Presentazione in aforismi di un reazionario colombiano

“I libri seri non istruiscono, interrogano”, parola di Nicol?s G?mez D?vila. E leggendo i suoi, di libri, non si può non sottoscrivere la verità di tale aforisma.

G?mez D?vila nella sua vita “lesse, scrisse e morì”. Nato a Bogot? il 18 maggio 1913, all’età di sei anni si trasferì a Parigi, dove ebbe un’istruzione umanistica degna di nota. A ventitré anni fece ritorno in patria e si ritirò a vita privata. I suoi giorni trascorrevano tra la lettura e la scrittura, in compagnia dei suoi amici più cari: i libri. Si dice di lui che l’unica cura che ritenesse utile contro il tedio dell’esistenza fosse la biblioterapia; G?mez D?vila si rintanava nella sua biblioteca e ne usciva solo a notte fonda, dopo aver scritto su piccoli quaderni verdi i propri pensieri, sotto forma di aforismi. Infatti, più che scrivere lunghe opere in prosa, lo studioso colombiano preferiva esporre le proprie considerazioni attraverso brevissime frasi, che hanno il pregio di andare direttamente al nocciolo della questione: “[…] tra poche parole è difficile nascondersi come tra pochi alberi”. In fondo, “scrivere è far sì che la frase aderisca al suo significato senza sbavature”.

Per le sue posizioni, G?mez D?vila è stato spesso definito un “reazionario”, epiteto di cui andava molto orgoglioso. Il suo è un antimodernismo inflessibile e intransigente, basato sull’inestirpabile convinzione che “l’umanità sia caduta nella storia moderna come un animale cade nella trappola” (Escolios, II, 471) e che la società attuale “ha sostituito il mito di una passata età dell’oro con quello di una futura età della plastica” (Escolios, II, 88).
Per D?vila i tre nemici più radicali dell’uomo sono: il demonio, lo Stato e la tecnica. Il primo perché è la perversione della trascendenza e perché “il più grande errore moderno non è l’annuncio della morte di Dio [che è “un’opinione interessante, che però non riguarda Dio”], ma l’essersi persuasi della morte del diavolo”; il secondo in quanto, più aumenta lo Stato più decresce l’individuo; e infine la tecnica, perché costituisce una perenne tentazione del possibile: mica per niente “il progresso è il flagello che Dio ha scelto per noi”.

Ma le frasi pungenti di G?mez D?vila toccano ogni ambito del vivere moderno.
Se “coltivare la lucidità è il fine della cultura” e “la prolissità non è un eccesso di parole, ma una carenza di idee”, la diretta conseguenza è che “forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita a leggere scrittori mediocri perché sono nostri contemporanei”. Infatti, “a volte basta una virgola per distinguere una banalità da un’idea”, ma è altresì vero che “un tocco di volgarità rende popolare qualsiasi libro”. “I progressi della stampa hanno incoraggiato la moltiplicazione di libri sciatti e prolissi, mentre l’obbligo di ricorrere allo scrivano e al rotolo di papiro induceva all’accuratezza e alla brevità. Ieri l’imperfezione di un testo era involontaria, oggi non è detto che lo sia. Le rotative vomitano immondizia che non aspira a essere nient’altro”, quindi meglio mettersi in guardia dagli scrittori moderni.
Ma il colombiano ne ha anche per chi legge, infatti: “le frasi sono pietruzze che lo scrittore getta nell’animo del lettore. Il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalla dimensione dello stagno”.
“Educare non consiste nel contribuire al libero sviluppo dell’individuo, ma nel fare appello a ciò che tutti hanno di buono contro ciò che tutti hanno di perverso”. Ecco quindi che, in tale contesto, “i pregiudizi proteggono dalle idee stupide”, perché “la verità è la gioia dell’intelligenza” e “chi scrive ragione con la maiuscola si prepara ad ingannare”: infatti, “il diavolo è troppo intelligente per essere razionalista, ma suggerisce oracoli razionalisti ai sui devoti perché lo venerino senza scrupoli”.

Secondo G?mez D?vila “questo secolo sta diventando uno spettacolo interessante: non per quello che fa, ma per quello che disfa”. Purtroppo “la democrazia non è tanto l’impero delle parole quanto quello delle menzogne” perché “la vita è officina di gerarchie. Solo la morte è democratica”. Allo stesso modo, anche la Chiesa è giusto che mantenga solido il suo assetto gerarchico e “chi richiede alla Chiesa di adattarsi al pensiero moderno, confonde per lo più l’esigenza di rispettare certe regole metodologiche con l’obbligo di adottare un repertorio di postulati imbecilli”.
“Il cristiano moderno non chiede che Dio lo perdoni, ma che ammetta che il peccato non esiste”; “progressisti atei e progressisti cattolici hanno rinunciato gli uni alla bestemmia, gli altri alla preghiera, per condividere, gli uni con gli altri, lo stesso culto delle fognature suburbane”, in nome del paradigma sociale secondo il quale “molti amano l’uomo solo per poter dimenticare Dio con la coscienza a posto”. “Il cristiano moderno sente l’obbligo professionale di mostrarsi affabile e allegro, di sfoggiare un benevolo sorriso a trentadue denti, di ostentare cordialità ossequiosa per convincere il miscredente che il cristianesimo non è un religione >, dottrina >, morale >. Il cristiano progressista ci stringe forte la mano con un ampio sorriso elettorale”.
Però “l’attuale crisi del cristianesimo non è stata provocata dalla scienza, o dalla storia, ma dai nuovi mezzi di comunicazione. Il progressismo religioso è il continuo sforzo di adattare le dottrine cristiane alle opinioni patrocinate dalle agenzie di stampa e dagli agenti pubblicitari”: “l’obbedienza del cattolico si è trasformata in un’infinità docilità a tutti i venti del mondo”.
Insomma, “imbecille è chi percepisce solo l’attualità”, mentre “il pensiero reazionario è impotente e lucido”.
Il problema della religione non ha investito unicamente i fedeli, infatti “è difficile simpatizzare con il clero moderno da quando è diventato anticlericale”. “La più grande preoccupazione della teologia moderna è il ruolo del cristiano nel mondo. Preoccupazione singolare, visto che il cristianesimo insegna che il cristiano non ha alcun ruolo nel mondo”.
G?mez D?vila si spinge fino a dire che “sul Concilio Vaticano Secondo non sono discese lingue di fuoco, come sulla prima assemblea apostolica, ma un torrente di fuoco: un Feuerbach”. E questo in virtù del fatto che “il Concilio Vaticano Secondo più che un’assemblea episcopale sembra[va] un conciliabolo di manifatturieri spaventati per aver perso la clientela”… Però, si sa, oggigiorno “addurre a difesa di qualcosa la sua bellezza irrita l’animo plebeo”, quindi meglio non dire troppo a voce alta quanto solenne è la Messa di Pio V, celebrata con canti gregoriani e silenzi carichi di Mistero…

Per chi volesse approfondire la conoscenza di G?mez D?vila, morto a Bogot? il 17 maggio 1994, consigliamo i libri “In margine a un testo implicito” (Ed. Adelphi, Milano, 2001, pp. 192, euro 10,33) e “Tra poche parole” (Ed. Adelphi, Milano, 2007, pp. 228, euro 14), da cui abbiamo tratto tutti gli aforismi sopra citati.

I tre nemici del Papa. “Attacco a Ratzinger” di Paolo Rodari e Andrea Tornielli

di Massimo Introvigne

Attacco a Ratzinger. Accuse, scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI (Piemme, Milano 2010) dei vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli non è né una storia né un’analisi sociologica del pontificato di Benedetto XVI. Si tratta invece di eccellente giornalismo, e di una cronaca attenta ai particolari e ai retroscena degli attacchi contro Benedetto XVI, che dal 2006 a oggi ne hanno fatto il Pontefice più sistematicamente aggredito da un’incessante campagna mediatica degli ultimi anni.

