Sguardo realista o cecità ideologica

Il vero dramma è descritto da De Lubac: l’umanesimo ateo ha organizzato il mondo contro Dio ma alla fine si è rivelato anche contro se stesso!
Ciò nonostante, all’interno di questa tragedia è stato possibile riproporre all’uomo l’annuncio cristiano nella sua assoluta originalità, rivolgendosi non al militante di una ideologia, ma direttamente a Dio.
L’uomo, vinto ma non annichilito dal peccato, può ritrovare la propria umanità attraverso la presenza positiva del Creatore, può erigere la sua vita sulla speranza: è in questo incontro che la ragione umana nell’impatto con la fede trova possibilità di essere valorizzata. Il compito dell’uomo è allora quello di ricercare ciò che ancora non possiede, il domandare greco come cammino per la conoscenza di sé. Questa tensione è il requisito per un’esistenza umana finalmente rilevata nella sua identità profonda.
Non si incoraggia ad una critica nauseante e superficiale: non sosteniamo un ottimismo ingenuo ma nemmeno uno sconfittismo pessimista; il realismo ci motiva ad essere attivi e non dei meri telespettatori del teatrino politico. Questa dose di sano realismo permette di tenere lo sguardo vigile cercando di scoprire il bene ed il bello e di lasciarsi stupire dalla realtà.
Il problema è un atto profondo di orgoglio giocato sul concetto di Chiesa, vista come un’organizzazione umana o come corpo di Cristo: essa è detta universale proprio perché ha un respiro più ampio. La fede è il semplice riconoscimento di una Presenza, un incontro che ci abbraccia: altrimenti, qualsiasi altra visione della fede, seguace della disciplina o dell’ordine mentale, ci portano a vedere un Dio pronto ad aspettare la nostra morte, per decidere con una biro ed un block notes in mano per quanti anni, mesi, giorni, minuti e secondi dovremo scontare la nostra pena eterna.
Uno scritto di C.S. Lewis, L’uomo nato cieco, ci aiuta a capire quale sia il giusto atteggiamento da tenere di fronte alle cose: Robin, appena rientrato dalla clinica per un’operazione che gli ha donato la vista, non riesce a darsi pace nella ricerca della luce. Tutte le spiegazioni che gli vengono date dalla moglie circa la luminosità degli oggetti, dei paesaggi circostanti, sembrano non esaurire la bramosia dell’uomo. Inizialmente il lettore viene affascinato da questo desiderio del protagonista di guardare oltre la superficialità, poiché sembra che ci sia un significato più profondo nascosto dietro ogni cosa, che ancora non si riesce però a cogliere.
Una mattina, mentre la moglie Mary è a letto ammalata, Robin compie in casa delle azioni chiudendo deliberatamente gli occhi per provare ancora le sensazioni che aveva sperimentato quando era cieco: facendo ciò trova inaspettatamente piacere e sollievo dati anche dalla “dolce sensazione di fuga che giungeva dall’assenza di lei”. Decide poi di uscire di casa e giungere nel luogo in cui era stato pochi giorni prima con Mary. Scorge così un pittore nei pressi dei bordi di un precipizio che, disegnando, gli spiega la sua intenzione di voler catturare la luce: Robin entusiasta e con tono vendicativo nei confronti del mondo si compiace nel credere di aver trovato qualcuno con cui condividere la sua presunta superiorità intellettuale.
Si avvicina poi al precipizio: “l’espressione del volto del pittore cambiò: “Ehi, è pazzo?”. Fece per afferrare Robin, ma era troppo tardi. Era già solo sul viottolo. Dal fondo di un nuovo e subito svanito squarcio nella nebbia non giunse alcun grido, ma solo un suono così secco e netto che ce lo si sarebbe difficilmente aspettato dalla caduta di una cosa così soffice come un corpo umano; quello, e il rotolare di alcune pietre spostate”.
Una morte priva di umanità dunque, un tonfo come di qualcosa di prettamente materiale, privato dell’anima: ecco il destino di una figura impregnata di ottusità ideologica, che decide di cercare in modo solitario la Verità. Questa presunzione, che spesso tutti ci portiamo dentro, ci fa spacciare per “luce e reale” ciò che invece non è altro che la nostra idea: davanti alla realtà corriamo il rischio di negare l’evidenza in nome di una raffigurazione che noi stessi compiamo, che ci siamo prefigurati a priori, prima di “acquistare la vista” (tanto che di fronte ad una realtà diversa dall’immaginata, Robin preferisce richiudere gli occhi e vivere come prima, piuttosto che affrontarla).
Ma questa non è nient’altro che la posizione infantile di chi, senza esperienza e infastidito da una guida, si ritiene in grado di quella forma mentis che coglie e capisce tutto, senza nemmeno riuscire a gustare ciò che ha intorno.
Non a caso è il titolo del libro: non si parla di cecità fisica, ma di una condizione esistenziale insolubile.
Robin aveva riacquistato la vista, ma, indipendentemente da tutto, era cieco.

