Vorrei chiarire il senso della posizione contraria assunta da Forza Italia del Trentino di fronte al prossimo referendum abrogativo delle norme che, nella legge provinciale 3 del 2006 sul nostro sistema educativo, sanciscono anche la partecipazione delle scuole paritarie all’offerta formativa e il diritto delle famiglie e degli studenti iscritti a queste strutture di non essere in alcun modo discriminati rispetto a chi ha scelto gli istituti direttamente gestiti, invece, dall’ente pubblico. Noi riteniamo infatti che oggi sia assolutamente necessario collocare al centro delle politiche scolastiche e formative la persona. Persona intesa non astrattamente, ma nel suo diritto di realizzare fino in fondo e liberamente se stessa attraverso la famiglia e nella comunità sociale.
Ora, coerentemente con l’articolo 30 della Costituzione (“? dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”), siamo convinti che il primo dato da tener presente affrontando questo tema – dato ignorato dai promotori del referendum – è che i soggetti del rapporto educativa non sono soltanto due: da una parte gli studenti con il loro bisogno di istruzione e formazione, e dall’altra la società civile erogatrice attraverso le sue istituzioni dei servizi scolastici indispensabili per rispondere a questa istanza. No: tra i soggetti del rapporto educativo c’è anche, e anzi in primo luogo, la famiglia con il suo diritto-dovere, previsto appunto dalla Costituzione, di esercitare una precisa responsabilità nei confronti dei figli. Responsabilità che consiste nel garantire loro l’educazione, vale a dire un percorso introduttivo al reale nella sua complessità e alla maturazione della personalità dei bambini e dei ragazzi, per compiere il quale la famiglia interviene sia direttamente, soprattutto nei primi anni di vita, sia – laddove non ha la possibilità di assumersi da sola questo onere – attraverso la scuola. In quest’ottica la famiglia non è dunque solo un attore passivo, che si limita a sottoporre alla società civile una domanda, un bisogno di natura educativa. La famiglia rappresenta anche e soprattutto un soggetto attivo, chiamato a farsi carico anche della risposta da dare al bisogno educativo dei bambini e dei ragazzi.
Il secondo punto nodale di questo ragionamento riguarda la comunità che con le sue istituzioni e iniziative non può sottrarsi al dovere di coadiuvare le famiglie impegnate ad esercitare la loro responsabilità educativa. Attraverso la scuola la società civile è cioè tenuta a proporsi e ad affiancarsi alla famiglia – non ad imporsi ad essa – per permetterle di svolgere fino in fondo la sua primaria responsabilità educativa. Questo approccio particolarmente vicino, sensibile e attento alla persona e alla famiglia appartiene da sempre, in primo luogo, alle formazioni sociali ad essa più “prossime”, vale a dire a quei soggetti del Terzo Settore impegnati a promuovere iniziative e servizi scolastici corrispondenti alla responsabilità educativa delle famiglie e al tempo stesso ai bisogni educativi dei bambini e dei ragazzi. Non a caso storicamente, anche nella tradizione trentina, le scuole, a partire dalle “materne”, per proseguire con quelle dell’obbligo e la formazione professionale sono nate dall’iniziativa autonoma della stessa società civile, dalle comunità locali, dagli ordini religiosi, dalle associazioni di genitori e insegnanti e non, quindi, innanzitutto dall’ente pubblico, intervenuto piuttosto ad integrare e completare l’offerta laddove questa risultava carente. Oppure a sostenerla finanziariamente, come oggi è previsto appunto dalla legge provinciale varata l’anno scorso. Cosa significa questo? Significa che quella che potremmo chiamare la “scuola della società civile”, precede il servizio educativo erogato dai pubblici poteri sia sul piano dei principi che nei fatti. Ecco la prima ragione di fondo per cui le istituzioni scolastiche e formative create e gestite dalla società civile attraverso vari enti e associazioni no profit, hanno indiscutibilmente diritto di cittadinanza e titolo per beneficiare dello stesso trattamento riservato a quelle che dipendono direttamente dalla Provincia o dallo Stato. A ciò bisogna aggiungere che in Trentino le scuole paritarie godono di un largo e convinto apprezzamento da parte della popolazione, proprio per la funzione di pubblica utilità svolta da sempre e in virtù del servizio educativo di qualità prestato alle famiglie.
Ed è appunto questo diritto di cittadinanza nel sistema educativo pubblico del Trentino disegnato dalla legge provinciale 3 del 2006 che i promotori del referendum vorrebbero innanzitutto negare. Essi infatti non negano che possano esistere delle scuole non istituite e gestite dall’ente pubblico, ma pretendono di escludere questi istituti da qualunque forma di riconoscimento normativo. Non si tollera cioè che queste scuole svolgano un servizio di pubblica utilità e per questo il referendum chiede innanzitutto di togliere dal “piano provinciale per il sistema educativo” previsto dalla legge 3 il riferimento alla “rilevazione” sul territorio della presenza di istituzioni paritarie (questo avverrebbe appunto con l’abrogazione del comma 7 dell’articolo 35). L’inserimento degli istituti paritari nel piano provinciale per il sistema educativo implica, infatti, il piano riconoscimento non solo dell’esistenza di queste scuole, ma anche del loro diritto a non essere discriminate giuridicamente e finanziariamente rispetto a quelle direttamente gestite dall’ente pubblico. Di qui anche l’insistenza con cui nella campagna per raccogliere le firme necessarie per ottenere il referendum, i promotori hanno utilizzato l’espressione “scuole private” anziché la formula appropriata di “scuole paritarie”, per definire questi istituti. Operazione, questa, volutamente propagandistica e capziosa, perché chiunque conosca la realtà di queste scuole sa bene quanto siano profondamente diverse dagli istituti attivi sul mercato. Non solo perché, a differenza di questi ultimi, le paritarie sono scuole no profit che non producono alcun utile e i cui bilanci sono assoggettati per legge al controllo della Provincia, ma soprattutto per il carattere popolare di questi istituti, accessibili a tutti, comprese le famiglie che non potrebbero permettersi di pagare una retta elevata.
Se dovessero essere estromessi dalla pianificazione provinciale questi istituti, non beneficiando più dei contributi pubblici, avrebbero due sole strade possibili: quella di trasformarsi in scuole d’elite e quindi a pagamento, precludendo l’accesso ai più per motivi economici; oppure quella di chiudere. Non si vede in che modo l’una o l’altra di queste soluzioni potrebbe giovare al sistema educativo del Trentino. Di sicuro si registrerebbe la perdita di molti posti di lavoro del personale che attualmente opera negli istituti paritari, ma soprattutto gli studenti e le famiglie non avrebbero più la possibilità di scegliere liberamente un percorso educativo che finora si è sempre dimostrato sensibile e capace di corrispondere alle esigenze di quanti si sono rivolti ad esso. Un percorso educativo, quello messo a disposizione dalle scuole paritarie, che ha innegabilmente concorso alla crescita di una coscienza civica diffusa e alla maturazione personale e sociale di figure che hanno oggettivamente contribuito allo sviluppo complessivo del Trentino. Ciò prova che a questi istituti non appartiene in alcun modo quel profilo confessionale, ideologicamente chiuso e culturalmente “di parte”, artatamente attribuito ad essi dai promotori di questo referendum.
Per questi motivi l’anno scorso il gruppo consiliare di Forza Italia aveva sostenuto con il voto gli articoli, elaborati anche con il nostro contributo, che nella legge 3 sanciscono il coinvolgimento delle scuole paritarie, dei loro studenti e delle loro famiglie nel sistema educativo della Provincia autonoma di Trento. E per gli stessi motivi oggi ribadiamo il valore dell’articolo 76 – l’altra norma che i referendari vorrebbero abrogare – che attua semplicemente gli articoli 30 e 33 della Costituzione, vale a dire il diritto degli studenti delle scuole paritarie ad un trattamento equipollente e il diritto della famiglia ad essere sostenuta nell’adempimento dei suoi compiti educativi quando scelgono questi istituti.