Rodari e Tornielli elencano dieci episodi principali, e a proposito di ognuno forniscono dettagli in parte inediti. La prima offensiva contro il Papa inizia con il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, il quale contiene una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo (1350-1425) giudicata da alcuni offensiva nei confronti dell’islam e dei musulmani. Ne nasce una grande campagna contro Benedetto XVI, alimentata sia da organi di stampa occidentali sia dal fondamentalismo islamico, che degenera in episodi violenti. A Mogadiscio, in Somalia, è perfino uccisa una suora.

Già in questo primo episodio l’analisi degli autori mostra all’opera tutti gli ingredienti delle crisi successive. Un buon numero di media, anzitutto occidentali, estrapolano la citazione dal contesto e sbattono la notizia della presunta offesa ai musulmani in prima pagina. Al coro di questi media – secondo elemento, che non va mai trascurato – si uniscono esponenti cattolici ostili al Papa, in questo caso personaggi come l’islamologo gesuita Thomas Michel, rappresentante a suo modo tipico di un establishment del dialogo interreligioso smantellato da Benedetto XVI per il suo buonismo filo-islamico tendente al relativismo. Intervistati dalla stampa internazionale questo cattolici lanciano un "attacco frontale a Benedetto XVI" (p. 26), essenziale per rendere credibili le polemiche della stampa laicista. Ma in terzo luogo Rodari e Tornielli non mancano di rilevare una certa debolezza nel sistema di comunicazione vaticano, molto lento rispetto alla velocità delle polemiche nell’era di Internet e non sempre capace di prevedere in anticipo le conseguenze delle parole più "forti" del Papa, prendendo per tempo le necessarie contromisure.
Tornando però dal discorso di Ratisbona come evento mediatico al discorso di Ratisbona come documento, gli autori riportano l’opinione dello specialista gesuita padre Khalil Samir Khalil secondo cui non si è trattato affatto di una gaffe del Papa bisognosa di correzione, ma di un passaggio integrale e ineludibile in un’analisi sui problemi dell’islam contemporaneo e sulla sua difficoltà a impostare correttamente il rapporto fra fede e ragione. Paradossalmente, rilevano gli autori, queste motivazioni profonde del passaggio sull’islam nel testo di Ratisbona sono state comprese da molti intellettuali musulmani, ma rimangono ostiche o ignorate per la grande stampa dell’Occidente.

Emerge dunque uno schema in tre stadi – errori di comunicazione della Santa Sede, aggressione della stampa laicista, ruolo essenziale di cattolici ostili a Benedetto XVI nel supportare quest’aggressione – che si ritrova in tutti gli altri episodi, con poche varianti. Il ruolo del dissenso progressista appare particolarmente cruciale nelle campagne successive al motu proprio del 2007 Summorum Pontificum, che liberalizza la Messa con il rito detto di san Pio V, e alla remissione della scomunica nel 2009 ai quattro vescovi a suo tempo consacrati da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991). Nel primo caso Rodari e Tornielli descrivono un quadro sconfortante di resistenza di liturgisti, riviste cattoliche, intellettuali con un accesso diretto ai grandi media come Enzo Bianchi ma anche vescovi e intere conferenze episcopali che si agitano, si riuniscono, arruolano la stampa laicista e tramano in mille modi per sabotare il motu proprio. La posta in gioco, notano giustamente gli autori che si riferiscono in particolare a uno studio di don Pietro Cantoni pubblicato sulla rivista di Alleanza Cattolica Cristianità, non è solo la liturgia ma l’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Chi combatte il motu proprio difende l’egemonia di quell’interpretazione del Vaticano II in termini di discontinuità e di rottura con tutta la Tradizione precedente che Benedetto XVI ha tentato in molti modi di correggere e scalzare.

Il caso della remissione della scomunica ai vescovi "lefebvriani" si è trasformato come è noto nel "caso Williamson". Il Papa è stato oggetto di durissimi attacchi quando è emerso che uno dei quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre, mons. Richard Williamson, è un sostenitore di tesi in tema di Olocausto che negano l’esistenza delle camere a gas e riducono il numero di ebrei uccisi dal nazional-socialismo a non più di trecentomila. Al di là del merito della questione, è evidente che la Santa Sede non condivide queste tesi – lo stesso Benedetto XVI le ha ripetutamente condannate – e che qualunque persona dotata di buon senso sarebbe stata in grado di rendersi conto che un provvedimento in qualche modo favorevole a un sostenitore della posizione "revisionista" sull’Olocausto non avrebbe mancato di scatenare una tempesta mediatica. Il problema, dunque, è quando la Santa Sede è venuta a conoscenza delle tesi di mons. Williamson in tema di Olocausto.
Rodari e Tornielli ricostruiscono la vicenda in modo minuzioso, e concludono che un appunto sul tema era stato indirizzato da vescovi svedesi tramite la nunziatura apostolica in Svezia – il Paese dove nel novembre 2008 mons. Williamson aveva rilasciato a un’emittente televisiva non l’unica ma la più recente e articolata sua intervista sull’argomento – alla Segreteria di Stato, dove era stato sottovalutato nella sua potenziale portata e gestito da funzionari minori responsabili dei rapporti con la Scandinavia. Quando dalla televisione svedese la notizia passa sul settimanale tedesco Spiegel e di lì ai media di tutto il mondo, il 21 gennaio 2009, il decreto di remissione della scomunica non è ancora stato pubblicato, è vero, ma è già stato trasmesso il 17 gennaio ai vescovi "lefebvriani" interessati. Non è dunque più possibile ritirarlo o modificarlo. Secondo gli autori ha tuttavia costituito un errore di comunicazione da parte della Santa Sede non accompagnare immediatamente la pubblicazione, avvenuta il 24 gennaio 2009, con una chiara precisazione sul fatto che la remissione delle scomuniche non ha nulla a che fare con le tesi di Williamson sull’Olocausto, che il Papa in nessun modo condivide. Questa precisazione è venuta solo diversi giorni dopo, dando l’impressione che la Santa Sede si trovasse in imbarazzo e sulla difensiva. Inoltre, come il Papa stesso ha rilevato nella sua lettera dell’11 marzo 2009 sul tema, già prima dell’intervista rilasciata in Svezia le posizioni di mons. Williamson comparivano su diversi siti Internet e "seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie".
Dalla lettera di Benedetto XVI, notano gli autori, emergono altri due elementi. Il primo è la grandezza d’animo di un Papa che si assume personalmente la responsabilità di ogni errore eventualmente commesso, rompendo con una lunga prassi secondo cui in questi casi ogni colpa è attribuita ai collaboratori. Il secondo è che, pur essendo evidente che al momento della firma del decreto Benedetto XVI non conosceva le posizioni di mons. Williamson sull’Olocausto, anche in questo caso la campagna della stampa laicista ha avuto successo a causa dell’immediato attacco al Papa da pa
rte di noti esponenti cattolici che hanno inteso così "vendicarsi" del motu proprio. Scrive lo stesso Pontefice: "Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco".
I tempi del caso Williamson non sono casuali. Gli autori ricordano come sia stata ipotizzata nella diffusione mondiale delle notizie sul vescovo "revisionista" proprio in concomitanza con la remissione della scomunica la regia di una coppia di giornaliste lesbiche francesi note per le loro campagne anticlericali e per la "vicinanza al Grande Oriente di Francia" (p. 99), cioè alla direzione della massoneria francese, Fiammetta Venner e Caroline Fourest. Secondo Rodari e Tornielli l’intervista svedese con mons. Williamson "non è concordata in precedenza. Il giornalista si presenta al seminario e riesce a ottenere il colloquio con Williamson" (p. 88). Sembra dunque che mons. Williamson non abbia "organizzato" l’episodio. Tuttavia alla data dell’intervista la notizia secondo cui il Papa stava per firmare il decreto di remissione delle scomuniche circolava già su Internet. Gli autori si chiedono chi abbia armato il microfono dell’oscuro giornalista svedese Ali Fegan. Personalmente mi pongo qualche interrogativo anche su mons. Williamson, il quale sapeva certamente dell’imminente remissione delle scomuniche, è notoriamente critico su ogni ipotesi di compromesso con Roma della Fraternità San Pio X di mons. Lefebvre e come minimo si è comportato con il cronista svedese in modo davvero molto imprudente.

