruppi comunque hanno una loro pericolosità perché possono influenzare l’opinione pubblica godendo di cospicui finanziamenti da parte di grandi fondazioni. Bisogna stare quindi molto attenti…
La Santa Sede sta pensando di elevare il suo status a membro effettivo dell’Onu?
MARTINO: Vi ha accennato lo stesso cardinale segretario di Stato Angelo Sodano. La questione è allo studio. Attualmente la Santa Sede è l’unica realtà statuale ad avere lo status di osservatore, fino a pochi mesi fa c’era anche la Svizzera. Se vi sarà adesione piena, questa sarà ovviamente nel solco del magistero dei pontificati del secolo scorso. Pensi che lo stesso Benedetto XV era favorevole all’ingresso della Santa Sede nella Società delle Nazioni, ma all’epoca fu l’Italia ad opporsi a questa eventualità. La questione romana non era stata ancora risolta…
Lei ha conosciuto tre segretari generali dell’Onu. Può tracciarne un breve ricordo?
MARTINO: Il primo è stato Pérez de Cuéllar. Rammento che dopo aver avuto due mandati poteva ottenerne un terzo, e gli chiesi se avesse pensato a questa opportunità. Mi rispose: “? meglio chiudere in bellezza…”. In effetti con lui l’Onu riuscì a riportare la pace in alcuni Paesi centroamericani, come il Guatemala, il Salvador e il Nicaragua.
Poi è stata la volta di Boutros-Ghali.
MARTINO: Ghali è sempre stato molto vicino alle posizioni della Santa Sede. Forse avrebbe meritato un secondo mandato. Ma, come è noto, non godeva più della fiducia degli Stati Uniti…
Infine Kofi Annan.
MARTINO: Persona squisitissima, che nonostante le difficoltà ha saputo finora affrontare positivamente i momenti di crisi in Iraq coagulando il multilateralismo e l’interdipendenza. La sua opera in questo senso è apprezzata da tutti. E poi è un vero credente e in particolare confida nell’efficacia della preghiera. A questo proposito vorrei raccontare un episodio illuminante.
Prego.
MARTINO: Erano i primi mesi del 1998, e anche allora spiravano venti di guerra verso l’Iraq. Gli ispettori sarebbero andati via, non cacciati, su iniziativa del loro capo, il signor Richard Butler. Ricordo che un sabato mattina ricevetti una telefonata del cardinale Sodano, il quale mi manifestava la preoccupazione del Papa per la situazione e mi chiedeva di contattare Annan per incoraggiarlo, a suo nome, a recarsi a Baghdad. Tutti ritenevano infatti che un viaggio del genere avrebbe fatto rientrare la crisi. Il giorno dopo, domenica, era in programma la messa del compianto cardinale O’Connor, l’allora arcivescovo di New York, per la celebrazione della Giornata della pace, alla quale avrebbe partecipato anche Annan. Approfittai dell’occasione per comunicargli oralmente il messaggio del Pontefice. Mi rispose che al momento non c’erano le condizioni per andare a Baghdad, mancando il consenso nel Consiglio di sicurezza, ma aggiunse che, siccome era il Papa a chiederlo, avrebbe fatto un ulteriore tentativo. Il mercoledì seguente, a sorpresa, Annan mi telefonò, e mi disse: “Domani parto, però chieda al Santo Padre di pregare per questa mia missione”. Annan si recò a Baghdad, parlò con Saddam ? senza arroganza ? e la crisi rientrò. Ma il fatto più commovente fu che all’uscita di quel colloquio decisivo, Annan disse pubblicamente: “Non bisogna sottovalutare il valore della preghiera”. E la stessa frase la ripetè giorni dopo al Palazzo di Vetro.
Cosa le ha detto Annan prima di lasciarla partire per Roma?
MARTINO: Mi ha salutato con questa parole: “Quanto mi dispiace che parta, perché quando vedo lei mi rassicuro, in quanto so che è una persona che prega per me”.
E lei cosa ha risposto?
MARTINO: L’ho rassicurato: “Non si preoccupi, continuerò a pregare per lei. E anche il mio successore, Celestino Migliore, lo farà”. (“30 Giorni”, febbraio 2003)

I Longobardi e il sacrificio rituale.