Un ultimo rilievo. Il fatto che alcuni componenti dell’attuale maggioranza politica provinciale da cui era stata voluta la legge sulla scuola dell’anno scorso, oggi siano apertamente schierati a fianco dei promotori del referendum per abrogarne queste norme non certo secondarie, rivela quanto profonde e insanabili siano le divaricazioni interne all’attuale coalizione proprio su questioni come questa, della massima rilevanza sociale, culturale e politica per la nostra comunità. Una spaccatura questa che mostra ai cittadini del Trentino non solo la necessità, ma anche l’urgenza di voltare pagina e di accordare fiducia ad una diversa maggioranza, coesa su questo ed altri punti cruciali e decisivi per la qualità della nostra convivenza e lo sviluppo del nostro sistema.
Categoria: Scuola/Educazione
Cari prof., imitate Sarkozy e buttate fuori il ’68 dalle scuole
Dall’insegnante processata per aver punito un bullo, al genitore che piomba in classe per “salvare” la figlia dall’interrogazione, nelle nostre aule ormai impera il caos. Alla faccia dei (tanti) docenti che si impegnano davvero. la colpa? Soprattutto dei loro colleghi. E di tutto quello che hanno tollerato in questi quarant’anni
DUE SETTIMANE FA, in un liceo, una studentessa, scandalizzata per il fatto che l’insegnante voleva interrogarla senza il suo permesso, ha telefonato al padre. Quest’ultimo, conscio delle sue responsabilità di genitore, ha fatto irruzione nella classe, ha insultato l’insegnante e ha portato via la figliola salvandola dalla grave ingiustizia. Ma questa non è la vera notizia. La vera notizia è che la studentessa non è stata espulsa dalla scuola seduta stante e il padre non è stato immediatamente denunciato alla autorità giudiziaria. Dopo alcuni giorni c’erano ancora seriose discussioni su come affrontare la vicenda. L’episodio fa il paio con il caso della professoressa processata per avere punito un bullo (e qui la domanda è: perché è stata ritenuta meritevole di rinvio a giudizio?). Una pedagogia irresponsabile, spalleggiata dalla cultura giuridica vigente, ha da tempo tolto agli insegnanti i vecchi strumenti repressivi così come i mezzi per difendersi da genitori talvolta peggiori dei peggiori bulli.
Spiace dirlo, soprattutto perché, in mezzo a molte mediocrità, ci sono anche tanti docenti che, per pochi soldi, e con grandi sforzi, fanno molto bene il loro lavoro, ma la colpa del degrado della scuola ricade sul corpo insegnante. Sono stati gli insegnanti a tollerare che sindacati e classe politica lavorassero, per decenni, alla deprofessionalizzazione e alla dequalificazione dell’insegnamento. Sono stati gli insegnanti a permettere ai “loro” sindacati di fare carne di porco della scuola: con le infornate di precari, il gonfiamento degli organici, la fine di ogni selezione meritocratica. Tutte cose che avrebbero dovuto contrastare con scioperi e proteste. ? sempre il corpo insegnante ad avere tollerato i misfatti della pedagogia progressista (dall’abolizione delle bocciature per cattiva condotta a quella degli esami di riparazione).
Risultato: crollo dello status sociale degli insegnanti con ricadute sugli atteggiamenti di genitori e studenti. E con effetti devastanti sulla qualità dell’impegno scolastico e dell’apprendimento.
Forse è vero che la scuola risorgerà solo quando la generazione del ’68 sarà andata in pensione. Lo “spirito del ’68”, con il suo odio per l’autorità e il merito, ha molto a che fare con l’attuale situazione. Sarkozy, in Francia, lo ha capito e vuole espellere quello spirito dalle scuole francesi. Perché non ci proviamo anche noi?
Angelo Panebianco – Corriere della Sera magazine – 21 giugno 2007
I salesiani, la scuola e l’industria italiana.
I Salesiani e l’industria italiana
Dalla Fiat alla Mondadori, dalla Breda alla Magneti Marelli l’industria del Nord ha sempre cercato la collaborazione dei discepoli di don Bosco per istruire generazioni di operai specializzati
di Giovanni Ricciardi
Quando il presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi fu chiamato a scegliere i nomi dei primi cinque senatori a vita, commentando alcune candidature che non lo convincevano, osservò che l’attributo della “socialità”, previsto dall’articolo 59 della Costituzione per l’assegnazione di quella onorificenza, si sarebbe meglio adattato a uomini come Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco.
Il giudizio di Einaudi non era isolato, anche se su don Bosco la cultura laica fu spesso divisa e non mancò di tranciare giudizi negativi, a dispetto della forte incidenza sociale della sua opera. Non senza un moto di fastidio, negli anni Cinquanta, Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, osservava: “Che cosa mi ha impressionato di più visitando la casa madre dei salesiani di don Bosco? Certo, i laboratori per le arti e i mestieri, dove si formano i meccanici, i sarti, i tipografi, i falegnami. ? noto che gli allievi di queste scuole si distinguono nelle industrie laiche. Ma ancora di più: l’insistenza del salesiano che mi accompagna su una parola: moderno. Una delle poche parole che egli pronuncia, giacché per il resto è laconico. Moderno. Don Bosco, mi dice, è sempre più avanti di tutti, più moderno di tutti. “Moderne” le riviste di moda straniere di cui è dotato il laboratorio dei sarti. Moderna la tipografia, moderno il teatro; la sala degli spettacoli, “la più moderna di Torino””.
Nonostante la sua avversione al modello salesiano, figlio di un cattolicesimo che gli appariva integralista e “papalino”, Piovene non poteva tuttavia negargli efficienza e competitività. Le scuole di don Bosco funzionavano, negli anni Cinquanta, meglio delle altre, formando operai capaci, competenti: “buoni cittadini, onesti cristiani, abili lavoratori”. Di questo modello “vincente” il mondo imprenditoriale italiano si era accorto molto presto, fin dagli ultimi anni della vita del santo di Valdocco. Anzi, secondo lo storico Piero Bairati, “il rapporto fra cultura salesiana e cultura dell’industrializzazione presenta dei connotati così precisi e, almeno per certi aspetti, originali, da costituire un capitolo di rilevante interesse nella storia della società industriale italiana”. Vediamo perché.
Don Bosco giunse per gradi a creare i suoi primi laboratori artigiani tra il 1853 e il 1869. Le condizioni di disagio e di precarietà morale e materiale dei ragazzi che accoglieva all’Oratorio la domenica lo convinsero che fosse necessario insegnare loro un mestiere, in un ambiente protetto dallo sfruttamento sociale e dai pericoli cui il selvaggio mercato del lavoro della Torino di allora esponeva giovani e giovanissimi immigrati dalle campagne in cerca di fortuna.
Inizialmente, optò per quei mestieri che potessero soddisfare un “mercato” interno all’Oratorio stesso, in una prospettiva quasi “autarchica”: calzolai e sarti per vestire i suoi studenti, falegnami per costruire banchi di scuola, armadi e cattedre; infine, fabbri, quando concepì il progetto della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice.
Ma fu con la tipografia e la legatoria che il suo impegno iniziò a incuriosire – e, in parte, a preoccupare – il mondo imprenditoriale torinese. Don Bosco aveva riscosso un discreto successo con la pubblicazione delle Letture Cattoliche, la collana da lui diretta e pubblicata nei primi anni dalla De Agostini. La decisione di editarla in proprio e di pubblicare altri libri, soprattutto per la scuola, lo spinsero a profondere mezzi ed energie per fare della tipografia la punta di diamante delle sue attività.
Nei suoi laboratori si puntava dunque soprattutto a insegnare un mestiere, ma non si trascurava di scegliere settori di produzione anche sulla base di concrete esigenze del mercato locale. In questo modo, don Bosco poneva le basi di un rapporto dinamico e flessibile tra l’apprendistato da lui istituito e un mondo del lavoro che cominciava rapidamente a evolversi.