Il ruolo dei cattolici progressisti era già emerso in altre due campagne contro Benedetto XVI, particolarmente gravi perché coronate da successo. Due vescovi regolarmente scelti dal Papa avevano dovuto rinunciare alle cariche: mons. Stanislaw Wielgus, nominato primate di Polonia, a causa della scoperta di documenti relativi a una sua collaborazione giovanile con i servizi segreti del regime comunista, e mons. Gerhard Wagner, nominato vescovo ausiliare di Linz, in Austria, contro cui si erano sollevati il clero e anche molti vescovi austriaci a causa di dichiarazioni sulla natura di castigo di Dio dell’uragano Katrina, sul carattere satanico dei romanzi del ciclo di Harry Potter e sulla possibilità di curare l’omosessualità tramite terapie riparative. Come notano gli autori, le opinioni di mons. Wagner su tutti e tre i temi sono condivise da molti nella Chiesa – lo stesso cardinale Ratzinger aveva espresso simpatia nel 2003 per un libro critico su Harry Potter di una studiosa tedesca sua amica, pur ammettendo di non avere letto i relativi romanzi – ma è anche vero che il prelato austriaco le aveva espresse in toni particolarmente accesi.

I due casi, spiegano gli autori, sono meno lontani di quanto sembri a prima vista. Anche mons. Wielgus, per quanto denunciato per la prima volta da "cacciatori di collaborazionisti" di destra, è stato poi attaccato sistematicamente da una stampa polacca che lo avversava non tanto per il suo passato di collaboratore con i servizi segreti comunisti – un passato condiviso da oltre centomila persone in Polonia, tra cui numerosi sacerdoti e diversi vescovi – quanto per il suo presente di vescovo particolarmente conservatore. Se nel caso di mons. Wielgus, che aveva maldestramente cercato di nascondere documenti sul suo passato, l’accettazione delle dimissioni era inevitabile, non si possono non condividere alcune perplessità degli autori sul caso di mons. Wagner. Cedere alle pressioni di una parte del clero e dell’episcopato austriaco – guidato nel caso Wagner da un sacerdote che poco dopo ha ammesso pubblicamente di vivere da anni in una situazione di concubinato – ha innescato in Austria una contestazione globale nei confronti della Santa Sede, in cui sono sempre più apertamente coinvolte le massime gerarchie cattoliche del Paese e che a tutt’oggi non appare risolta.

Nel marzo 2009 con il viaggio del Papa in Africa l’attacco entra in una fase nuova. Sull’aereo che lo porta in Camerun come di consueto Benedetto XVI risponde alle domande dei giornalisti. A un cronista francese che gli pone una domanda sull’AIDS il Papa risponde che la distribuzione massiccia di preservativi non risolve ma aggrava il problema. Il Papa, rilevano gli autori, tecnicamente ha ragione e nei giorni successivi lo confermeranno fior di immunologi: favorendo la promiscuità sessuale e creando una falsa illusione di sicurezza le politiche basate sul preservativo hanno regolarmente aggravato il problema AIDS nei Paesi dove sono state sperimentate. Ma la risposta del Papa occupa le cronache internazionali per tutto il viaggio, facendo ignorare almeno in Europa e negli Stati Uniti i profondi insegnamenti sulla crisi del continente africano – e la puntuale denuncia delle malefatte delle istituzioni internazionali e di alcune multinazionali in Africa: che fosse proprio questo lo scopo?

Non sorprende ormai più la discesa in campo contro il Papa dei soliti teologi progressisti. Ma il fatto nuovo è l’intervento dei governi: Spagna, Francia e Germania chiedono al Papa di scusarsi, al Parlamento Europeo una mozione di censura del Pontefice non passa ma raccoglie comunque 199 voti. In Belgio una mozione analoga è invece votata dal Parlamento e provoca una dura risposta vaticana, innescando una crisi diplomatica senza precedenti tra i due Paesi che prepara gli atteggiamenti maneschi della polizia belga nella successiva vicenda dei preti pedofili.

Due attacchi citati da Rodari e Tornielli sono interessanti perché non vengono "da sinistra" ma "da destra", e mostrano che anche persone di solito rispettose sono indotte dal clima generale a usare nei confronti del Papa e dei suoi collaboratori un linguaggio che in altri tempi non si sarebbero permesso. Si tratta delle critiche di un mondo cattolico conservatore in tema di economia all’enciclica Caritas in veritate del 2009, giudicata da studiosi statunitensi come George Weigel e Michael Novak ingiustamente ostile al modello di capitalismo prevalente negli Stati Uniti, e delle polemiche sul terzo segreto di Fatima e sull’asserita esistenza di una parte del testo tenuta ancora segreta dal Vaticano. Sul merito si può certo discutere – anche se sull’enciclica gli studiosi americani sembrano soprattutto stizziti per non essere stati consultati, com’era invece avvenuto per testi di Giovanni Paolo II – ma il tono e i veleni sono comunque segnali di un clima malsano.

La stessa apertura agli anglicani che, delusi dalle aperture della loro comunità al sacerdozio femminile e al matrimonio omosessuale, tornano a Roma, se è avversata "da sinistra" come pericolosa per l’ecumenismo – ma quale ecumenismo è possibile con chi celebra in chiesa matrimoni gay? – è attaccata anche "da destra" perché, prevedendo percorsi di accoglienza nella Chiesa Cattolica di sacerdoti anglicani sposati, sembra compromettere la difesa del celibato. Anche qui quella che è più grave è l’incomprensione del carattere globale dell’attacco al Papa da parte di certi sedicenti "conservatori", che gettano benzina anziché acqua sul fuoco.

Le altre nove crisi impallidiscono comunque di fronte alla decima, relativa ai preti pedofili. Dal momento che gli autori citano ampiamente e riprendono materiale dal mio libro Preti pedofili (San Paolo, Cinisello Balsamo 2010), sostanzialmente condividendone l’impostazione, forse non debbo qui riassumere l’ampia sezione del libro dedicata al tema e posso permettermi di rimandare al mio testo. Il libro di Rodari e Tornielli ribadisce, contro le critiche assurde che purtroppo sono venute anche da vescovi e cardinali, quanto anch’io ho sottolineato: se c’è stato nella Chiesa un prelato durissimo nei c
onfronti dei preti pedofili, tanto da essere accusato di violare il loro diritto alla difesa e di essersi scontrato sul punto con numerosi colleghi vescovi, questi è stato il cardinale Ratzinger quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Presentarlo al contrario come tollerante sul punto è semplicemente ridicolo, eppure trova talora credito tra i lettori meno informati dei quotidiani.
Semmai gli autori si chiedono se gli ostacoli che il cardinale Ratzinger ebbe a incontrare negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II – quando le sue richieste di ancor maggiore severità non sempre furono accolte – non gettino un’ombra sul grande Papa polacco e non rischino perfino di compromettere la sua causa di beatificazione. In effetti nella causa in corso il problema è stato affrontato. Ma si è concluso, giustamente, che taluni freni all’opera del cardinale Ratzinger risalgono agli ultimi anni del pontificato wojtyliano, quando Giovanni Paolo II, sempre più gravemente malato, non seguiva più personalmente queste vicende delegandole a collaboratori cui vanno dunque girate eventuali critiche.