Nel 568 l’Italia subisce l’ennesima invasione: poche migliaia di Longobardi, “la più feroce delle genti germaniche”, invadono il paese, già prostrato dalla durissima guerra greco-gotica. Seguono saccheggi, devastazioni, pestilenze. A guidarli è il terribile Alboino, il re che ha sconfitto i Gepidi e che si è fatto una coppa col cranio del suo nemico, Cunimond. Il loro dio è Odino, figura assai utile per un popolo di migratori, coinvolti in uno stato di guerra permanente. Qual è la cultura longobarda? Assomiglia a quella degli altri popoli germanici: hanno un diritto molto barbarico, risolvono i conflitti tramite i giudizi di dio o sacri duelli, praticano l’antropofagia rituale e l’immolazione dei teschi agli dei…Sono per lo più politeisti, o ariani, di recente conversione. Sappiamo, ad esempio, che il duca di Benevento, intorno al 660, adora un idolo raffigurante una vipera, e partecipa ad una cerimonia intorno ad un albero, che si conclude con un pasto sacro, solitamente di animale. Questo albero sacro è testimoniato anche presso altri popoli germanici: i Sassoni adorano l’Irminsul, un tronco che funge da sostegno simbolico dell’universo, universalis columna quasi sustinens omnia. Accanto ad esso appendono uomini e animali immolati ad Odino, oppure “bruciavano uomini come stregoni o li mangiavano”. Il popolo longobardo si converte al cattolicesimo nel 603, grazie alla regina Teodolinda, figlia del duca cattolico di Baviera, e moglie del re Autari. Nel 643 il re Rothari emana il celebre “Edictum langobardorum”, davanti ai suoi guerrieri che percuotono gli scudi in segno di approvazione. Possiamo notare, in esso, la prima presenza dell’influenza cattolica e romana. Nell’editto, infatti, si legge, in latino, la seguente affermazione: “per menti cristiane non è possibile che una donna possa mangiare un uomo vivo….(hominem vivum comedere)”. Per la prima volta viene così condannata una usanza presente presso longobardi, sassoni, franchi, alamanni e visigoti prima della conversione: quella di uccidere delle donne accusate di divorare gli uomini. Iniziano così pian piano a scomparire, o forse sarebbe meglio dire a diminuire, due terribili consuetudini: le pratiche cannibalistiche a scopo magico, e l’uccisione di donne accusate, non sempre a torto, di simili azioni. Inoltre Rothari, rimanendo fedele, in questo, alle tradizioni del suo popolo, vieta alle donne longobarde di “donare o vendere alcuna cosa”, in opposizione alla legge cristiana (Codice di Teodosio), che invece aveva liberato le donne romano-cattoliche da ogni tutela, permettendo loro di donare o vendere senza l’autorizzazione di alcuno. La svolta cristiana è segnata soprattutto dal re longobardo Liutprando, rex christianus e catholicus, che introduce disposizioni punitive nei confronti della stregoneria, delle arte divinatrici, stabilisce la legittimità della liberazione dei servi affrancati circa sacrum altarem, impone leggi a tutela della donna, dei minori, dei servi. Il matrimonio longobardo, infatti, consisteva in una compravendita della donna, considerata semplicemente una cosa, mentre Liutprando introduce il principio della sacralità del matrimonio e il rito dell’anello nuziale con il quale l’uomo “impegna la donna e la fa sua”. Così, gradualmente, un popolo barbaro diviene cattolico, e civile. Così, soprattutto, cessa di praticare i sacrifici umani e l’antropofagia. Sacrifici che oggi possono scandalizzare l’uomo post-cristiano, che non si avvede di essere, in verità, anch’egli promotore di una forma secolarizzata di schiavitù e di omicidio rituale: l’aborto e la clonazione. E che invece non indignano lo storico, che sa come tutti i popoli dell’antichità, prima di Cristo, avevano tali consuetudini, che fossero cretesi, greci, romani, aztechi o germanici….Se lo storico sa che le cose stavano così, l’uomo di fede conosce il perché. Che mi sembra questo. Gli antichi sacrificavano agli dei perché intuivano l’esistenza di una colpa primitiva, e credevano coi sacrifici di scontare i loro peccati, di propiziare la divinità, vista come un Padrone esigente, terribilmente giusto, sempre da placare. Solo il cristianesimo avrebbe insegnato all’umanità che la colpa primitiva si chiama peccato originale; che l’incommensurabilità tra Creatore e creatura implica l’incapacità di una sacrifico, persino umano, di gratificare Dio; che Dio, infine, non è padrone, ma Padre, giusto, ma anche misericordioso, che non chiede, per sé, sacrifici, ma che offre se stesso in sacrificio. Così da Cristo in poi l’unico sacrificio “perfetto e a Dio gradito” è quello della Santa Messa.

Vivaio di Messori….