Negli anni dei primi laboratori di Valdocco l’industrializzazione italiana era ancora a uno stadio iniziale, ma l’esperienza acquisita negli anni permise ai Salesiani di non lasciarsi eccessivamente sorprendere dalla rapida accelerazione dello sviluppo delle fabbriche nell’ultima decade del XIX secolo. Essi furono così in grado di trasformare e perfezionare un modello formativo già collaudato e di mantenersi al passo coi tempi, con un vantaggio, rispetto alle istituzioni formative dello Stato, pressoché incolmabile. “Seguendo la loro linea culturale e pedagogica” scrive ancora Bairati “i salesiani finirono per svolgere numerose funzioni di supplenza proprio in ampi settori sociali e istituzionali, dall’istruzione popolare all’assistenza sociale, nei quali lo Stato liberale non aveva molte risorse da spendere, e talora, forse, non aveva nemmeno l’intenzione di farlo”.
Fra l’altro, l’apprendistato nei laboratori salesiani aveva imposto fin dall’inizio una disciplina del tempo e del rispetto degli orari che era conquista affatto nuova per una forza lavoro abituata ai ritmi ancestrali della civiltà contadina. A Valdocco e nelle altre scuole di “arti e mestieri” salesiane i giovani allievi imparavano a conoscere ritmi di lavoro precisi e regolarmente scanditi. L’adattamento alla realtà urbana e la conseguente interiorizzazione di una diversa strutturazione del tempo costituirono una delle carte “vincenti” che aprì presto agli allievi salesiani le porte delle nascenti fabbriche e consentì loro di inserirsi a titolo privilegiato nel mercato del lavoro: “L’essere stati educati da don Bosco” scrive don Giovanni Battista Lemoyne, uno dei primi biografi di don Bosco, “era per loro la miglior raccomandazione per essere accettati nelle fabbriche e negli altri ufizi. I padroni venivano essi stessi a chiedere a don Bosco i giovani operai”.
Un primo esempio dell’attenzione del mondo imprenditoriale per la formazione salesiana è dato dalla fitta trama di rapporti che presto si intesse tra don Bosco e la direzione torinese delle ferrovie, che costituiva nella seconda metà dell’Ottocento una delle più importanti imprese della città, e che manifestò la sua predilezione per l’assunzione di operai preparati a Valdocco.
Attraverso questi meccanismi, il modello salesiano si presentava anche come un punto di riferimento per chi desiderava una forma di elevazione sociale o, per dirla ancora con Bairati, “agiva come un moltiplicatore delle aspirazioni sociali” per gli strati più bassi della popolazione, e contribuiva a diffondere una “domanda di istruzione” ben al di fuori di quella media e alta borghesia che ne era stata fino ad allora la fruitrice pressoché esclusiva.
Diverso era allora l’orientamento dello Stato liberale. Senza intuire la domanda di professionalità diffusa che la nascente società industriale avrebbe posto, la legge Casati sull’istruzione del 1859 non prendeva neppure in considerazione l’istituzione di scuole professionali. Prevedeva invece un triennio di scuola tecnica e un successivo triennio di istituto tecnico destinati, in teoria, a formare i quadri medi della “piccola borghesia degli affari, degli impieghi e dei commerci”. In teoria, perché nella realtà questo genere di scuola, non sapendo risolversi a una scelta netta tra una “cultura generale” di stampo umanistico, e un più deciso orientamento al mondo del lavoro, non riuscì a proporre un efficace modello formativo: “Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento” scrive lo storico Silvio Soldani “c’era una forte polemica sulla incapacità di queste scuole a “dare un mestiere”; si diceva che “dopo averle frequentate, al massimo si poteva fare “il fattorino telegrafico o lo straordinario in un’agenzia delle imposte””.
Don Bosco e i suoi successori avranno perciò dalla loro una formula assai più flessibile e dinamica. Osserva in proposito un altro storico, Pietro Stella: “Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra padrone di bottega e apprendisti, e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalla legge organica sull’istruzione, don Bosco preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti”.
In più, don Bosco, che pure era un fiero contestatore dello stato liberale unitario, nel rapporto con la società del suo tempo non rifiutò di interagire con le concrete dinamiche politico-economiche: “Giovanni Bosco” scrive ancora Bairati “capì che in uno Stato che proclamava il valore della proprietà e dell’iniziativa privata, era necessario costituire un’organizzazione che rispettasse in pieno questo principio. Questo significava che la Società salesiana doveva reggersi soprattutto sui proventi delle scuole, dei laboratori e della produzione tipografica ed editoriale”.
Grande fu, ad esempio, l’impressione prodotta dallo stand salesiano all’Esposizione Generale di Torino del 1884, organizzata dalla Società Promotrice dell’Industria Nazionale. Vi era esposto l’intero ciclo di produzione del libro nella tipografia di Valdocco. Visto il successo dell’iniziativa, eventi del genere, capaci di produrre una positiva impressione sull’opinione pubblica, furono raccomandati da don Bosco anche per gli anni a venire.
Lo sviluppo dell’industria nel nord del Paese spinse i salesiani, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, a rispondere in modo più articolato alle esigenze del mercato del lavoro. Se già fin dai primi anni Ottanta a Valdocco si discuteva sul miglioramento dei laboratori delle scuole di “arti e mestieri”, nel Capitolo generale salesiano del 1886 furono poste le basi per la trasformazione degli originari laboratori in vere e proprie scuole professionali: in esse, si cercò via via di affiancare all’apprendistato un approfondimento della cultura generale, per creare figure professionali più duttili e pienamente formate. E così avvenne che, in molti casi, furono gli industriali stessi a promuovere la nascita di scuole salesiane a vantaggio della qualità del personale da impiegare.
Emblematico, a questo proposito, il caso della Lanerossi di Schio. L’imprenditore Alessandro Rossi deve aver incontrato don Bosco negli anni Ottanta dell’Ottocento, durante i suoi numerosi viaggi d’affari a Torino. Sembra che fin d’allora Rossi avesse chiesto a don Bosco di fondare un’opera salesiana nella sua città, anche se la richiesta formale dovette essere avanzata successivamente dal cugino Francesco Panciera a don Rua. ? probabile che, oltre alla stima per l’educazione salesiana, giocasse un certo ruolo la preoccupazione per il diffondersi di idee socialiste all’interno di una realtà industriale in forte espansione a Schio e nella zona. Ma è altrettanto chiaro che, nella prospettiva di un rapido sviluppo industriale, l’eventuale formazione professionale impartita dai Salesiani era comunque percepita come una garanzia di serietà e professionalità d’alto livello.
La considerazione di Giovanni Agnelli nei riguardi di don Bosco e dei salesiani risale anch’essa a una frequentazione degli anni giovanili del fondatore della Fiat. “Non siamo in grado di stabilire” secondo Bairati “a quale grado di dimestichezza potessero essere giunti i rapporti giovanili tra don Giovanni Bosco e Giovanni Agnelli”. Quel che è certo è che la Fiat ebbe modo di sostenere direttamente, in più occasioni, la famiglia salesiana. E non è un caso che nel 1938, accanto al nuovo stabilimento di Mirafiori allora in costruzione, l’industria torinese abbia provveduto a proprie spese alla costruzione di un istituto salesiano intitolato alla memoria di Edoardo Agnelli, prematuramente scomparso nel 1935. Scrive a proposito don Eugenio Ceria, il redattore degli Annali Salesiani: “Dovendosene trasportare la sede [della Fiat, ndr] in altra località presso il viale di Stupinigi, il valoroso industriale volle che ivi, non lungi dalle gigantesche costruzioni in corso, fosse edificato un grande oratorio festivo con pubblica chiesa per la cristiana educazione dei figli delle maestranze e un modernissimo istituto internazionale di elettromeccanica”.