In conclusione Rodari e Tornielli si chiedono se si possa parlare di un complotto contro il Papa, citando varie opinioni tra cui la mia in un’intervista che ho loro rilasciato specificatamente per questo volume. La loro conclusione è che ci siano in atto tre diversi attacchi a Benedetto XVI da parte di tre diversi nemici. Il primo è costituito dalla galassia di lobby laiciste, omosessuali, massoniche, femministe, delle case farmaceutiche che vendono prodotti abortivi, degli avvocati che chiedono risarcimenti miliardari per i casi di pedofilia. Questa galassia, troppo complessa perché si possa ritenere che risponda a una sola regia, dispone però grazie alle nuove tecnologie dell’informazione di un potere che nessun altro nemico della Chiesa ha avuto nell’intera storia umana e vede nel Papa il principale ostacolo alla costruzione di una universale dittatura del relativismo in cui Dio e i valori della vita e della famiglia non contano. Un ostacolo che dev’essere spazzato via a tutti i costi e con ogni mezzo.
Queste lobby hanno successo perché hanno arruolato un secondo nemico del Papa costituito dal progressismo cattolico e da quei cattolici e teologi – tra cui non pochi vescovi – i quali vedono la loro autorità e il loro potere nella Chiesa minacciato dallo smantellamento da parte di Benedetto XVI di quella interpretazione del Concilio in termini di discontinuità e di rottura con la Tradizione su cui hanno costruito per decenni carriere e fortune. Le interviste ai cattolici progressisti permettono ai media laicisti di rappresentare la loro propaganda non come anticattolica ma come sostegno contro il Papa reazionario che vuole "abolire il Concilio", cioè mettere in discussione il suo presunto "spirito", dal momento che la lettera dei documenti conciliari dai giornalisti anticattolici non è neppure conosciuta e dai loro compagni di strada "cattolici adulti" è giudicata irrilevante.
In terzo luogo, Benedetto XVI ha anche un terzo nemico, inconsapevole e involontario ma non per questo meno pericoloso. Ci sono "’attacchi’ involontariamente autoprodotti a causa delle numerose imprudenze e dei frequenti errori dei collaboratori" (p. 313) del Papa. Gli autori riportano diversi pareri sulla difficoltà di comunicazione della Santa Sede nell’epoca non solo di Internet ma di Facebook e di una telefonia mobile collegata al Web che fa sì che le notizie arrivino a centinaia di milioni di persone – per esempio i cinquecento milioni di utenti Facebook attivi ogni giorno – pochi secondi dopo essere state lanciate e siano archiviate come vecchie dopo qualche ora. Se una notizia falsa non è smentita entro due o tre ore, se a un attacco non si risponde al massimo entro ventiquattr’ore le possibilità di replica efficace si riducono a poco più di zero.

Se tutto questo è vero, le opinioni di chi, intervistato dagli autori, rimpiange il precedente portavoce pontificio, il laico dottor Joaquín Navarro Valls, giudicandolo più scaltro del suo successore gesuita padre Federico Lombardi, possono essere dibattute all’infinito ma forse non vanno al cuore del problema. È il modo di comunicare che è cambiato radicalmente, ed è cambiato dopo la morte di Giovanni Paolo II perché il problema non è Internet ma il numero sempre maggiore di persone – centinaia di milioni, appunto, non piccole élite – che a Internet sono collegate ventiquattro ore su ventiquattro tramite gli smartphone, i netbook o i vari iPad, e hanno un tempo di reazione a richieste o provocazioni che si misura in minuti e non più in ore. Sul punto il libro del giornalista italiano Marco Niada Il tempo breve (Garzanti, Milano 2010) dovrebbe forse essere letto anche da qualche vaticanista.

Benedetto XVI non è inconsapevole di questi attacchi. È molto interessato alle nuove tecnologie e alla necessità di migliorare le strategie di comunicazione della Santa Sede. Ma, concludono Rodari e Tornielli, è anche molto sereno. È disponibile a seguire i problemi che la rivoluzione delle comunicazioni – una rivoluzione forse non meno importante di quella degli anni 1960 in tema di morale e di crisi dell’autorità – pone alla Chiesa, ma non a inseguirli. Insiste sul fatto che la salvezza della Chiesa perseguitata non verrà dalle strategie, dalle diplomazie, dalle tecnologie – per quanto queste siano importanti e non vadano trascurate – ma dalla fedeltà alla preghiera, alla meditazione, al Cristo crocefisso. È probabile che abbia ragione non solo, com’è ovvio, sul piano spirituale ma anche su quello culturale e sociologico, dove alla Chiesa non si chiede d’imitare i modelli dominanti ma di essere se stessa. Non tutti, anche tra i cattolici, sembrano averlo compreso.

Fonte: http://blog.messainlatino.it/

Renzo e Lucia e la tematica dell’amore

Renzo e Lucia sono i due oppressi de I promessi Sposi. Semplificando, si potrebbe abbozzare uno schema quadripartito degli otto personaggi principali del romanzo – quattro laici e quattro religiosi -, suddividendoli in quattro coppie. Si diceva, Lucia e Renzo sono gli oppressi e sono affiancati, nel loro ruolo positivo, dalle due figure protettrici di padre Cristoforo e del cardinal Federigo Borromeo. Il versante negativo è invece incarnato da don Rodrigo e dall’Innominato (almeno fino alla conversione), che rappresentano gli oppressori; e dalla Monaca di Monza e da don Abbondio, che sono semplicemente degli strumenti nelle mani dei potenti.

Come abbiamo già visto nel precedente articolo, Lucia è una figura fondamentale nella struttura narrativa. Manzoni la ammira per il suo abbandono alla Provvidenza e la fa veicolo della propria visione etica della storia e della propria poetica.
Anche per Renzo, però, l’Autore ha una particolare predilezione. Egli è, infatti, il vero narratore dell’intera vicenda. Attorno a Renzo, Manzoni crea un romanzo avventuroso, picaresco. Se il cronotopo di Lucia è la casa, quello del suo promesso è la strada. Renzo è sempre rappresentato in cammino; per tutto il romanzo la sua vera occupazione è quella di andare alla ricerca della propria identità, che conquisterà solo grazie all’ausilio della moglie. Negli ultimi capitoli del romanzo, il protagonista dimostrerà di non essere stato modificato in maniera radicale dagli eventi occorsegli. Nel lazzaretto quello che lo guida è ancora un’idea umana di giustizia, e solo l’ennesimo rimprovero di padre Cristoforo riuscirà a fargli capire il reale valore del perdono. Ancora, nell’elencazione dei suoi “ho imparato”, Renzo mette in luce una visione pelagiana della vita, molto simile a quella di don Abbondio: se si riesce a rifuggire i mali, allora tutto procederà per il meglio. Inoltre, l’elevazione sociale conseguente all’acquisto di un filatoio alle porte di Bergamo denota l’ottica ottimistica e borghese di Renzo; questa sua visione delle cose verrà sminuta dalla constatazione dell’assenza di idillio della moglie Lucia che, anche con lui, funge da chiave di volta, e lo aiuta a conquistare la propria individualità.

Ma com’è rappresentato da Manzoni l’amore tra Renzo e Lucia?

Per prima cosa bisogna sottolineare come i due protagonisti vengano rappresentati assieme ne I promessi Sposi solo nei primi otto capitoli, per poi separarsi e ricongiungersi nuovamente solamente nel corso del trentaseiesimo capitolo. La loro è, però, solo una divisione fisica, perché nel corso dell’opera vi sono continui pensieri dell’uno all’altro, continui riferimenti, sottili collegamenti.
Nel Fermo e Lucia Spolino e Zarella erano uniti già nella filanda, grazie ai loro cognomi.
Nel romanzo il loro amore viene rappresentato in maniera molto casta: fuggevoli sguardi tra imbarazzi e rossori, brevi frasi rispettose e pensieri molto pudici.
Questa reticenza nella descrizione dell’amore porta, all’inizio del primo capitolo del secondo tomo del Fermo e Lucia, all’introduzione di una “digressione sull’amore”, atta a spiegare la concezione manzoniana dell’introduzione della tematica amorosa nei romanzi. Infatti, un personaggio ideale rivolge all’autore una critica, affermando che il romanzo parla di due innamorati, ma che “questa vostra storia […] non li dimostra innamorati”.