Riporto l’ultimo Vivaio di Messori, interessante come sempre: “Ho sempre avuto il sospetto che i cattolici avrebbero qualcosa da imparare da Pannella Giacinto detto Marco e dai suoi radicali.
Aspettate, per favore, prima di scandalizzarvi. In effetti, sono del tutto consapevole che quell’ abruzzese ormai più vicino agli ottanta che ai settanta ( i digiuni, anche se simulati, fanno bene alla salute ) risponde a molte delle caratteristiche di un ” anticristo ” così come è delineato da scrittori credenti alla Benson . L’anticristo, cioè, in doppio petto , dal volto umano , dalle apparenze evangeliche, astuto nel nascondere gli artigli sotto un guanto di pacifismo, di buonismo, di non violenza. Un ” diavolo ” che predica l’amore , che si dice accanto ad ogni sofferente, che si batte per la libertà e per i diritti di tutti. Talvolta ha tentato di coinvolgere anche me , strumentalizzando il ” cattolico ” che sono col coinvolgermi nelle sue infinite iniziative. Naturalmente è stato mandato a quel paese, ma devo avvertire che il torrente di parole delle sue telefonate era talmente suadente , i suoi argomenti tanto apparentemente evangelici che altri , meno scafati, ci sarebbero cascati.
A differenza di quanto credono quelli che vedono il rosso dappertutto , i radicali non hanno nulla a che fare con i comunisti : questi ultimi, spesso , vengono strumentalizzati anch’essi ma il radicalismo è liberalismo, seppur di sinistra , è individualismo , rappresenta cioè il contrario dell’utopia comunitaria comunista. In questa prospettiva, ogni desiderio deve diventare un diritto, ogni capriccio ha diritto di cittadinanza , ogni legge morale va scardinata perchè oppressiva , ogni verità deve far posto alla infinità delle opinioni, tutte egualmente rispettabili anche se aberranti e asociali.
Storicamente , il radicalismo è stato espressione della piccola, talvolta grande, borghesia, quella che assai spesso si riuniva nelle logge massoniche. Ma , nell’accezione panelliana , non ha neppure più lo schema etico – di derivazione cristiana – che sorreggeva , malgrado tutto, la prospettiva dei ” liberi muratori ” all’antica. Il libertarismo radicale , l’individualismo ossessivo portano, lo si voglia o no, al nichilismo.
Sta di fatto che , scrivendo nel 1982 Scommessa sulla morte , prevedevo ( e non perché fossi profeta ma perchè c’è, nelle cose, una logica ineluttabile ) che dopo divorzio e aborto sarebbe seguita l’eutanasia . E che, ancora una volta, le cose – pur inserite in un trend che coinvolge tutto l’Occidente postcristiano – sarebbero state accelerate dall’attivismo radicale. Ci sono voluti 25 anni ma ecco che ci siamo, ecco che Pannella strumentalizza il caso di un povero invalido, come già aveva strumentalizzato le vittime dell’incidente chimico di Seveso per la legalizzazione dell’aborto o aveva taroccato, per il divorzio, le statistiche dei reati commessi in famiglia . Ma questa ” collana gloriosa con tre gemme “, come la chiamano loro , non è che la più appariscente, visto che ci sono i radicali dietro a tutte le campagne libertarie di questi decenni : alcune , va riconosciuto, anche comprensibili e magari – in qualche caso – addirittura meritorie . E’ avvenuto, ad esempio , per certe vittime del giustizialismo giacobino di una certa magistratura . Ma , in maggioranza , sono state, e sono, campagne permeate da una visione dell’uomo , della società, della storia che poco o nulla hanno a che fare – magari malgrado le apparenze – con la prospettiva cristiana . E cattolica in particolare.
Non entro qui, in altri particolari . Qui, ciò che mi importa è solo giustificare una convinzione : ci sarebbe, cioè, da imparare dalla forsennata, instancabile , totalitaria dedizione del Giacinto-Marco alla sua Weltanschauung. Come credenti , in questa fine di cristianità di massa e di dissoluzione della religiosità sociologica , dobbiamo riprendere sul serio il ruolo assegnatoci dal vangelo e di cui ci siamo spesso dimenticati : il granello di senape, il piccolo gregge, il pizzico di sale, il misurino di lievito. Dobbiamo essere consapevoli che, per vocazione siamo minoritari . Ma dobbiamo anche renderci conto che si può essere minoritari senza essere marginali.
Questa è, occorre riconoscerlo, la lezione impartitaci da un Pannella che – sorretto soltanto da un piccolo gruppetto, con pochi mezzi, un’organizzazione risibile rispetto a quella dei grandi partiti, senza media propri ma riuscendo ad attrarre quelli degli altri – ce l’ha fatta più e più volte a imporre all’intero Paese l’agenda a lui gradita. Quel teramano ci ha dato conferma di una realtà che ben conoscono gli storici : nel bene e nel male, le cose sono decise e imposte da minoranze attive, decise , spregiudicate che finiscono col trascinare dietro di loro le masse, spesso amorfe e conformiste . Non fecero così anche quei quattro gatti, ma fanaticamente motivati, dei giacobini, che inocularono nella storia dei virus che ancora agiscono e sono anzi divenuti patrimonio comune di tutto l’Occidente ? Sicuramente altrettanto minoritari anche i radicali italiani , ma di certo non marginali. Come confermano in questi mesi, per l’ennesima volta, con la campagna – tanto cinica quanto instancabile – per la cosiddetta ” buona morte “.
E’ un esempio sul quale noi credenti dovremmo riflettere , magari per impararne le tattiche e le strategie , naturalmente in quanto hanno di lecito in una dimensione di fede. Uso, comunque il condizionale . La nostra riflessione, infatti, dovrebbe centrarsi innanzitutto sulla difficoltà maggiore : i pochi possono trascinare i molti , certo; ma solo se quei pochi hanno un pensiero , una prospettiva, una visione del mondo , una passione di convincere . Proprio ciò che manca , ormai da decenni, a troppo cattolicesimo , ridottosi a una melassa che ricicla, per giunta in ritardo e con un surplus di moralismo e di sentimentalismo , il pensiero egemone politicamente corretto. Bien penser pour bien agir , diceva Pascal : è il pensiero che guida l’azione . Solo l’ortodossia può sorreggere l’ortoprassi. Ma quale è il pensiero di troppi di noi , che dovremmo riscoprire e realizzare la nostra vocazione di sale, di lievito ?
Diciamocelo chiaro : non è marginale , oltre che ormai minoritaria, buona parte della stampa che ancora viene detta e si dice ” cattolica ” e che non sa far altro che ripetere la vulgata del conformista ” corretto ” , un brodino tiepido e insipido che non può di certo suscitare energie ma indurre alla sonnolenza ? Come e quanto incidono sul vissuto le 25.000 omelie pronunciate in Italia ogni domenica ? Come riscoprire quel che un tempo si chiamava, e deve ritornare a chiamarsi apostolato , se il kérygma non c’è più , se nulla di appassionante , di chiaro, di preciso sappiamo annunciare ? Come passare dalla difesa, spesso lagnosa e vittimista, all’azione che fermenti la società, se non a riusciamo a proferire altro che moralismi ed auspici edificanti quanto impotenti , roba da messaggio di fine anno di Presidente della Repubblica ?