Altre realtà industriali seguirono poi l’esempio di Agnelli e Rossi. Negli anni Cinquanta, fu il polo produttivo di Sesto San Giovanni a richiedere esplicitamente la presenza dei figli di don Bosco. Nell’aprile del 1958 trovava compimento un progetto fortemente perseguito da Enrico Falck e sostenuto dal cardinal Schuster: un grande complesso di istituti tecnici e scuole professionali, edificato su un terreno donato dalla Chiesa ambrosiana e finanziato per metà dallo Stato e per il restante 50 per cento da un consorzio di imprese sestesi, guidato dalle acciaierie Falck, dalla Breda e dalla Magneti Marelli. Lo scopo, sintetizzava nel discorso inaugurale don Angelo Begni, era quello di “preparare maestranze specializzate, che rappresentano l’istanza più urgente e sentita del mondo del lavoro”. Questo polo formativo rappresentò anche un’occasione di elevazione sociale e professionale per migliaia di operai sestesi che frequentarono in quegli anni di boom economico le scuole serali aperte per loro dai Salesiani, per poter acquisire un diploma.
Quattro anni più tardi, sull’esempio di Sesto San Giovanni, veniva avviato nella allora periferia di Verona un grande progetto per realizzare un centro di formazione professionale affidato ai Salesiani. Nel progetto intervennero il Comune con la donazione di un’area di 45mila mq, la Provincia con un notevole fondo economico e i Salesiani che recuperarono macchinari dal loro centro professionale di via Provolo. Nel 1967 al settore meccanico ed elettromeccanico si aggiunse quello grafico, grazie a una specifica convenzione fra Salesiani e l’Enipg, il noto Ente nazionale istruzione professionale grafica costituito pariteticamente dalle Associazioni nazionali sindacali dei datori di lavoro grafici, aderenti alla Confindustria e dalle Federazioni dei lavoratori grafici aderenti alla Cgil, Cisl e Uil. A livello provinciale l’Enipg era presieduto dalla Mondadori. Quello di Verona fu uno degli esperimenti-pilota di collaborazione scuola-industria-sindacato. L’Istituto San Zeno diverrà a fine anni Settanta uno dei centri di formazione professionale più moderni d’Europa. I macchinari e le attrezzature tecnologiche erano fornite direttamente, sia pure in misura parziale, dalla Mondadori e da altre industrie grafiche locali; il rapporto con loro prevedeva un continuo aggiornamento dei programmi, e lo stesso concorso per accedere alla scuola calcolava il numero degli aspiranti in base alle esigenze e alle possibilità di assorbimento dell’industria locale. Nel 1971, durante la visita del ministro del Lavoro Donat-Cattin al centro veronese, il direttore, don Silvino Pericolosi, sottolineava che gli allievi del centro erano tra i più richiesti dagli imprenditori della città: “Al termine dell’anno scolastico 1969-70, prima che gli iscritti all’ultimo anno avessero conseguito il diploma, c’erano già state 82 offerte di lavoro da parte delle ditte veronesi. Poiché i diplomati furono 70, trovarono tutti un posto senza difficoltà”.
Gli esempi, più o meno significativi, potrebbero essere molti di più, dal nord al sud Italia, da Milano a Gela, passando per Roma: “Da questo punto di vista” conclude Bairati nel suo studio del 1987 su Salesiani e società industriale “ci pare da rovesciare, almeno per quanto riguarda Giovanni Bosco, il giudizio di Sergio Quinzio secondo cui i santi del secolo scorso non hanno inciso che minimamente sul grande corso della storia successiva. Al contrario, il modello culturale salesiano, pur presentando alcuni connotati che lo contrappongono recisamente ai tempi in cui è nato e si è sviluppato, ritrova poi ad altri livelli un proprio stretto rapporto con la storia della società”.
Ma da dove nasceva la “modernità” di don Bosco, la sua capacità di rispondere alle esigenze dei tempi, che così strana appariva a Guido Piovene? Non certo dall’ideale di un mero efficientismo sociale o filantropico. Per il sacerdote di Valdocco, insegnare un mestiere era anzitutto un’opera di carità: dare all’uomo la capacità e la possibilità di lavorare era per lui un modo di aiutarlo a “guadagnare la vita eterna”, come spesso diceva, permettendogli di vivere onestamente e di farsi una famiglia, ed evitando che potesse prendere strade sbagliate. Ed è forse proprio a partire da qui che si può intuire il cuore dell’esperienza educativa salesiana e il motivo del suo “successo” così longevo. Non è questione di pura capacità imprenditoriale, e neppure di sola intelligenza pedagogica. Varrà allora la pena di citare, al termine di questo scritto, le parole con cui, inaugurando il Centro di Sesto San Giovanni cui abbiamo accennato, l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, il 29 marzo 1958, si rivolgeva ai ragazzi che ne avrebbero frequentato le scuole: “Che cosa pensate di tutti coloro che dedicano la propria vita a voi, senza forse riceverne ricompensa alcuna, senza forse che il loro nome non sia nemmeno conosciuto? Questo interrogativo mi richiama l’incontro con un uomo che ora vive la sua vita triste in conseguenza di essersi dato al mal fare. Avendolo io interrogato perché si fosse messo sopra una via di perdizione, ne ebbi questa risposta: “Quando ero giovane nessuno mi ha voluto bene”. Ebbene, voi non potete dire: “Nessuno mi ha amato”… Avete questi figli di don Bosco che con fedeltà continuano lo sforzo educativo del Santo della gioventù e si curano di voi e stanno al vostro fianco. Tra di voi Cristo non è morto, e nella vostra città, qui, fiorisce la carità di Cristo”.
(da: 30 Giorni)
Scuola e libertà in Guareschi
Riproporre oggi alcuni pensieri tratti da “Lettera al postero”, di Giovannino Guareschi, pubblicata su Candido numero 51, del 16 dicembre 1956, può apparire operazione anacronistica solo nelle apparenze. In un periodo storico, politico e culturale come quello in cui ci è dato di vivere, non possiamo che trovare straordinariamente profetiche le parole che mi permetto di presentare qui di seguito. Spunti per una riflessione costruttiva, seppur amara, dovendo constatare come l’utilizzo della scolarizzazione di massa, in atto a partire proprio dagli anni appena seguenti questa lettera, attuata da tutta l’area marxista, complice anche una certa miopia culturale e politica cattolica, ha portato il nostro Paese ad una omologazione dei pensieri attuata anche attraverso la scuola, e oggi anche attraverso l’università, mediante l’adozione di libri di testo ideologizzati, se non tendenziosi e docenti “votati alla causa”. Ironia della sorte, Guareschi morì proprio nel “formidabile” 1968, e da allora è un susseguirsi di riforme scolastiche farraginose, l’ultima ancora tutta da verificare sul campo, del Ministro Fioroni, purtroppo ancora troppo infarcita dirigismo statalista, che ripropone, tra le altre cose, la commissione d’esame mista fra docenti interni ed esterni, ma non incide sulla valutazione della qualità dell’insegnamento e nemmeno sulla serietà della preparazione effettiva finale dell’alunno. Aumenterà, invece, il carico di lavoro burocratico dei docenti impegnati nelle commissioni, con la conseguenza di, per citare Guareschi, “Non dire mai con quattro parole ciò che potresti non dire con tremila. Il paradosso serva a chiarirti il concetto: l’italiano preferisce parlare piuttosto che dire”. Veniamo dunque al racconto di Giovannino Guareschi, che rivolgendosi al suo immaginario “postero”, ad ognuno di noi quindi, genitori, insegnanti, studenti scrive: Un tempo si diceva: “Chi comanda fa legge”. Oggi, con maggior precisione, si dovrebbe dire: “Chi comanda fa Regime”. E’ l’eterna storia di chi, arrivato al posto di amministratore, tende a diventare padrone. Mentre il Partito che ha espresso il Governo tende a identificarsi col Paese, il Governo tende a identificarsi con lo Stato. Gli Enti statali, parastatali, criptostatali, nazionali e paranazionali creati dal Governo e diretti e dominati da uomini fidati del Partito funzioneranno da legame fra Stato, Governo e Paese-Partito. Il gioco è fatto. Naturalmente, postero diletto, io non ti ho parlato da tecnico: l’operazione è più complessa. E, quando il Regime è instaurato, ha bisogno di farsi le ossa. Orbene – ed è questo il punto – ogni Regime si fa le ossa rompendo le ossa degli altri. Se si tratta di un Regime sul tipo delle cosiddette repubbliche democratiche orientali, entrano in azione la polizia politica, i carri armati, la statizzazione integrale e via discorrendo. Se si tratta di un Regime a sfondo democratico occidentale, si usano armi di altro genere e l’azione si sviluppa nascostamente e senza strepito.