L’autore risponde: “Perdonatemi: (il manoscritto) trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi la parte la più elaborata dell’opera: ma nel trascrivere, e nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere. […] Perché sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione. […] Se io potessi fare in guisa che questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un sì delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori non potrebbe certamente avere nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand’anche fosse trattato da tutt’altri che dal mio autore e da me; perché quale è lo scritto dove sia trasfuso l’amore quale il cuor dell’uomo può sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d’una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n’abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll’idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po’ che bell’acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti.

Ponete il caso che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa storia: giacchè non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia a leggere: e ditemi un po’ che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei sentimenti ch’egli debbe soffocar ben bene nel suo cuore, se non vuol mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si potrebber fare.

Concludo che l’amore è necessario a questo… mondo: ma ve n’ha quanto basta… e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo: ma dell’amore come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quel che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei“.

Dunque, di amore ce n’è anche troppo nel mondo, meglio incentivare la gente a compiere altre azioni virtuose, più rare e più necessarie.

Anche ne I Promessi Sposi su questa tematica la reticenza la fa da padrona. Mai un eccesso, o un’allusione troppo ardita. Alcuni critici hanno cercato di spiegare questo moralismo – derivato a Manzoni dal gruppo di Port Royal – dicendo che l’Autore voleva che il romanzo potesse essere letto anche dalla figlia Giulia, all’epoca adolescente. Altri si sono spinti fino a dire che l’opera manzoniana potrebbe essere letta anche dalla Vergine in circolo con le Sante…

Di certo, tutto questo non può che generare qualche breve riflessione.
A ben guardare, il fatto che il romanzo sia così pudico nella rappresentazione del fidanzamento, non è affatto una pecca stilistica, anzi si presenta come una scelta perfettamente coerente con il resto dell’opera. La reticenza non è dissonante.

In secondo luogo, si potrebbe approntare una discussione sul fidanzamento odierno.
Come bisognerebbe vivere questo fondamentale momento della vita di coppia? Oggi vige un permissivismo tale per cui i due fidanzati vivono la loro relazione senza porsi troppi limiti che, anzi, vengono giudicati come “cose dell’altro secolo”. Salvo poi sposarsi e separarsi nel giro di pochi mesi o qualche anno, dimostrando così in maniera lampante come l’assenza di un fidanzamento incentrato sul sacrificio reciproco risulti, alla fine, determinante nel far fallire quel totale dono di sé che è il matrimonio. Il periodo del fidanzamento (vissuto cristianamente) è una palestra dura, ma necessaria; solo in questo modo si possono costruire delle basi solide e certe, su cui poi costruire una famiglia e dare alla luce dei figli. Le esperienze comuni dimostrano come matrimoni idilliaci non ne esistano, perché inevitabilmente delle difficoltà subentrano in tutte le coppie. La differenza è, però, costituita dagli sposi che hanno già un “allenamento” di sacrificio alle spalle, e da coloro che questo “allenamento” non lo hanno, che sono governati – anche nel matrimonio – da una legge fondamentalmente egoistica. Queste coppie alla prima difficoltà scoppiano.

Non bisogna poi dimenticare che le conseguenze di questi “legami liquidi” ricadono su tutta la società: sempre più persone vivono da sole; i matrimoni sono in diminuzione; aumenta il numero dei giovani che vivono con i propri genitori; diminuisce il numero di figli; crescono i problemi infantili ed adolescenziali connessi alla separazione dei genitori… e chi più ne ha, più ne metta.

Rivisitazione di Lucia Mondella: non è affatto una ragazza bigotta e remissiva

Lucia Zarella del Fermo e Lucia, poi divenuta Lucia Mondella, è spesso stata dipinta dalla critica come una ragazza senza spina dorsale, tutta casa e chiesa, succube degli avvenimenti che la travolgono. Ma, ad una lettura scevra di pregiudizi de I Promessi Sposi, la figura che emerge è tutt’altra. E’ il ritratto di una ragazza salda nelle sue idee, sempre impegnata nel lavoro − come già nelle Osservazioni sulla morale cattolica, che costituiscono la base teorica del suo unico romanzo, Manzoni fa trasparire la propria concezione secondo la quale l’ozio è il padre dei vizi −, giustamente timorata di Dio…
Non a caso, l’Autore le attribuisce un nome “parlante”, che denota la sua funzione di guida, di luce interpretativa dell’intera vicenda, è lei che fa emergere il Deus absconditus di gianseniana memoria.
E’ vero, Lucia incarna l’archetipo della perseguitata, ma alla fine la vittoria è sempre sua: su don Rodrigo, su Gertrude (Geltrude nel Fermo e Lucia), e sull’Innominato (il Conte del Sagrato del Fermo e Lucia, che nel romanzo del ’42 perde però il privilegio di avere un nome).

Moltissimi critici si sono sbilanciati e hanno definito in vari modi l’eroina manzoniana.
Per Alfredo Cottignoli, Lucia incarna la Provvidenza, che agisce tramite di lei; per esempio, gettando il seme della Grazia nel cuore dell’Innominato con la frase: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”.
Secondo Salvatore Silvano Nigro, Lucia è il personaggio più forte del romanzo: è l’aspro che governa l’intera storia, motore degli imbrogli e degli sbrogli. Lo studioso riporta le frasi di Bortolo, il cugino che a Bergamo accoglie Renzo in fuga. Il parente ricorda Lucia tra chiesa e casa: “sempre la più composta in chiesa”; e nella sua “casuccia”, a lavorare con quell’”aspro, che girava, girava, girava”. “Una buona ragazza”, insomma. Non proprio bella, secondo Renzo; ma “una buona giovine”: una “contadina”, e non certo una “principessa”. La bellezza viene dopo la “fortitudo” e il “decor”. La sposa ideale “non mangia il pane della pigrizia”.
Anche da Marchese definisce Lucia come il “perno ideologico” de I Promessi Sposi.

A ben vedere, Lucia è anche l’unico personaggio del romanzo che non subisce un’evoluzione, che non impara nulla dagli avvenimenti cui è soggetta: fin dall’inizio lei ha già le proprie, incrollabili certezze. E, alla fine del romanzo, sarà proprio Lucia che aiuterà “il suo moralista” Renzo a conquistare il “sugo della storia”, affermando che i guai le sono caduti addosso senza che lei facesse nulla affinché ciò avvenisse, ma che la fede in Dio li rende utili e li raddolcisce. Con questo finale Manzoni affida a lei, il suo personaggio portante, la rifinitura morale di tutta la storia, e con essa anche la chiave della propria poetica.