Da questi ” scristianizzatori ” che sono stati, e tuttora sono , i radicali dovremmo imparare molto quanto alle tecniche ; ma imparare prima di tutto che queste sono inutilizzabili se manca il messaggio chiaro e forte che queste tecniche devono sorreggere e diffondere.
XXXXXX
A proposito di quella mentalità ” da piccolo gregge ” che dobbiamo acquisire , volenti o nolenti . Vedo l’ultima edizione del Leading Catholic Indicators, una sorta di periodico manuale statistico della Chiesa americana. Le cifre sono implacabili . Per scegliere qualche esempio tra i moltissimi e per limitarsi all’ educazione, si scopre che i seminaristi dei Fratelli delle Scuole Cristiane erano 912 nel 1965 e l’anno scorso erano ridotti a 6, dicesi sei ; che i Gesuiti sono scesi nello stesso periodo da 3.559 a 389; che in vent’anni è stata chiusa negli Usa la metà delle scuole cattoliche, con una discesa degli studenti da oltre 700.000 a 300.0000 .
Ma , forse, è meglio così : non dimentichiamo mai che è molto meglio non sapere che sapere in modo sbagliato. In effetti , si riportano i risultati dei sondaggi quanto ai contenuti. Si scopre così che solo il 10 per cento degli insegnanti di religione ( anche se frati e suore ) segue l’insegnamento della Chiesa , che la grande maggioranza ammette la liceità di divorzio , di aborto, di omosessualità. Non sorprende, dunque che – stando questa volta a un’inchiesta del New York Times – il 70 per cento di coloro che in America si dicono Roman Catholics consideri l’eucaristia solo a Jesus simbolic reminder , un ricordo simbolico di Gesù. Ancor meno, cioè, della prospettiva del protestantesimo classico.
La crisi della Chiesa , non ci stancheremo di ripeterlo, non è una crisi di strutture ; e una crisi di fede.
XXXXX
Impiccagione di Saddam Hussein . La goffaggine dei registi dell’operazione- gli americani – riesce addirittura a farci sentire compassione per quel tiranno brutale e sanguinario, abbandonato impotente a carnefici incappucciati e manifestamente lieti di mettergli al collo un capestro di dimensioni impressionanti. Sono volontari , hanno insistito per fare i boia . C’è sempre qualcosa di sconcio negli eroi di ogni piazzale Loreto , in coloro che scalciano contro chi è cascato per terra. << Giustizia è fatta >> , dice il presidente Bush in abiti sportivi, lasciando per un attimo la partita di golf cui è intento nella tenuta di campagna.
Oddìo, una strana giustizia : l’impiccato era considerato responsabile di 300.000 morti, ma sono più del doppio, e aumentano ogni giorno, i morti provocati dagli invasori yankees , legittimati da ” armi di distruzione di massa ” che in realtà non c’erano. Poichè, nel sotterraneo di Baghdad dove è stato appeso Saddam , le forche erano due, è forte la tentazione di pensare che all’altra poteva esserci una corda per chi di morti ne aveva fatto 600.000, in nome di una menzogna.
Ma strana giustizia anche per quanto osservato da un liberale equilibrato e non fazioso come Sergio Romano, già ambasciatore a Washington , oltre che a Mosca . Negli anni Novanta del secolo scorso , un gran numero di nazioni ha creato il Tribunale penale internazionale , istituito per giudicare i politici caduti in disgrazia e considerati rei di ” delitti contro l’umanità “. Lasciamo pur stare le perplessità e i sospetti che suscitano queste iniziative : per fare un solo esempio, si processa un serbo che non conta nulla, ma chi si sogna di portare in giudizio la Nomenklatura cinese , pur composta ancora da molti compici degli orrori di Mao ? Chi ha chiesto la consegna di altri complici, quelli di Stalin ma anche di Kruscev e di Breznev, dopo la caduta dell’Urss ?
Lasciamo stare, dicevo. Dobbiamo pur saperlo che solo gli stracci vanno per aria. Torniamo, piuttosto a Sergio Romano, che ricorda come proprio gli americani abbiano rifiutato di ratificare quel Tribunale internazionale non per il cattivo odore di ipocrisia che emana , ma perchè non vogliono che un giorno un qualche loro militare possa sedere sul banco degli accusati. Tutti sono giudicabili e condannabili. Tutti, ma non gli yankees : la Old Glory, la bandiera a stelle e strisce, è immacolata . E che nessuno si permetta di processare chi sta sotto a quello stendardo : sinonimo, lo si sa, di cristallina democrazia e di generosa umanità. Come si vide , del resto, anche a Norimberga , dove ( lo ricorda lo stesso Romano ) americani e russi si accordarono previamente , stabilendo che gli imputati tedeschi non avrebbero avuto il diritto di accusare le potenze vincitrici di avere commesso gli stessi crimini . Condanna inesorabile, dunque, per il bombardamento germanico di Coventry , ma divieto di ricordare gli orrori di Dresda, Amburgo, Hiroshima, Nagasaki. Orrore per i lager nazisti, ma vietato parlare di quelli sovietici o anche di quelli americani dove , dopo la resa della Germania, si lasciarono morire di fame e di stenti decine di migliaia di prigionieri tedeschi, chiusi dietro a reticolati su campi aperti, senza alcun riparo né servizio. Lo stesso Joseph Ratzinger ha raccontato, nelle sue memorie, che cosa fossero questi campi americani in cui – seppure per poco tempo , per fortuna sua e nostra – fu rinchiuso giovanissimo con la sua divisa raffazzonata ( mancava ormai la stoffa ) della Flak, la contraerea tedesca
Insomma , come dice Bush , con l’impiccagione dell’odiato Saddam , davvero << giustizia è fatta >>.
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I pastori luterani , in Danimarca, sono funzionari pubblici, secondo il concetto protestante di Chiesa di Stato. Alcuni di quei pastori sono gay , o lesbiche , e convivono nelle case canoniche con i loro compagni e compagne. Molti sono i divorziati risposati . Gli altri hanno ” regolare ” moglie e, naturalmente, figli.
Proprio questo è il problema . Il sindacato dei pastori ( hanno anche questo ) da tempo è in trattative serrate col ministro del culto, che è il loro datore di lavoro , per avere libero il week end . O, almeno, la domenica . Ma non è proprio quello il ” giorno del Signore “, quello in cui maggiore deve essere l’impegno dell’uomo di Chiesa ? D’accordo, concedono i rappresentanti di quei funzionari clericali , ma anche noi teniamo famiglia, moglie e figli si arrabbiano se non siamo liberi, nel fine settimana, di fare come ogni altra famiglia. Tutt’al più , i sindacalisti sono disposti a un compromesso , simile a quello dei farmacisti, dei tabaccai, degli edicolanti : qualche tempio aperto ” per turno ” alla domenica . Comunque, niente di drammatico : è da molto che , in quei templi luterani , di danesi non se ne vede praticamente nessuno. Del resto, che ci andrebbero a fare ? Il culto protestante, lo si sa, consiste in un sermone : ma quale predica può venire da simili pulpiti ?
Vittorio Messori