In ogni tipo di Regime, comunque, si pone la massima diligenza nell’annientare il nemico numero uno della dittatura: l’individuo. Si tende a spersonalizzare l’individuo, a fare di esso un semplice elemento della mandria, o massa o collettività. Si tende cioè a svuotare l’individuo del suo contenuto personale. Postero mio, figurati che la nazione sia un immenso frutteto con alberi di centomila specie diverse: alberi teneri e giovani, alberi vecchi dalla corteccia dura. Cambia il padrone del frutteto, e il nuovo padrone dice: “L’avvenire del frutteto è nelle pesche. Da oggi in avanti voglio solo pesche”. Tutto va bene per i peschi giovani e vecchi che sono nati, appunto, per produrre pesche. Ma per i peri, i meli, i ciliegi e le altre piante la faccenda si complica. I vecchi peri, i vecchi meli, i vecchi ciliegi non possono obbedire e continuano a produrre pere, mele, ciliegie. Si comportano come irriducibili sovversivi e il padrone non può tollerare un fatto del genere e, allora, o li sradica, o li pota barbaramente in modo da renderli improduttivi; o ne avvelena le radici. Il padrone elimina o neutralizza i vecchi alberi soltanto; per giovani, invece, ricorre all’innesto. Ciò è contro natura perché il pero, il melo, il ciliegio non sono nati per produrre pesche, ma il padrone non ammette indisciplina: o rinnovarsi o morire. Non so se la mia similitudine sia molto felice: comunque, apprezza lo sforzo che ho fatto per rendere l’idea. Ora, postero diletto, metti nel frutteto, al posto degli alberi, altrettanti individui: al posto del padrone metti il Regime e arriverai a comprendere probabilmente il problema della spersonalizzazione. Naturalmente, e ciò dispiace molto ai Regimi, trattandosi di uomini, non è possibile tagliare a un tizio la testa, innestandogliene sul collo un’altra. E poi, mentre, anche se l’albero è giovane, è facile stabilire se esso sia un pesco, o un melo, o un pero, o un ciliegio, è difficile stabilire che tipo di testa, di pensieri e di tendenze abbia un giovane. Occorre, allora, una diligente e acuta indagine da compiere caso per caso. E il compito delicato viene affidato alla Scuola che, essendo di Stato, deve funzionare come qualsiasi altra azienda del Regime. I giovani interessano e preoccupano sopra ogni altra cosa i Regimi. I giovani sono pericolosi: le loro reazioni – non ancora sufficientemente controllate da quel senso dell’opportunismo che frena gli impulsi degli uomini maturi – sono pericolose. (…) Ogni Regime ha paura dei giovani e ai giovani rivolge le più attente cure attraverso la Scuola, gli enti parascolastici, le organizzazioni politiche, parapolitiche e criptopolitiche assistenziali e psuedobenefiche, sportive e pseudosportive. Ma la Scuola è lo strumento più efficiente e più importante, perché ha un doppio compito: svuotare il ragazzo eliminando in lui ogni fermento nocivo o sovversivo per poi riempirlo di idee e propositi conformisti. La Scuola, sotto ogni Regime, è destinata a divenire la Grande Pianificatrice dei cervelli. La Fabbrica dei Cretini. Parole certamente dure, velate di amarezza, che risentono del clima politico del tempo, i carri armati del Patto di Varsavia erano ancora agli angoli delle strade di Budapest, ma che non possono non colpire per la loro lucidità e attualità. Proseguendo nell’analisi dell’opera, mi permetto di proporre ancora un paio di pensieri del grande scrittore “della Bassa”. Cerca fuori dalla scuola gli ammaestramenti per la vita. Ai miei tempi, era in grande auge il cosiddetto tema di fantasia: esso è oggi schifato.”Lavorando di fantasia il ragazzo non impara a osservare, si distacca dalla realtà”, dicono i tecnici. “Niente più finzioni”. La verità è un’altra: chi lavora di fantasia non osserva ma pensa. La fantasia è la palestra del pensiero e i Regimi non vogliono gente che pensa. Vogliono uccidere la tua fantasia, postero diletto: questa è la sostanza. La fantasia è reato: quando tu racconti a te stesso una storia fantastica della quale tu sei il protagonista tu esperimenti la tua personalità. Figlio mio, tu sei chiuso dentro una esigua stanza assieme alla tua bicicletta: fin quando quei quattro muri ti terranno prigioniero, tu non potrai mai provare – pedalando -l’efficienza dei tuoi garretti. La potrai provare avendo a tua disposizione, tutta per te, una pista. La fantasia ti offre lo spazio e l’aria che ti sono necessarie. La fantasia è la palestra del pensiero e della personalità: e il Regime vuole, uccidendo la tua fantasia, mortificare, comprimere, contenere la tua personalità.
Prosegue ancora Guareschi, con quell’ironia e con quel realismo inconfondibili, riflessi di un animo profondamente cristiano, autentico; i pensieri che seguono non possono non far riflettere, da un lato, i docenti che, nonostante tutto, si trovano ancora ad amare il proprio mestiere, accettando e tentando di vincere (o almeno a non perdere) ogni giorno la sfida dell’educazione; dall’altro mi auguro che qualche studente faccia proprio l’invito, la preghiera che uscì oltre cinquanta anni fa dalla penna del grande scrittore emiliano. Difenditi, postero mio. Diffida di tutto quello che a scuola t’insegnano. Anche dello stesso Teorema di Pitagora. Controlla pignolescamente se il Teorema di Pitagora che t’insegnano funziona come il Teorema di Pitagora che insegnavano cinquant’anni fa. Impara a detestare, nel tuo intimo, tutto ciò che è collettivo. Collettivismo significa umiliazione dei migliori ed esaltazione dei peggiori. Il collettivismo è per i vili che vogliono sottrarsi alla responsabilità individuale per rifugiarsi nell’ombra della irresponsabilità collettiva. Difenditi e reagisci.
Il nuovo esame di stato calpesta le scuole paritarie
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano l’assessore Salvaterra e gli esponenti politici del centrosinistra trentino. E sarei curioso di leggere un commento del direttore dell’istituto Arcivescovile di Trento, don Umberto Giacometti, presidente delle scuole cattoliche della nostra regione.
Con la legge n. 1 dell’11 gennaio 2007 il nuovo esame di Stato, che conclude il ciclo dell’istruzione secondaria superiore, è diventato realtà. Nelle nuove norme aspetti positivi si sommano ad aspetti assolutamente negativi. Con la legge è stata infatti introdotta una discriminazione nei confronti dei docenti e degli alunni delle scuole paritarie, discriminazione che contraddice, nello spirito e nella lettera, la legge paritaria n. 62 del 2000.
Succede, infatti, che i dirigenti e i docenti delle scuole paritarie, provvisti dei dovuti titoli accademici di laurea ed abilitazione, non potranno ricoprire il ruolo di presidenti e commissari esterni nelle Commissioni di esame delle scuole statali e paritarie. Inoltre non è prevista la copertura delle spese da parte dello Stato dei commissari interni paritari alla stregua dei corrispettivi colleghi statali. Il modo in cui è stata introdotta questa discriminazione è la norma che stabilisce che i commissari esterni devono essere insegnanti assunti attraverso pubblico concorso, quindi solo statali.
Se l’assunzione per concorso dovesse essere un prerequisito per partecipare come commissario esterno ad una commissione di esame di Stato, lo stesso dovrebbe valere anche nel caso dei commissari interni perché concorrono a "costituire" la "commissione" esaminatrice di Stato di una scuola paritaria, valutando gli alunni e rilasciando un titolo di studio con valore legale a seguito appunto di un esame di Stato.