La vita è un viaggio.

La letteratura occidentale nasce dall’idea di viaggio: quello degli Argonauti, che solcano per la prima volta il mare, quello dei Greci, verso Troia, quello di Ulisse, che ritorna ad Itaca. Il viaggio, infatti, implica una direzione, cioè un senso, una grandezza umana da sviluppare, come un seme, badando che non muoia. Ulisse deve superare la tentazione dell’immortalità, offertagli da Calipso; deve sfuggire al fascino del loto, il fiore che potrebbe inebriarlo, e fargli dimenticare il fine del suo viaggio; deve sconfiggere le malie di Circe, l’allettamento dei sensi, degli istinti, che lo trasformerebbero in un maiale. Ricerca e conquista, rinuncia e sacrificio. Ma la meta dell’Ulisse greco è la sua isola, la sua famiglia, sua moglie: tutto l’orizzonte possibile di una nobilissima concezione naturalista. Nel medioevo Dante immagina anch’egli un viaggio grandioso. La Commedia infatti è il cammino non verso un’isola terrena ma nei mondi ultraterreni. Si passa dall’inferno al purgatorio, per ascendere faticosamente il monte, ma non per fermarsi sulla cima: il traguardo è soprannaturale, è il cielo, la realizzazione eterna, perfetta, della felicità ineffabile, quella che “occhio d’uomo non ha mai visto, né orecchio d’uomo ha mai udito”. Questo è il vero approdo dell’uomo dopo Cristo: la virtù naturale non basta più, la felicità intravista, imperfetta, solo terrestre, che lascia nell’uomo ancora la sete, non è sufficiente; la ragione non raggiunge tutto, e non comprende ogni cosa. Per questo, se per i greci Ulisse poteva accontentarsi di Itaca, per Dante deve ripartire: occorre andare oltre, più in là, verso una patria, una famiglia non perituri. Così il viaggio di Ulisse nasce da uno sprone positivo, “seguir virtute e canoscenza”, per rispondere alla domanda dell’uomo di Bene (“virtute”) e di Verità (“canoscenza). Il Bene e il Vero sono infatti strutturalmente desiderati dall’uomo. Ma allora perché il volo di Ulisse diviene “folle”? Perché Ulisse non ha la grazia, non può, da uomo, raggiungere ciò che gli è superiore. Non può attraversare l’immenso oceano senza il sostegno divino, non può essere salvezza e compimento a se stesso. Dante compie lo stesso viaggio, ma è la grazia divina, innestata sul suo peccato, sulla sua creaturalità, a permetterglielo: non è l’uomo che va incontro alla salvezza, ma la salvezza che scende verso l’uomo che la cerca. E’ il soprannaturale che incontra l’uomo, che, faticosamente, sale. Succede esattamente come aveva intuito Platone: l’uomo giunge, con la ragione, alla metafisica, all’esigenza e alla razionalità di Dio, ma deve esserci “un dio” che gli si rivela, che svela quanto rimane di ineffabile e di umanamente non intelleggibile. L’idea della vita come viaggio è presente anche nel mito medievale del Santo Graal: i cavalieri della Tavola Rotonda partono da una terra desolata, guasta, simbolo della loro anima, per cercare la coppa che ha contenuto il sangue di Cristo. La coppa è simbolo della sete dell’uomo, che può essere saziata solo dal rapporto con Dio. Occorre ricercarla, affrontando pericoli estremi, che rimandano al combattimento interiore: se non fosse un mito cristiano sarebbe la stessa storia di Ulisse. La condizione necessaria per poter raggiungere il Graal è la domanda, la disponibilità e la purezza del cuore. Per questo Lancillotto, che ha tradito il suo re, Artù, non ci riesce. Solo Galvano può toccare il Graal ed “ha la possibilità di conoscere misticamente ogni suo segreto, ma al termine di questa straordinaria esperienza muore e una schiera di angeli viene a prendere la sua anima” (P. Gulisano, Re Artù, Piemme): il Graal infatti indica una meta eterna, la Felicità soprannaturale, che non è di questo mondo, perché l’oggetto della ricerca, su questa terra, non sono cose della terra! E’, invece, come scriverà un altro grande poeta del viaggio, Torquato Tasso, la Gerusalemme Celeste. Cosa rimane oggi, in Occidente, di questa idea letteraria e filosofica del viaggio? Ben poco: esso sembra non condurre più da nessuna parte, sembra aver smarrito il senso. L’uomo pare sempre più accontentarsi del loto, o di Circe. Oppure si lascia ammaliare da Calipso, e dalle sue promesse di immortalità. E’ così che il Santo Graal diviene, come ha scritto entusiasticamente Gregory Stock, alfiere dell’ingegneria genetica più feroce, la possibilità di manipolare il Dna, “il Santo Graal della biologia umana”, per dare inizio “all’autoprogrammazione dell’uomo”, alla “manipolazione di noi stessi”, allo scopo di divenire “molto più che semplicemente umani” (“Riprogettare gli esseri umani”, Orme).