Enrico VIII e la nascita del capitalismo selvaggio anglosassone

Dopo la guerra dei cento anni, l’Inghilterra vive una guerra civile, detta delle due Rose, tra la famiglia dei Lancaster, che ha come simbolo una rosa rossa, e quella degli York, che ha come simbolo una rosa bianca; un quarto della popolazione perisce. Enrico Tudor, discendente dei Lancaster, la spunta e concilia le due famiglie sposando una York, Elisabetta. Diviene Enrico VII, che darà fiducia ad un navigatore italiano, Giovanni Caboto, che nel 1497 sbarcherà in Canada.

 Cuore del regno è Londra, con 100.000 abitanti circa, scalo di mercanti di ogni paese. Caterina D’Aragona, figlia di Ferdinando e Isabella, re di Spagna, viene destinata, ancora piccola, a lasciare la sua terra per andare nell’"isola delle nebbie" e sposare Arturo, primogenito di Enrico VII. Controvoglia Caterina obbedisce ma Arturo muore dopo soli cinque mesi di matrimonio. Enrico, secondogenito, diviene erede al trono: dopo la morte del padre diviene Enrico VIII. Enrico VIII è l’opposto del padre: spendaccione, ama i divertimenti , la caccia, i gioielli, i tessuti, i grandi banchetti…; è alto, forte, possente, prima di diventare grasso e lardoso…nel 1509 sposa Caterina D’Aragona, precocemente invecchiata e intristita, che non riesce a dargli un figlio maschio: gli muoiono 5 figli, nasce solo una femmina, Maria.

Enrico VIII è affiancato da Wolsey, un astuto popolano, figlio di un macellaio, che si dimostra disposto ad ogni bassezza: in cambio viene nominato Cancelliere e il re gli ottiene anche un alto ruolo ecclesiastico. Infatti Enrico VIII vuole controllare anche la Chiesa, nominando lui, al posto del papa, i vescovi, gli abati dei monasteri…Ciononostante si dichiara avversario di Lutero e scrive addirittura un saggio contro di lui. Lutero allora gli invia una lettera, in cui cerca di lusingarlo: l’ex monaco agostiniano ha bisogno di principi e di re per combattere Roma. In Germania ha ottenuto l’appoggio di alcuni feudatari che avevano visto nell’adesione al protestantesimo il modo per staccarsi dall’Imperatore, Carlo V, che era cattolico, e per entrare in possesso dei beni della Chiesa cattolica, espropriandoli. Ma Enrico VIII non ha ancora deciso il suo futuro religioso: per ora si scaglia nuovamente contro Lutero, deplorando il suo matrimonio con l’ex monaca Caterina von Bora. Sul fronte amoroso, intanto, è inquieto: ha parecchie amanti, tra cui Maria e Anna Bolena.

Di quest’ultima decide di diventare lo sposo: per questo richiede, inutilmente, al papa che dichiari nullo il suo matrimonio precedente. Intanto Wolsey, dopo aver fedelmente servito, viene tolto dai piedi e sostituito con Tommaso Moro, un uomo conosciuto da tutti per la sua integrità di giudice. Ma è Cromwell, un ex usuraio, la nuova anima nera del re: lo consiglia di proseguire nella sua volontà di ripudiare Caterina e lo spinge sulla strada dello scisma. Così, gli dice, potrai sposare Anna Bolena, poi diventare capo della nuova chiesa inglese, la chiesa anglicana, ed esproprierai i beni della Chiesa di Roma, vescovadi, abazie, monasteri…Il popolo inglese è in buona parte contrario a questi progetti: Anna è odiata e considerata una prostituta e una strega, tanto che in una occasione 5-6000 donne assaltano il palazzo dove la Bolena è rinchiusa per ucciderla. Ma l’opposizione viene domata; Fisher e Moro vengono condannati a morte per non aver pubblicamente riconosciuto la giustezza dell’operato del re; frati e monaci vengono impiccati, affogati e poi squartati: le loro membra vengono messe agli angoli delle strade di Londra; la testa di Moro, appesa su una picca, viene esposta sul ponte di Londra ma presto tolta per evitare le processioni di ammiratori. Intanto nel 1533 Anna, che si è sposata col re sancendo la rottura con Roma, partorisce una bimba: Elisabetta.

 Nel 1534 il Parlamento proclama l’Atto di supremazia: nasce ufficialmente la chiesa anglicana, guidata dal re. E’ una chiesa nazionale di Stato, "l’Inghilterra che celebra se stessa": è fortemente nazionalista, in quanto i confini della fede coincidono con quelli dello stato e il capo della chiesa coincide col capo dello stato; profondamente antipapista, in quanto riprende la polemica luterana contro il papa considerato l’anticristo, e, di conseguenza, profondamente avversa ai due paesi cattolici per eccellenza, la Spagna e l’Italia. Nasce così l’Inghilterra moderna, quella che si espanderà schiacciando sempre di più, senza alcuna pietà, l’Irlanda cattolica, in parte sottomessa già dal XII secolo, e la Scozia, le sue colonie "domestiche", e poi creando a poco a poco l’"Impero su cui non tramonta mai il sole", dall’Australia, all’India all’America; nasce l’Inghilterra patria del capitalismo più spregiudicato, della pirateria che assale i galeoni spagnoli e portoghesi, con la compiacenza dei sovrani; dei trafficanti di schiavi che elimineranno i pellerossa e riempiranno il Nord America di neri schiavizzati, per poi privarli di ogni diritto, persino di quello di sedere sull’autobus, insieme ai bianchi, fino a Novecento inoltrato; dei venditori di oppio, che faranno i loro affari in Cina devastando la popolazione locale…

Di questa nuova mentalità, in cui l’uomo viene sacrificato al denaro in nome della "libertà", in cui il lavoro, esattamente come avverrà poi nell’ideologia marxista, diviene l’unico valore assoluto, sono protagoniste la nobiltà e la borghesia anglicana, che hanno abbracciato il nuovo credo, e che Enrico VIII ha ricompensato e legato a sé elargendo i beni e le terre della Chiesa cattolica: sono costoro che, divenuti più ricchi, potranno lanciarsi nelle speculazioni economiche, nelle monoculture, nelle recinzioni, nella privatizzazione delle terre comuni, spingendo molti contadini che vi vivevano, al vagabondaggio o all’alcolismo, nelle colonizzazioni e nei commerci…senza più l’ingombro della noiosa Chiesa cattolica, sempre pronta a richiamare, e a difendere i diritti umani dei più deboli (in Inghilterra, per secoli i cattolici saranno esclusi per legge dalla possibilità di accedere a cariche pubbliche). Questi nuovi adoratori del denaro, trasformano il vecchio mondo in direzione capitalista, ottenendo dal re e dal Parlamento continui benefici, ad esempio l’abolizione di festività cattoliche, che permette di sfruttare maggiormente i lavoratori subalterni; oppure l’Atto contro il vagabondaggio: la chiusura di opere assistenziali della Chiesa cattolica (ospizi, ospedali, orfanatrofi ecc., tutti passati ai fedeli del Tudor), insieme alle prime recinzioni, ha determinato l’esplodere della povertà, del vagabondaggio e del furto.