La necessità di un "concorso" pubblico non era mai stata prescritta nei decenni scorsi né per i membri interni delle scuole legalmente riconosciute o paritarie, né per i membri esterni, provenienti dalle scuole legalmente riconosciute, delle commissioni statali. Inoltre la decisione di mettere a carico delle scuole paritarie l’onere spettante ai propri commissari interni è ingiusta in quanto essi svolgono una funzione pubblica, all’interno di una commissione statale, per rilasciare un titolo di studio con valore legale.
Si smentisce così una prassi esistente da decenni, ben prima della legge sulla parità, nonostante le scuole legalmente riconosciute non fossero affatto considerate "parte costitutiva" dell’unico sistema scolastico nazionale, come recita il primo articolo della legge 62/2000.
Ecco perché queste nuove norme sull’esame di Stato costituiscono distorsioni, forme striscianti di neostatalismo, di misconoscimento della funzione pubblica della scuola paritaria e del servizio altrettanto pubblico e di pubblica utilità svolto dai suoi dirigenti e docenti. A dichiarazioni verbali di rispetto e attuazione della legge 62 del 2000 corrispondono sempre più spesso atti che ne violano lo spirito e la lettera.
La Provincia autonoma di Trento, che come dimostra la recente riforma varata in questo settore nel luglio scorso dispone in materia scolastica di una relativa indipendenza normativa, per ora ha accolto la nuova legge nazionale senza batter ciglio, senza probabilmente curarsi dell’impatto di questi cambiamenti sugli istituti paritari. I cui dirigenti preferiscono subire queste mortificazioni e continuare a vedere discriminate le paritarie, per il timore che protestare contro queste sopraffazioni potrebbe magari determinare ritorsioni finanziarie della Provincia.
Ma sentirsi sotto ricatto vuol dire accettare il rango di istituti di "serie B" o "C" assegnato dalla politica – e non, si badi bene, dalle leggi – a queste scuole che esercitano un servizio pubblico a tutti gli effetti e dovrebbero quindi godere di pari diritti rispetto a quelle gestite dalla Provincia. Altrimenti anche gli alunni e le famiglie che hanno scelto l’iscrizione a queste scuole sono da considerare, in ragione di questa scelta, cittadini di "serie B" o "C".
Cambia l’esame di maturità. Ma la qualità della scuola dipende dagli insegnanti
E’ un silenzio assordante quello con cui il mondo della scuola – gli studenti, gli insegnanti, i dirigenti, i genitori – sembra aver accolto la riforma dell’esame di maturità, introdotta con una legge che ha ottenuto il voto favorevole dalla Camera (275 sì e 220 no) e la cui entrata in vigore è in parte prevista già nel 2007.
I cambiamenti
Tra le novità previste dal provvedimento, c’è il ritorno della commissione mista d’esame, composta da non più di sei membri, per metà professori interni e per metà esterni.
I docenti esterni non potranno appartenere allo stesso distretto scolastico dell’istituto, per garantire un esame più rigoroso. I commissari potranno invece gestire al massimo solo due commissioni. Torna anche lo scrutinio di accesso agli esami: sarà necessario aver superato tutti i debiti accumulati negli anni per poter sostenere la maturità. Lo sbarramento all’accesso, comunque, non entrerà in vigore quest’anno, come spiegano le disposizioni transitorie e finali del testo. I maturandi del 2007 non rientreranno neanche nella nuova distribuzione dei punti: 25 di credito scolastico (ora sono 20), 45 per le prove scritte, 30 per l’orale, 5 di bonus, la lode per chi ottiene il 100.
Saranno ammessi solo «gli alunni delle scuole parificate nelle quali continuano a funzionare corsi di studio fino al loro completamento». Scatta così, dunque, il giro di vite contro i cosiddetti “diplomifici”, che ogni anno raccolgono candidati da tutta Italia.
Con la nuova maturità, poi, negli istituti tecnici, professionali e in quelli d’arte, la seconda prova diventa a carattere laboratoriale e può svilupparsi su più giorni. Rimane comunque confermata la scansione delle tre prove scritte più l’orale. Oltre ai contenuti dell’ultimo anno, saranno valutate anche le basi di cultura generale. È previsto poi il raccordo con l’università per l’avvio di appositi percorsi di orientamento. Una novità, quest’ultima, che sarà inserita nei due decreti delegati che scaturiranno dall’esame. L’altro riguarda le borse di studio per i meritevoli.
Dove sta il problema
Si tratta dell’ennesimo terremoto, scatenato dall’alto, sulla già fin troppo scossa e politicamente maltrattata scuola italiana (e trentina), con una specie di “ritorno al passato” voluto dal Ministro Fioroni in nome della necessità di rendere più seria, severa e selettiva la produttività dell’istruzione superiore.
Il centrosinistra pensa così di rimediare ad uno dei devastanti effetti prodotti dai suoi stessi “padri” sessantottini (o sessantottardi), fra i quali il “6 politico” e una maturità ridotta ad un passaggio puramente formale e simbolico, essendo la promozione garantita, o quasi, per tutti.
Questa nuova riforma rappresenta inoltre il vano tentativo di reagire all’insignificanza, dal punto di vista del mercato del lavoro, del valore legale del titolo di studio.
La verità è che non è inasprendo l’esame finale che si può meglio certificare la qualità della preparazione degli studenti. Assisteremo alla crescita esponenziale delle bocciature e ad un’inversamente proporzionale calo delle promozioni, con l’unica conseguenza di ritardare di uno o più anni l’occupazione dei giovani, oppure l’eventuale prosecuzione dei loro studi, perché non è affatto detto che essere promossi o risultare respinti alla maturità dimostri effettivamente la “maturità” dei ragazzi.
Studenti nel mirino. Ma chi valuta la proefssionalità dei docenti?
Il problema sta piuttosto nei criteri utilizzati per la selezione conclusiva degli studenti. Criteri che in larga misura sono affidati alla discrezionalità e sensibilità soggettiva dei docenti, dei commissari e dei dirigenti scolastici e non a parametri oggettivi, rispondenti sia a requisiti interni sia alle richieste esterne – delle famiglie, dell’università, delle imprese – al sistema dell’istruzione e della formazione.
A pagare sulla loro pelle il prezzo salato di questo nuovo esame saranno quindi i ragazzi e le famiglie, mentre non si prevede alcun sistema di selezione, reclutamento e valutazione della professionalità dei singoli insegnanti.
Gli alunni continueranno a ritrovarsi di fronte alcuni docenti di ottimo livello e altri di basso profilo e tuttavia soggetti all’identico trattamento.
Dove ai secondi è lasciata piena libertà di danneggiare sia i ragazzi sia l’immagine della scuola nonostante l’operazione di facciata attuata con la riforma della maturità. Senonché proprio dall’affidabilità e capacità degli insegnanti dipende la qualità e la produttività della scuola. Se il vero cambiamento, la riforma della scuola non parte da lì, modificare in senso più o meno permissivo l’esame di maturità non avrà alcun rilievo.
C’è allora davvero da chiedersi dove sia finita la “tigre”, cioè la parte più agguerrita del movimento studentesco che organizzava durissime manifestazioni di protesta contro il ministro Moratti e la sua riforma “classista” per contestare la privatizzazione della scuola.
Ora che il governo mette nel mirino proprio loro, gli studenti, nessuno fiata, non si organizzano assemblee di istituto né volantinaggi né scioperi. Nulla di nulla. Tutto bene madama la marchesa. Che il motivo sia la mancanza del solito ordine di scuderia?
Gian Burrasca
La ragione, esigenza di totalità
Ho trascritto e riordinato per titoli gli appunti presi ieri sera nel corso dell’incontro all’auditorium di Trento con don Julian Carron (nella foto), presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che ha presentato il libro di Luigi Giussani "Il rischio educativo". Tema della serata: "L’educazione come fattore costruttivo di persona e popolo". Seguito da più di 1.500 persone (anche da un vicino teatro in videoconferenza diretta) e promosso dal rettore dell’Università Davide Bassi insieme al presidente della Cooperazione trentina Diego Schelfi, si è trattato di un vero e proprio evento per la nostra regione. I brani citati mi sembrano fra i più significativi, ripresi purtroppo solo in minima parte dalla stampa, e riflettono il nucleo sia dell’intervento introduttivo che delle risposte di don Carron alle domande emerse in sala.