Diamo ora una scorsa al testo de I Promessi Sposi, e nel contempo a quello del Fermo e Lucia, che costituisce un testo a sé stante, un romanzo autonomo rispetto all’elaborato manzoniano del 1840/42, e non mero un abbozzo come spesso si sente dire.
Molti sono i punti in cui emerge il carattere forte di Lucia, la sua superiorità − non solo morale − sugli altri personaggi della vicenda.
Fin dal primo capitolo del primo tomo del Fermo e Lucia, la nostra eroina apostrofa don Rodrigo chiamandolo “demonio in carne”; nel secondo capitolo, poi, riferendo a Renzo e alla madre Agnese il retroscena del suo incontro con il signorotto locale, racconta di come abbia dovuto fare una “baruffa” con Marcellina per non andare più alla filanda a lavorare, dando con questo prova di notevole fermezza. Entrambi questi episodi verranno aboliti ne I promessi Sposi, dove però abbiamo una dimostrazione del nerbo di Lucia nel terzo capitolo, quando la ragazza dona a frate Galdino − che è andato a bussare alla loro porta, e che vive nello stesso convento di fra Cristoforo − una quantità di noci sproporzionata rispetto al momento di carestia che tutti stanno subendo. Una volta che il frate si è congedato dalle due donne, Lucia replica con decisione al rimprovero della madre affermando che “se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora Dio sa quanto”, rischiando di dimenticare di avvertire padre Cristoforo di andare a far loro visita.
Anche negli altri capitoli introduttivi ambientati nel paese natio (dal primo all’ottavo), Lucia è protagonista di momenti topici, primo su tutti la pagina lirica di congedo dalle proprie terre: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a che è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”.
Ma i due episodi in cui emerge in maniera più netta la funzione catartica svolta da Lucia nel romanzo sono quelli in cui è in relazione con la Monaca di Monza e l’Innominato. In entrambe le situazioni Lucia incarna la Provvidenza: dà chiara dimostrazione di come la Grazia Divina dia la possibilità di riscattarsi, lasciando da parte le empietà. Perché la misericordia di Dio abbia frutto, però, occorre che vi sia una libera adesione dell’animo: cosa, questa, che si verifica solo nel caso dell’Innominato, mentre la Monaca di Monza rimane schiava della gravità del corpo.
Ecco quindi che tramite un’ingenua contadinella lombarda, Manzoni riesce ad affrontare due temi cardine della morale cattolica: l’immensa misericordia di Dio − che perdona anche per “lagrimetta” in extremis, come scriveva già Dante −, e la tematica del libero arbitrio; come dire: le carte ci sono state fornite tutte, sta alla bravura di ognuno il saperle utilizzare nel modo eticamente più consono.
L’innominato viene scosso profondamente dalla visione e dalle parole di Lucia, la quale, nel momento di maggior pericolo, dà prova di grande forza d’animo: già durante il viaggio in carrozza verso il palazzo dell’Innominato, supplica i bravi di liberarla, prega il Rosario, sviene, si riprende… e muove così a compassione perfino l’indomito Nibbio. In seguito, quando è costretta in una stanza del castello dell’Innominato, Lucia si rifiuta di mangiare e dormire e proibisce alla sua carceriera di fare entrare persone nella stanza. Rimane così agitata fino a quando non prende la risoluzione di fare voto di castità in cambio della libertà e, solo a questo punto, messasi la corona al collo, “s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo”. Nuovamente Lucia dà dimostrazione di una certezza incrollabile nella fede, abbandonandosi totalmente nella mani di Dio, Colui che tutto sa e tutto organizza per il bene degli uomini, a patto che si riponga in Lui tutta la nostra vita.

Insomma, Lucia Mondella è colei che “pulisce dalle impurità” (S. S. Nigro) e che dà una rifinitura morale all’intero romanzo manzoniano, legittimandolo così come genere letterario che “ha come oggetto il vero, come mezzo l’interessante e come scopo l&r
squo;utile”. E nel contempo si fa anche portatrice della voce di Dio nella storia, dimostrando di non essere affatto passiva rispetto agli eventi, ma piuttosto supportata da una fede che la porta ad abbandonarsi totalmente alla Provvidenza, semplicemente, come un bambino nelle braccia della madre.

Alessandro Manzoni e la questione della lingua. Un problema ancora attuale, seppure in forma diversa

Alessandro Manzoni, su esempio di Walter Scott, nel 1821 decise di avventurarsi nella composizione di un romanzo storico. L’autore milanese scelse di ambientare la propria vicenda nello scenario della Lombardia del Seicento, cercando di mantenersi il più possibile fedele alla realtà e lasciando all’invenzione solo lo stretto indispensabile. Per riuscire in questa opera documentaria di descrizione, Manzoni fece molte ricerche d’archivio, cercando le varie Grida emanate tra il 1628 e il 1630, leggendo svariati libri, sia narranti vicende storiche dell’epoca, sia autobiografie.
L’elemento di studio personale, però, non fu il solo tema ad impegnare Manzoni. Infatti, il problema di più vasta portata che l’Autore milanese dovette affrontare fu quello della lingua da adottare.
Il tema è affrontato esplicitamente nella “Seconda Introduzione” del Fermo e Lucia, allorquando lo scrittore milanese afferma di non poter trascrivere l’intero manoscritto che ha trovato in prosa barocca, perché questo stile sa essere “rozzo insieme e affettato nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo“, senza tralasciare il fatto che l’Anonimo compositore del manoscritto inserisce tra le righe della sua vicenda alcune affermazioni con cui Manzoni non si trova affatto d’accordo.

Ma, rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi abbiamo sostituito? Qui giace la lepre.
Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola, qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l’abbiamo presa, perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d’Italia, si fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intellegibili, ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia l’imitazione d’una verità locale alla purezza della lingua;
persuasi come siamo che quel primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si possa conciliare col secondo. […] Basta all’autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno per gloria lo scriver male. Per gloria! Quand’anche ella fosse impresa difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di se: è un privilegio delle prefazioni, un piccolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I doni dell’ingegno non si acquistano, come lo indica il loro nome stesso; ma tutto ciò che lo studio, che la diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch’io non lo acquistassi.[…] A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favella tori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole o frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodochè se un parlante o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’essere molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del nò
. Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l’egregio cavino dallo stesso fondo, e dopo d’averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d’idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro significato che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l’idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell’uso particolare.

Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l’ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che abbia posto studio nell’udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate per convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori come d’accordo abbiano formata questa lingua ch’egli debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali.

Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere. E’ ben certo che v’ha molte lingue particolari a diverse parti d’Italia, che in una sfera molto ristretta d’idee certamente, ma hanno quell’universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale, fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc. era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto sempre libri pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un’altra quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto, desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori, convengano una volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono avere ragione soli in una tale materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel che convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o quasi universale uso d’una lingua comune“.

Manzoni è convinto che per affrontare compiutamente questa “questione della lingua” sia necessario scrivere un intero libro. Cosa che aveva anche cominciato a fare, salvo poi gettare tra le fiamme le pagine scritte.

Il passaggio tra Fermo e Lucia, l’edizione Ventisettana e la Quarantana de I Promessi Sposi, vede un progressivo evolversi della lingua impiegata nella narrazione.
Se nella prima tappa della revisione del romanzo, che va dall’estate del 1824 alla pubblicazione in tre tomi de I Promessi Sposi del 1827, oltre ad una revisione linguistica per mezzo libresco, con l’ausilio soprattutto del Vocabolario del Tommaseo, si ha anche una revisione strutturale, tematica e stilistica, la successiva fase – quella che porterà all’edizione definitiva del romanzo – si concentra esclusivamente sulla forma linguistica, dando luogo a quella che è stata chiamata “la risciacquatura in Arno”. Manzoni, infatti, nell’estate del 1827 farà un viaggio a Firenze per studiare sul campo la lingua toscana e, una volta tornato a Milano, si farà aiutare nel certosino lavoro di correzione dalla domestica toscana Emilia Luti e da altri amici provenienti dalla medesima regione. Quello che più importa all’autore è, certamente, utilizzare espressioni toscane, ma stando ben attento che tali espressioni siano realmente utilizzate nella lingua corrente dalle gente, che non siano forme obsolete o troppo affettate.