Enrico VIII e i suoi, che non vogliono essere frenati nella loro corsa all’arricchimento, usano il pugno duro, semplicemente eliminando poveri e vagabondi: 72.000 ne vengono impiccati durante pochi anni. Per secoli l’Inghilterra sarà famosa per la durezza delle pene nei confronti del furto: "dal 1688 al 1820 i reati che comportano la pena di morte passano da 50 a 200-250, e si tratta quasi sempre di reati contro la proprietà". Hegel denuncerà la severità "draconiana" con cui "in Inghilterra viene impiccato ogni ladro": la pena di morte, l’internamento in case di lavoro, i figli strappati alle famiglie povere già dai tre anni, per spingerli al lavoro, saranno l’unica soluzione dello Stato liberale di fronte al problema dei poveri, sino alla teorizzazione dell’eugenetica prenazista, cioè della loro eliminazione per via politica. Malthus sarà solo uno dei tanti a proporre una politica che ritardi i matrimoni dei poveri e la procreazione tra classi popolari, mentre Franklin, su suolo americano, si scaglierà contro i medici che salvano "metà delle vite che non sono degne di essere salvate". Preludio, evidentemente, alla teorie così in voga negli Usa a partire da fine Ottocento, sulla sterilizzazione degli "inferiori", tra i quali, soprattutto, immigrati, anche europei, e poveri.

Accanto a tutto ciò, convivono nell’Inghilterra che si considera liberale, varie forme di servitù: Adam Smith racconta che ai suoi tempi i lavoratori nelle miniere e nelle saline erano come i servi della gleba, potevano essere venduti o comperati insieme al luogo di lavoro, e portavano un collare con scritto il nome del loro padrone. I pensatori inglesi posteriori a Enrico VIII, seguaci idolatri del liberalismo, giustificheranno la schiavitù dei neri, l’eliminazione dei "serpenti papisti", lo sfruttamento intensivo delle colonie, dei vagabondi e dei bambini. Il maestro del liberalismo, Locke, avrebbe scritto: "il bambino può dimostravi che il negro non è un uomo" (Marco Marsilio, Razzismo, un’origine illuminata", Vallecchi).

Su questo assunto di base convaliderà e giustificherà la pratica dello schiavismo di massa. Riguardo agli irlandesi, nel suo "Trattato sulla tolleranza", affermerà: i papisti sono "come i serpenti, non si otterrà mai con un trattamento cortese che mettano da parte il loro veleno". Riguardo ai bambini poveri, che saranno insieme alle donne le prime vittime della furia capitalista nell’epoca dell’industrializzazione, sosterrà, insieme a Bentham, la necessità di "toglierli dalle mani dei genitori", ancora piccolissimi, per farne dei buoni lavoratori nelle fabbriche e nelle miniere (Domenico Losurdo, "Controstoria del liberalismo", Laterza).

Ma torniamo ad Enrico VIII, vero padre di quanto si è brevemente raccontato: la Bolena abortisce altre due o tre volte; Enrico inizia a pensare ad una maledizione e decide di far decapitare Anna (nel frattempo Caterina è morta eroicamente, qualcuno dice per avvelenamento, ma non è certo); disfattosi della Bolena sposa Jane Seymour, una giovane bruttina, zoppa, leggermente strabica e col doppio mento: Jane partorisce Edoardo e dopo 12 giorno, forse per mancanza di assistenza, muore. Subito il buon Cromwell procura al suo re un nuovo partito, Anna Claves, brutta, sgraziata, ma figlia di un duca tedesco protestante: un’alleanza contro Roma che può servire. Ma Enrico VIII, quando Anna giunge in Inghilterra, non accetta la sua bruttezza e Cromwell, che aveva combinato tutto, finisce decapitato; Anna viene allontanata e tenuta buona con grandi doni. Enrico non ama neppure il luteranesimo, al punto che minaccia di morte quei vescovi , sacerdoti e frati che hanno preso al volo lo scisma per procurarsi mogli e concubine.

Litigando con la prima moglie, Enrico VIII ha creato una nuova religione; ma non vuole che sia nuovo proprio tutto. Può ora sposare Caterina Howard, che verrà decapitata solo due anni dopo, nel 1542. In questi anni il re prosegue nel suo disegno di assoggettare la Scozia, come sua seconda colonia: attacca violentemente Giacomo V Stuart, re di Scozia e suo cugino, fa incendiare chiese, villaggi e cerca di legare a sé alcuni feudatari scozzesi; in particolare può giocare sui protestanti scozzesi, pronti a fare il gioco di un re straniero pur di contrastare la dinastia Stuart, ancora fortemente cattolica. Giacomo V muore di dolore, lasciando come erede la figlia, Maria Stuart, di sei anni. Enrico VIII muore nel 1547; il suo sepolcro, oggi, è vuoto, forse perché le sue spoglie vennero bruciate e disperse dalla figlia Maria. In conclusione si può dire che se non si mettono a fuoco queste vicende, non si può capire il grande successo del comunismo marxista, che nacque come un tumore in un corpo malato, conservando però lo stesso peccato originale del liberalismo: l’essenza materialista ed economicista.