Destare l’interesse
«Oggi un educatore non può dare per scontato che un soggetto abbia il desiderio di imparare. Il problema è che tante volte questo desiderio di imparare non c’è. Occorre dunque ridestarlo. La Chiesa ha lo stesso problema, perché non può dare per scontato l’interesse per la fede. Deve destarlo. Ci troviamo davanti ad una profonda crisi dell’umano. Sembra che niente interessi abbastanza per mettere in moto l’io. Questo succede perché c’è negli adulti uno scetticismo che sono soprattutto i giovani a pagare. Senza qualcosa di vero da proporre, gli adulti non riescono ad interessare i giovani, e allora restano solo i richiami etici e moralistici, che però non sono in grado di mobilitare l’io. Ciò che è in crisi è il nesso misterioso che unisce il nostro essere con il reale.
La domanda di totalità
L’educazione esiste quando qualcuno è introdotto alla realtà nella sua totalità. Ma il punto di partenza è la realtà che continua a ridestare una domanda di totalità. Quali che siano le circostanze in cui si trovano, questa domanda continua a sorgere soprattutto nei giovani. Ecco perché con l’educazione occorre offrire loro un’ipotesi di significato esplicativa della totalità della realtà. Non a caso ad un bambino non interessano i singoli pezzi di un giocattolo ma il suo significato Sarebbe assurdo regalare a un bambino un giocattolo senza svelargliene il significato.
Tradizione, autorità, obbedienza
Il passato è la ricchezza di un popolo che serve alle generazioni per evitare di dover ricominciare ogni volta la storia da capo. Questa è la tradizione. C’è bisogno che a presentarla ai giovani sia un’autorità, cioè una persona piena di affezione per un passato che gli permette di vivere il presente in modo affascinante. Autorità è un adulto che mette nel reale tutto se stesso, che sa affascinare e sfidare gli altri per il suo modo di vivere. L’autorità non sostituisce ma ridesta le domande e lo spirito critico. Anzi. Cerca la critica perché sia possibile la verifica di quel che propone. L’autorità è un volto che abbiamo bisogno di rintracciare perché ci guidi nella strada della vita. Occorre che come educatori ci chiediamo se abbiamo presentato la tradizione con sufficiente interesse e fascino per avere la capacità di trascinare l’interesse dei ragazzi. L’obbedienza è messa in moto se ci troviamo di fronte a qualcosa che ci fa diventare di più noi stessi, che risponde all’attesa del cuore. Allora nasce la curiosità, lo stupore e il tentativo di seguire per immedesimarsi nelle ragioni dell’autorità.
La sfida alla ragione
Una cosa diventa nostra solo se la mettiamo alla prova per verificare se corrisponde alle esigenze del cuore. Dove manca la sfida continua alla ragione non esiste educazione, perché non si riesce a mettere in moto il centro dell’io come ragione, libertà e affezione. Trovare un luogo e persone che ridestano l’io sarà la vera possibilità di speranza per il popolo. La ragione è questa esigenza di totalità che emerge di fronte al contraccolpo del reale. Si è invece ridotto il concetto di ragione a qualcosa che si può misurare. Per questo Benedetto XVI nel suo discorso a Ratisbona ha proposto di allargare la ragione perché essa non sia ridotta ad un tipo di sapere o ad un tipo di razionalità che non risponde all’esigenza di totalità dell’io».
Antonio Girardi
Ecco ciò che servirebbe alla scuola (il contrario di quel che vuole il ministro)
Riporto di seguito l’articolo di Giovanni Cominelli pubblicato sull’ultimi numero del settimanale "Tempi", perché è la migliore risposta che io abbia trovato alle sconfortanti e per certi aspetti inquietanti dichiarazioni rilasciate anche a Trento, il mese scorso, dal ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni. Leggetelo. Ne vale la pena.
«Secondo il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni l’asse del male è costituito da coloro che sostengono la liberalizzazione del sistema educativo nazionale, perché mettono al centro delle politiche educative il mercato e il profitto. Qui serve una elementare terapia del linguaggio.
Che cosa è la liberalizzazione di un servizio? è il passaggio dall’offerta del servizio da parte di un solo soggetto monopolistico, statale o privato, all’offerta concorrenziale e competitiva da parte di più soggetti, statali e/o privati.
L’offerta plurale consente il dispiegarsi della libertà effettuale, da parte degli utenti, di scegliere sulla base di giudizi fattuali circa la qualità e la convenienza del servizio offerto. Al centro della liberalizzazione stanno la persona, l’utente, il consumatore, la famiglia, cioè la domanda. Al centro del monopolio, a proprietà statale o a proprietà privata, stanno gli interessi del gestore, alle condizioni incontrollabili con cui egli offre il servizio.
Passare da un monopolio statale a un monopolio privato non è liberalizzazione, è solo privatizzazione. Nel sistema educativo italiano, caratterizzato dal 96 per cento di offerta pubblica statale e dal 4 per cento di offerta pubblica paritaria, la liberalizzazione consiste, in primissimo luogo, nel realizzare l’autonomia delle scuole sancita nella Costituzione. Lo Stato definisce il curriculum essenziale della cittadinanza attiva, le scuole lo offrono a ciascun utente nella forma di piano di studio personalizzato, costruito tra scuola, studente, famiglia.
Si tratta di passare dal centralismo burocratico, statale e ministeriale, alle circa 12 mila autonomie scolastiche in competizione virtuosa tra loro, senza con ciò affidarsi al mercato e al profitto. A queste autonomie appartiene anche il 4 per cento pubblico e paritario, la cui espansione ulteriore, fino a raggiungere almeno le percentuali europee del 20/30 per cento del sistema, non può che giovare alla concorrenza e alla qualità.
Perché il ministro identifica statalismo centralistico con qualità ed equità dell’offerta educativa?
Il cattolicesimo politico ha sempre difeso il primato della persona, della famiglia e della società civile contro lo statalismo liberale e fascista, vedasi alla voce Sturzo! Una volta conquistato il governo dello Stato, la cultura statalista ha conquistato il cattolicesimo politico. E lì stanno: discepoli immaginari di Sturzo, nipotini effettivi di Giovanni Gentile».
Autonomia scolastica. I politici la smettano di prenderci in giro
(Nella foto, il ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni)
Il 45,8% dei docenti e il 71,4% dei genitori della scuola trentina non ha avvertito alcun cambiamento dopo la riforma che nel 2000 ha reso più autonomi gli istituti. Diversa la percezione dei dirigenti, il 71,6% dei quali giudica molto positiva la riforma.
E’ quanto emerge dalla ricerca condotta dal comitato provinciale di valutazione presieduto da Giorgio Alulli, commissionata dalla Giunta Dellai e presentata pubblicamente nei giorni scorsi.
E’ lecito chiedersi che valore abbia l’autonomia tanto decantata in questi anni se gli insegnanti e le famiglie, vale a dire i principali attori del sistema non se ne sono neppure accorti, o quasi.
Il fatto che gli unici ad apprezzare l’introduzione delle norme sull’autonomia siano stati i dirigenti (anche se non è così per il 30% degli ex presidi), è sintomatico di come questo strumento rivesta un’utilità essenzialmente burocratico-amministrativa e organizzativa interna.
L’autonomia scolastica non ha cioè avuto riflessi significativi sui processi di istruzione e formazione, né dal lato dell’offerta né dal punto di vista della domanda, lasciando indifferenti proprio le componenti più importanti del sistema educativo, perché erogano o sono destinatarie del servizio, per le quali “non è cambiato nulla”.
Il dato è curioso e un po’ paradossale se si considera che durante la sua recente visita a Trento, il ministro della pubblica istruzione Fioroni aveva enfatizzato proprio il tema dell’autonomia scolastica, attribuendo a questa prerogativa la capacità di qualificare i singoli istituti e di rendere dunque inopportune altre riforme in questo settore.