Oggi dobbiamo essere grati ad Alessandro perché è anche grazie a lui (oltre che a libri come Pinocchio di Collodi o Cuore di De Amicis) se noi parliamo un italiano uniforme su tutta la Penisola italiana.
Per esempio, senza I Promessi Sposi, probabilmente l’imperfetto si formerebbe ancora con la terminazione in -a, invece della ormai consueta in -o…

L’unica riflessione che si potrebbe fare è la seguente. Se nell’Ottocento c’era il problema di creare una lingua italiana universalmente intesa, oggi la questione che si fa sempre più pressante è quella della degenerazione che tale lingua sta subendo. E, affermando questo, non ci si riferisce solamente al modo – alle volte rasente la crittografia – di scrivere SMS e mail (Hola, ke mi kombini? 6 a kasa nel pomer? Baci8, è un esempio abbastanza comune). Quello che desta ancora più preoccupazione è il modo in cui vengono scritti determinati libri che escono sul mercato, oppure alcune tesi di laurea…

Il romanzo, un genere letterario controverso

Il romanzo è un genere letterario relativamente recente che – in Italia, ma non solo – ha faticato molto ad imporsi, sia perché non aveva una legge codificata a cui rifarsi, non avendo una tradizione alle spalle, sia perché trovò una forte censura in alcuni esponenti intellettuali, che lo giudicavano come immorale e nocivo alla salute.

Fino alla fine del ‘500 si intendeva con il termine romanzo “una narrazione in versi”, generalmente strutturata sul modello ariostesco del poema cavalleresco.
Solo nel 1600 si cominciò ad in tendere per romanzo “una narrazione lunga in prosa“.
Questo è il secolo del romanzo barocco, il quale – benché temporalmente limitato – ha avuto una grande importanza, perché ha portato all’affermazione di un nuovo genere letterario di massa, fondato su logiche di mercato.
Per convenzione, si è soliti circoscrivere il romanzo barocco nel lasso temporale che va dal 1624, data in cui uscì L’Eromena di Gian Francesco Biondi, al 1662, anno di pubblicazione di La peota smarrita, ultimo libro di una trilogia di ambientazione veneziana di Girolamo Brusoni.
Il romanzo barocco si rifà essenzialmente al poema cavalleresco, per cui punta a generare interesse e meraviglia nel lettore, sviluppando una trama interessante e avventurosa. I protagonisti dei romanzi di questo periodo devono superare innumerevoli peripezie, per terra e per mare, per riuscire a dare concreta realizzazione, generalmente, ad una amore a lungo protratto.
In queste composizioni si pone l’accento sulle descrizioni delle varie situazioni, senza toccare in alcun modo quello che è l’aspetto psicologico, interiore, dei vari personaggi.
Con La peota smarrita del Brusoni, si diceva, si suole definire concluso il periodo di produzione barocco, anche se fino al 1680 circa si ha ancora qualche pubblicazione in tal senso.
In Italia, dopo questa data, c’è un vuoto che si protrae fino alla seconda metà del Settecento, momento in cui c’è una rinascita del romanzo grazie alle opere dell’abate Pietro Chiari.
Per sopperire a questa lacuna di più di mezzo secolo, in Italia vengono importate le traduzioni, rigorosamente in francese, dei grandi romanzi europei, in prevalenza provenienti da Francia ed Inghilterra, i due veri poli letterari di questo periodo. Le avventure di Gulliver, Robinson Crusoe, La nouvelle Heloise, Tom Jones, La Pamela… sono solo alcuni dei titoli maggiormente noti.
Verso la metà del Settecento c’è anche la nascita di quella che è stata definita la “letteratura rosa”, perché specificatamente rivolta ad un pubblico femminile, che cerca nella lettura uno specchio della propria vita.

E’ con il Settecento e con l’affermazione della classe borghese, quindi, che il romanzo si diffonde, cominciando ad essere visto come un bene di cui godere nel privato della propria camera, magari davanti al fuoco. Nel contempo, anche gli autori di tale genere letterario prendono sempre più consapevolezza del ruolo pedagogico delle proprie opere e, di conseguenza, della loro funzione di guide all’interno della società.
Infine, è proprio in questi anni che nascono due concetti strettamente connessi tra di loro: quello del “diritto d’autore” e quello, rispondente alla logica di mercato, per cui un autore vive delle proprie opere.


Le critiche al romanzo

Come si accennava sopra, il genere “romanzo” ha stentato molto ad imporsi anche perché ha trovato, nel corso del Seicento e del Settecento, una nutrita schiera di oppositori.
Per esempio, per il piacentino Pio Rossi, il romanzo era la fonte principale della decadenza morale sempre più dilagante nel ‘600 e lo considerava un male sia per il quanto che per il quale perché, oltre a far perdere del tempo, era anche causa di malattie fisiche e di pervertimenti viziosi.
Anche nel 1700 ci sono dei fieri oppositori del nuovo genere. Nel 1764 Baretti, recensendo su “La Frusta Letteraria” La Pamela fanciulla del Goldoni, suggerisce alle nobildonne di lasciare la lettura dei romanzi alle donne del popolo, incolte. Pochi anni dopo, nel 1769, Roberti nel suo Del leggere i libri di divertimento, avanza l’accusa per cui i romanzi sono da evitare in quanto distraggono le classi sociali dalle loro legittime occupazioni.
Ovviamente non è solo l’opera finita ad essere oggetto di critica, ma lo sono anche coloro che a tale prodotto danno la vita. Gozzi, nelle sue Memorie inutili (1787), interpretando il pensiero di tutta l’Accademia dei Granelleschi, definisce i romanzieri come dei “logora tori di penne”.

Si sa, inizialmente le novità vengono sempre viste come un potenziale pericolo. L’importante è però non fermarsi al pregiudizio, ma andare a verificare in profondità le varie opportunità che una innovazione comporta.
Nel caso del romanzo, già Ferrante Pallavicino nel 1660 affermava che dilettarsi nella lettura è come fare una passeggiata in un giardino, dove il lettore può cogliere liberamente ciò che vuole, distinguendo ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, affermava Pallavicino, vi sono dei romanzacci di cui mondo ha ben donde di dirsi nauseato, perché la loro lettura non è fonte né di diletto, né di utilità.

Oggi la situazione è la medesima. Sul mercato continuano a comparire nuovi libri, romanzi ma non solo.
La bravura dei lettori sta nel non lasciarsi abbindolare dai grandi casi di mercato, anche perché il numero di persone che leggono più di un libro all’anno è talmente ridotto che sarebbe bene che almeno quel singolo libro su cui mettono le mani fosse veramente meritevole di essere letto.

“Forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita a leggere scrittori mediocri perché sono nostri contemporanei.” (Nicolàs Gòmez Davila)

“I Dialogi”: l’esempio di San Benedetto da Norcia

“I Dialogi” sono l’unica opera agiografica di papa Gregorio I Magno (590-604). Sono stati composti tra il luglio del 593 e il maggio del 594 su richiesta dei suoi confratelli al monastero di S. Andrea sul Celio, da lui fondato alla morte del padre. Il titolo completo dell’opera sarebbe “Dialogi de vita ed miraculis patrum Italicorum et de aeternitate animorum”, appunto perché il testo è volto a dimostrare che anche in Italia – come nel fiorente oriente – ci sono figure di Santi e che l’anima ha una vita dopo la morte, fatto attestato, per esempio, dai miracoli compiuti attraverso le reliquie. L’opera ha una struttura dialogica: il diacono Pietro ha il ruolo importantissimo di incalzare il racconto e di chiedere spiegazioni, qualora vi sia qualcosa che non lo convince: in questo modo Gregorio riesce ad inserire, accanto alla narratio, anche una parte di expositio, in cui fornisce insegnamenti morali, dottrinali ed ecclesiastici.
“I Dialogi” constano di quattro libri; il primo e il terzo riportano un insieme di miracoli o di opere virtuose compiute da santi italiani pressoché contemporanei a Gregorio Magno, con l’unica eccezione nel III Libro di Paolino di Nola (355-431). Il secondo libro è interamente dedicato alla figura di S. Benedetto da Norcia (480-547ca): nel Prologo il papa espone brevemente i punti salienti della biografia del Santo, soffermandosi sulla sua conversione e sulla decisione di abbandonare il mondo, le ricchezze paterne e gli studi (fatto, questo, sottolineato con un doppio ossimoro di grande effetto letterario: Benedetto, “soli Deo placere desiderans, […] recessit igitur scienter nescius et sapienter indoctus” Prologo, 13-15). Nei capitoli successivi, Gregorio Magno narra alcuni miracoli compiuti da Benedetto e che lui ha appreso da fonti certe: si va dai miracoli prettamente pratici (che raggiungono il culmine con la resurrezione del figlio di un contadino, nel capitolo 32) a miracoli spirituali, quali il discernimento delle anime, le profezie storiche e le visioni. Solo nel capitolo 36, vi è un breve accenno alla “Regola” scritta da Benedetto: Gregorio la nomina in maniera funzionale per dire che chi vuole conoscere meglio la vita del Santo basta che legga questo suo unico scritto, perché egli fu perfettamente coerente nel dire e nell’agire.
Il quarto ed ultimo libro esula dall’argomento prettamente agiografico, perché analizza il tema della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Gregorio affronta questo argomento per confortare il popolo, per assicurare che non c’è nulla di cui avere timore: se ci si comporta in modo pio, Dio ha in serbo per tutti la vita eterna.