Apocalypto, la scoperta e la colonizazzione delle Americhe

A breve sarà nei cinema il nuovo film di Mel Gibson, l’autore di Passion, Braveheart… La vicenda raccontata nel film è quella della conquista spagnola dell’America Latina, e della fine dell’Impero maya e azteco. Per capirla è utile ripassare brevemente la storia, e accennare ad un altro celebre film sull’argomento, Mission, con Robert De Niro. Quando gli spagnoli iniziano a penetrare nel Nuovo Continente si presenta davanti a loro una terra affascinante per la varietà dei colori, delle piante, degli stupendi uccelli variopinti che nessuno, in Europa, ha mai visto. Con grande stupore vedono anche "strade, argini ben costruiti, ponti acquedotti, case, torri, santuari e fortezze biancheggianti, templi smisurati, tutti fatti di pietra", e oro, argento e monili preziosi in quantità.

Coloro che, giunti da lontano, conquisteranno queste terre meravigliose, sono pochi e male armati: Cortes, il conquistatore del Messico, ha con sé appena 600 uomini, sedici cavalli, trentadue balestre e qualche, primitivo, archibugio; Pizarro, conquistatore dell’ impero Inca, 62 cavalieri, 106 fanti e una dozzina di fucili. Ma i conquistadores non sono solo avventurieri assetati di ricchezze. Nella loro penetrazione nei territori americani vengono colpiti da spettacoli atroci: lungo le scalinate dei templi trovano arti e corpi di fanciulli e fanciulle massacrati e offerti in sacrificio alle divinità del luogo. Infatti, gli Aztechi, e, in misura minore, anche gli Incas, sono convinti che sia continuamente necessario sacrificare alle forze naturali, specie al dio Sole, per evitare che questo cessi la sua funzione e si spenga: "A insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest’ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia della catastrofe si faceva più concreta e imminente" ( Bernal Diaz del Castillo, La conquista del Messico, Longanesi, Milano, 1980 (prefazione di Franco Marenco e Pietro Citati).

Così presso gli Aztechi "quattro preti afferravano la vittima scaraventandola sulla pietra sacrificale. Quindi il Gran Sacerdote piantava il coltello sotto il capezzolo sinistro facendosi largo attraverso la cassa toracica, finché, rovistando a mani nude, non riusciva a strappare il cuore ancora pulsante e a metterlo in una coppa per offrirlo agli dei. Dopodiché i corpi venivano fatti precipitare dalle scale dalla piramide: ad attenderli, al fondo, c’erano altri preti che incidevano ogni corpo sulla schiena, dalla nuca ai talloni, e ne strappavano la pelle…"; infine gli arti venivano donati, a seconda del loro pregio, a sacerdoti e guerrieri per essere mangiati (cannibalismo; Vittorio Messori, Pensare la storia, Paoline, 1992; Luigi Lunari, Cortes, Rizzoli, Milano 2000; G.C. Vailiant, La civiltà Azteca, Einaudi, Torino, 1992: in quest’ultimo testo si descrivono altre terribili usanze, quale quella di costruire "grandi rastrelliere coperte di teschi" o quella di fare a pezzi, con mazze armate di lame di ossidiana, dei prigionieri legati a pietre circolari e offerti al dio Sole).

Sotto gli Incas la situazione è analoga: specie bambini e vergini vengono sgozzati, strangolati o espiantati, alla maniera azteca, del cuore, per allontanare carestie, epidemie ecc. Si arrivano a sacrificare fino a 20.000 persone in un solo giorno. Queste vere e proprie mattanze determinano la necessità di continue guerre per procurare i sacrificandi, così che Aztechi ed Incas assoggettano e terrorizzano le popolazioni confinanti. Proprio su queste fanno leva Cortes e Pizarro, che altrimenti mai avrebbero potuto sconfiggere eserciti immensamente superiori al loro, per numero e conoscenza del territorio.

Entrambi spiegano agli indigeni di adorare un Dio che non richiede sacrifici umani e crudeltà e ottengono così il sostegno di intere tribù. D’altra parte sia Montezuma, imperatore degli Aztechi, che Atahualpa, imperatore degli Incas, considerato il figlio del Sole e proprietario di tutta la terra, reagiscono in modo altalenante ed ambiguo di fronte agli spagnoli: a momenti decisi a difendersi, appaiono invece, per lo più, sconfortati e rassegnati. Infatti, per rimanere a Montezuma, di cui abbiamo maggiori notizie, egli è convinto, secondo una tradizione antica, che il 1519, proprio l’anno in cui Cortes ha toccato la terra ferma americana, sia l’anno "della Canna", quello stabilito da secoli per il ritorno del dio Quetzalcoatl, il Serpente Piumato, l’unico dio che non vuole sacrifici umani, "dalla carnagione chiara, i lunghi capelli e lunga la barba": ora Cortes si presenta proprio così, con la carnagione chiara, così diversa da quella degli indigeni, e fieramente contrario ai sacrifici umani. Non può che essere un dio, e Montezuma, atterrito, non sa come affrontarlo e si lascia addirittura catturare senza opporre resistenza! La conquista del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli non fu dunque quella descritta dalla storiografia illuminista prima (si pensi ai "generosi Incassi" del Parini) e da quella anglosassone poi: non fu lo scontro tra i cattivi Europei, da una parte, e "selvaggi buoni", ma anche civilizzati, dall’altra. Questo è tanto vero che nei territori sotto la Spagna le popolazioni che avevano accolto benevolmente i conquistadores per liberarsi dall’oppressione azteca e incas, si amalgamarono piuttosto bene con i nuovi venuti. La Chiesa, tramite i suoi missionari, sollecitò il matrimonio misto e una pacifica convivenza, sforzandosi di limitare eventuali prevaricazioni e prepotenze, sempre presenti nell’agire umano.