“Le scuole – aveva spiegato – sono autonome, in grado di decidere i loro obiettivi e di gestire al meglio le risorse ad esse affidate, senza bisogno di essere ulteriormente terremotate da nuove riforme, visto che negli ultimi anni ce ne sono state anche troppe”.
Il ragionamento del ministro appare doppiamente contraddittorio.
1. In primo luogo perché se fino ad oggi l’unico effetto, o quasi, delle riforme della scuola è stato quello di “terremotare” il sistema, allora è urgente intervenire con provvedimenti che riportino quantomeno la situazione alla normalità. Magari non occorrerà chiamarli “riforma” per non dare l’impressione di voler cambiare tutto, ma sicuramente qualche iniziativa importante dovrà essere promossa per evitare, stando alla sua metafora, che le crepe aperte da tutti questi terremoti non provochino il crollo dell’edificio. Perché se un ministro della pubblica istruzione annuncia all’inizio del suo mandato la volontà di non voler riformare (vale a dire migliorare, sviluppare o risanare) la scuola, autorizza a pensare che non disponga di una strategia politica propositiva da attuare.
2. La seconda contraddizione, riguarda l’autonomia sancita sei anni fa e introdotta anche nella nostra provincia dalla riforma nazionale. L’esito dell’indagine effettuata “sul campo” nel nostro territorio, dimostra che i risultati dell’autonomia scolastica sono davvero scarsi e deludenti rispetto alla rilevanza quasi rivoluzionaria di cui, da allora ad oggi, questa innovazione è stata sempre più caricata. Rilevanza ribadita nella sua visita a Trento dallo stesso ministro ma smentita due settimane dopo da una ricerca della stessa Provincia che l’ha ospitato.
Queste osservazioni dovrebbero indurre sia il governo di Roma che la Giunta provinciale ad interrogarsi seriamente sul reale “tasso di autonomia” delle scuole.
Perché se quella che finora è stata presentata e sbandierata come “autonomia scolastica” si riduce alla possibilità per i dirigenti di disporre di un margine peraltro ridotto di manovra in più nella gestione delle risorse degli istituti, forse è arrivato il momento di smetterla di giocare con le parole.
I politici dovrebbero piantarla di prendere in giro i docenti, gli studenti e le famiglie raccontando la favola dell’autonomia.
Perché vera autonomia vi sarà solo a due condizioni strettamente correlate:
a) quando gli istituti potranno selezionare e assumere gli insegnanti attraverso appositi concorsi, per qualificare e distinguere la propria offerta agli occhi dell’utenza;
b) e quando ai genitori e ai ragazzi la libertà di scegliere la scuola, da chiunque sia gestita, che ritengono più adeguata alle loro esigenze ed aspettative. Ma perché questo accada servirebbe una seria politica di riforma.
Gian Burrasca
Il Ministro Fioroni e la sussidiarietà capovolta
Tre considerazioni dopo la giornata fitta di incontri trascorsa dal ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni a Trento, in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico nel nostro territorio.
l. Consapevole di poter agevolmente compiacere la giunta provinciale di centrosinistra in casa della quale giocava, il ministro ha dato un forte taglio politico alla sua visita, sparando ad alzo zero contro il governo Berlusconi. L’esatto contrario dell’atteggiamento tenuto da Letizia Moratti quando in Trentino, due anni fa, aveva dedicato i suoi interventi alle cose da fare.
Fioroni ha ribadito a più riprese, specie davanti ai giornalisti, la sua volontà di rimuovere le storture e i mali di cui soffre la scuola e ripetutamente imputati al precedente esecutivo.
Si è così accattivato soprattutto la simpatia degli esponenti della sinistra più intransigente (al suo fianco la diessina Margherita Cogo non riusciva a nascondere la soddisfazione) e, non a caso, anche il plauso di Agostino Catalano di Rifondazione comunista, che in Consiglio provinciale è all’opposizione.
Ma, tutto preso com’era dalla pars destruens, il Ministro non ha preannunciato alcun intervento innovativo per cambiare la situazione.
Certo, ha detto di aver fiducia nell’autonomia degli istituti, promettendo di sfuggire alla “riformite acuta” di cui la scuola soffre da anni senza trarne beneficio. Ma abbiamo tutti sotto gli occhi gli enormi problemi dell’istruzione e della formazione in Italia – dal costo esorbitante e ormai insostenibile dei suoi dipendenti (un esercito di oltre un milione e 200mila unità), all’insufficiente raccordo con il mondo del lavoro, per non parlare della frustrazione dei docenti la cui preparazione professionale non ha alcun valore – e sappiamo benissimo che non si risolveranno da soli.
Il fatto poi che il ministro si trovi ancora nella fase di avvio del suo mandato non giustifica l’assenza di un serio programma orientato a sciogliere questi e altri nodi.
2. Fioroni a Trento si è indubbiamente dimostrato un abile oratore, capace di intrecciare senza pause ragionamenti anche arditi, dando all’uditorio l’impressione di tenere la situazione totalmente sotto controllo nonostante la complessità delle questioni sul tappeto.
Tra i termini più ricorrenti nei suoi discorsi, quello di sussidiarietà ha avuto un ruolo importante per spiegare il rapporto fra scuola pubblica e istituti non statali.
Stravolgendo, però, il significato di questo principio.
Nella sua risposta alla domanda rivoltagli da un giornalista in merito alla parità, il ministro ha infatti evocato il ruolo “sussidiario” della scuola materna non statale, il cui merito sarebbe quello di coprire il 40 per cento del servizio educativo nel nostro Paese.
Per Fioroni, cioè, la sussidiarietà non vuol dire che l’ente pubblico è tenuto a favorire l’iniziativa e l’organizzazione dei cittadini per rispondere ai loro bisogni, e ad intervenire quindi solo laddove questa non sia sufficiente.
Al contrario per il ministro la “sussidiarietà” coincide con il compito strumentale, di pura integrazione e supplenza del servizio erogato dall’ente pubblico assegnato ai soggetti del privato-sociale, se lo Stato non riesca ad occupare tutti gli spazi.
Come dire che quando l’intervento pubblico arriverà ovunque, delle scuole “paritarie” si potrà fare tranquillamente a meno. In questa visione statocentrica, alle scuole non statali, nel nostro caso provinciali, è lasciato un ruolo residuale ed è tutt’al più concesso di fornire eccezionalmente un servizio di pubblica utilità dato che per il momento non sarebbe possibile rinunciarvi.
Se quindi il governo Berlusconi non ha favorito la parità, pur politicamente condivisa, avendo drasticamente ridotto nella legge finanziaria le risorse riservate alle scuole non statali, Fioroni capovolge l’idea stessa di sussidiarietà, affermando che l’ente pubblico non deve affatto incoraggiare l’impegno dei privati in campo educativo, ma può al massimo tollerarne utilitaristicamente la sopravvivenza – specie nella fascia considerata più indolore delle scuole materne – in attesa che lo Stato o la Provincia si assumano in prima persona anche la responsabilità di questo come di ogni altro ambito.
3. E’ interessante registrare la delusione espressa, comprendendo questa posizione di Fioroni, da don Umberto Giacometti, dirigente della maggiore scuola paritaria del Trentino, che su questi temi è solito mostrarsi pienamente in sintonia con gli esponenti, ministri e assessori, del centrosinistra, specie se dichiarano la propria ispirazione cristiana. Forse don Umberto ha capito che questa linea, oggi, non paga più.
Di mezzo c’è il clamoroso flop del liceo internazionale da lui fortemente voluto a Rovereto, aperto proprio quest’anno dall’Arcivescovile con l’indispensabile e cospicuo apporto finanziario della Provincia.
L’insuccesso, che ha di molto inasprito il clima delle relazioni fra Giacometti, il presidente della Giunta Dellai e soprattutto l’assessore Salvaterra, potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per ripensare a fondo il rapporto fra Provincia e scuole paritarie.
Magari ripartendo dall’esigenza di mettere gli alunni e le famiglie nelle condizioni di scegliere liberamente l’offerta educativa più adeguata alla loro domanda.
All’insegna, questa volta, di una vera sussidiarietà.
Gian Burrasca
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