La apparizione delle Vergine "morenita", una Madonna di colore, identica alle donne indie fin nell’abbigliamento, nel 1531, contribuì enormemente ad unire i due popoli (Guadalupe è il santuario più frequentato al mondo). Ancora oggi questo si può vedere nella composizione etnica degli stati dell’America Latina che furono sotto la Spagna dei "re cattolicissimi", Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia: infatti in Messico, in Bolivia, in Perù eccetera, "quasi il 90% della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati", laddove negli Stati Uniti, dove giunsero gli inglesi anglicani e puritani, la popolazione del luogo, i cosiddetti pellerossa, sono stati quasi tutti sterminati. Certo, come appare anche nel film "Mission", vi furono, tra i colonizzatori, di quelli che approfittarono degli indigeni per farli schiavi, ma questo contro il volere della corona di Spagna e della Chiesa. Nei territori dominati dai Portoghesi, invece, e in specie nel Brasile, la schiavitù era non solo praticata da alcuni, ma anche permessa per legge. Mentre i missionari gesuiti realizzano la cosiddetta "Repubblica del Guaranì", vero modello di società cristiana e di armonizzazione pacifica tra due diverse culture, l’Europa è percorsa dalla dirompente vitalità del pensiero illuminista. I filosofi inglesi e, soprattutto, francesi, diffondono nel vecchio continente ideali nuovi e una critica piuttosto aspra nei confronti della Chiesa. Se è vero, infatti, che tolleranza e libertà religiosa divengono i capisaldi di questa nuova cultura, è altrettanto vero che, nella pratica, teoria e prassi, principi ed applicazioni, spesso, non si corrispondono: lo stesso Voltaire, acceso sostenitore della libertà di pensiero, ma in segreto partner economico di trafficanti di schiavi, afferma senza esitazione la necessità di combattere in ogni modo la Chiesa (il celebre motto "schiacciate l’infame").

Il pensiero cristiano viene infatti denigrato e ripudiato sotto molti aspetti: l’illuminista Diderot, ad esempio, contrappone alla morale cristiana il modello del buon selvaggio tahitiano, che pratica, senza alcun falso scrupolo, l’incesto, l’adulterio, l’accoppiamento libero e casuale. Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono le riflessioni di Morelly, Dom Deschamps e Restif de la Bretonne, che, "in omaggio alla dottrina settecentesca che considerava il tabù dell’incesto alla stregua di un pregiudizio religioso", arrivò ad avere rapporti con le sue stesse figlie. In campo economico poi, il pensiero illuminista francese era tributario del liberismo inglese, il quale rintracciava nella riforma anglicana e nella separazione dell’Inghilterra dalla Roma cattolica ad opera di Enrico VIII, l’origine del suo processo di modernizzazione economica. Così ai filosofi illuministi e ai "despoti illuminati" del Settecento (Maria Teresa d’Austria, Federico II di Prussia; Caterina II di Russia…) sembrava che, da una parte, fosse necessario assoggettare la Chiesa al potere politico (dottrina del giurisdizionalismo); dall’altra che occorresse sopprimere il più possibile gli ordini religiosi, per incamerarne i beni al fine di arricchire il potere statale e di rifornire di terre e di capitali la ricca borghesia imprenditrice. Succedeva insomma quello che era avvenuto in Inghilterra ai tempi di Enrico VIII e di Elisabetta, con l’esproprio massiccio dei terreni della Chiesa, affidati di solito ai più poveri, e quindi poco produttivi, e con la loro privatizzazione. E’ facile capire che, in questo clima, il potente ordine dei Gesuiti non fosse visto di buon occhio nelle corti europee, che, come dice il cardinale protagonista del film, apparivano a quell’epoca giungle insidiose e terribili. Infatti, oltre che proprietari di scuole e di beni appetibili per i vari Stati, i gesuiti si ergevano a difesa degli interessi degli indigeni nei paesi dell’America Latina sottomessa agli europei.

In Portogallo, il primo ministro, il marchese di Pombal, sostenne una vera e propria campagna di denigrazione contro la Compagnia di Gesù, cercando addirittura di instillare nel pontefice Clemente XIV il sospetto di poter essere avvelenato da un sicario gesuita. Tra le altre cose, "fece persino coniare delle monete con l’effige di un gesuita che si definiva re del Portogallo con il nome di Nicola I". Così, quando nella notte del 3 settembre 1758 il sovrano portoghese rimase leggermente ferito nel corso di un attentato da parte di ignoti, Pombal colse l’occasione per far sopprimere l’Ordine dei Gesuiti, da lui accusati di essere i mandanti. Ne sequestrò poi i beni, ne condannò alcuni a morte ed espulse gli altri dal paese. Similmente avvenne in Francia dove si giunse allo scioglimento dell’Ordine nel 1762. In Spagna invece l’espulsione dei 5000 gesuiti "durò lo spazio di un mattino": molti si imbarcarono su zattere di fortuna per raggiungere Roma ma morirono per mare. La persecuzione si estese ad altri paesi europei, finché papa Clemente XIV, coartato dai potenti dell’epoca, soppresse egli stesso la Compagnia fondata da S. Ignazio, nell’agosto del 1773. Ovunque, naturalmente, le terre e i beni dell’Ordine furono incamerati dagli Stati, che li rivendettero alla ricca borghesia, mentre le scuole gestite dai gesuiti divennero tra le prime scuole statali dell’età contemporanea. Se ora facciamo un passo indietro di pochi anni, al 1750, cioè all’epoca in cui è ambientato il film, possiamo comprendere il dramma interiore del cardinale gesuita protagonista: da una parte la sua volontà di salvare le missioni guaranì, dall’altra la paura che un gesto simile avrebbe provocato le ire del marchese di Pombal nei confronti della Chiesa in generale e del suo Ordine in particolare. Ma, come si è visto, il suo cedimento non valse a nulla, perché l’Ordine fu ugualmente travolto e gli indigeni finirono come, nelle corti, si era deciso ( C.Lugon, La rèpublique des Guaranis, Foi Vivante, Paris, 1949; Guido Sommavilla, La compagnia di Gesù, Rizzoli, Milano 1985).

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