Riporto qui sotto un estratto del II Libro, in cui Benedetto incontra la sorella Scolastica e pochi giorno dopo vede la sua anima ascendere al cielo.

33. Il miracolo di sua sorella Scolastica

Gregorio: Credi, Pietro, che al mondo ci sia stato uno più degno di Paolo? Eppure egli supplicò tre volte il Signore per essere liberato dallo stimolo della carne, e non riuscì ad ottenere quanto voleva. Perciò è necessario che io ti racconti come ci fu una cosa che il venerabile Benedetto desiderò, ma non gli fu concesso di ottenerla.

Egli aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero.
Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto. Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: “Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo… “. Ma egli le rispose: “Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero”.
La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube. Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’eran con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione.
La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia.
L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: “Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?”. Rispose lei: “Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero”.
Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.
Con questo racconto ho voluto dimostrare che egli ha desiderato qualcosa, ma non riuscì ad ottenerla. Certo, se consideriamo le disposizioni del venerabile Padre, egli avrebbe voluto che il cielo rimanesse sereno come quando era disceso; ma contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna.
E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: “Dio è amore”; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più!
Pietro: confesso che mi piacciono moltissimo questi racconti.

34. L’anima di sua sorella vola al cielo

Gregorio: il giorno seguente tutti e due, fratello e sorella, fecero ritorno al proprio monastero.
Tre giorni dopo Benedetto era in camera a pregare. Alzando gli occhi al cielo, vide l’anima di sua sorella che, uscita dal corpo, si dirigeva in figura di colomba, verso le misteriose profondità dei cieli. Ripieno di gioia, per averla vista così gloriosa, rese grazie a Dio onnipotente con inni e canti di lode, poi andò a partecipare ai fratelli la sua dipartita. Ne mandò poi subito alcuni, perché trasportassero il suo corpo nel monastero e lo seppellissero nel sepolcro che egli aveva già preparato per sé.
Avvenne così che neppure la tomba poté separare quelle due anime, la cui mente era stata un’anima sola in Dio.

Marco Andreolli, “Se mai potrai capire” ed. Marietti 2010

“Un padre, storico leader comunista, in punto di morte rivela al figlio l’esistenza di un diario segreto, nel quale la gloria e la purezza dell’ideale comunista vengono irrimediabilmente macchiati da una serie di atti infami, commessi al tempo in cui la famiglia si trovava rifugiata in Unione Sovietica…” (dalla Postfazione di Luca Doninelli)

Dan Brown e la massoneria

Mr. Dan Brown ha già ottenuto uno strepitoso successo anche con l’ultimo libro, Il simbolo perduto.

 Il successo, lo ricordiamo tutti, era arrivato con Il codice da vinci, un best seller incredibile, che ha fatto di Brown uno degli uomini più ricchi del mondo. Ma è adesso, col nuovo libro, che è finalmente completo il pensiero dell’autore: per lui la Chiesa, che è pubblica e non ha nulla di segreto, avrebbe segreti inconfessabili, e omicidi svariati per mantenerli, e sarebbe una perfida macchina da oppressione, mentre la Massoneria, al centro de Il simbolo perduto, che è per definizione una società segreta, sarebbe sì segreta, ma non avrebbe nulla, in verità, da nascondere, essendo solamente una organizzazione filantropica tesa al vivere civile e pacifico.

 In una conferenza stampa a Milano l’8 dicembre, Brown ha espresso il suo pensiero, a cui mi sembra sia stato dato ben poco rilievo, benché in verità la cosa avrebbe dovuto suscitare maggiori interessi. Essa infatti chiarisce finalmente la sua formazione massonica o filo massonica, confusamente esoterica ed anti-cristiana, già visibile ne Il Codice da Vinci.

Ecco una breve rassegna stampa sulle dichiarazioni di Brown: D. Brown:

Ah, se durante le mie ricerche avessi trovato un solo documento che denunciasse che i massoni hanno commesso delle malefatte, l’avrei scritto a chiare lettere. Invece ho sempre trovato massoni aperti e tolleranti. Questo è un bene, in un mondo dove spesso ci si uccide perché si tiene troppo alla propria versione della verità. Nella Massoneria, invece, vi sono le persone più diverse, ma tutti si chiamano fratelli! Dopo Il simbolo perduto mi hanno fatto capire che le porte erano spalancate anche per me, ma sapete – e qui Dan fa l’occhiolino – mi hanno chiesto un giuramento sulla segretezza, e a me i segreti piace svelarli, mica conservarli».Il Giornale, 9 dicembre 2009

«Ma noi negli Stati Uniti abbiamo una idea diversa, meno sporca rispetto alla vostra, dei liberi muratori. I quali riescono a convivere e chiamarsi fratelli pur essendo di origini, di religione, di credo politico diversi. Non è una cosa da poco». Il Messaggero 9 dicembre

Lei critica la Chiesa cattolica nel Codice e in Angeli e demoni, e esalta la massoneria nel Simbolo perduto. È la sua posizione anche fuori dei romanzi? «La Chiesa cattolica ha fatto tonnellate di cose buone, e alcune meno buone. Quando ho cominciato a fare ricerche sui massoni ha scoperto gente con una mentalità davvero aperta. Voi la pensate diversamente, ma la massoneria da noi è così». La stampa 9 dicembre

Mr. Brown, cosa l’affascina della massoneria? «Conosco le storie della P2 e della vostra massoneria, ma il concetto massonico che avete in Italia è molto diverso da quello americano. Oggi tutti si ammazzano perché ognuno crede in un dio che reputa il migliore. Ognuno ha una visione diversa del proprio dio. Allora la massoneria ha riunito ebrei, cristiani, musulmani e altri religiosi, esortandoli a dimenticare la semantica e a capire che, se tutti crediamo in un essere superiore, tutti siamo fratelli. Credo che questo sia un approccio molto giusto verso le varie religioni». Il Tempo 9 dicembre

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”

“Finita, / è finita. / La nostra favola è finita. / Semplice e tragico: / è finita. / Tutto qua”.

Era da un po’ che non risentivo Uno, la title track dell’omonimo album dei Marlene Kuntz datato 2007. Un bellissimo pezzo: denso, amaro, struggente. Tutti, chi più chi meno, possiamo riconoscerci in quell’ipnotizzante ritornello:

“C’è qualche cosa di sbagliato nell’amore, / c’è che quando finisce porta un grande dolore… / perché quando un’amicizia muore non c’è / questo spasimo che sa di tremenda condanna”.

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”. Intendendo per amore quello tra uomo e donna, vi è davvero in esso, post peccatum, “qualche cosa di sbagliato”. Liti, sopraffazioni, disarmonie, incomprensioni, abbandoni: percepiamo, in tutto questo, una dolorosa deviazione dall’ideale, la violazione di un “dover essere” che si dimostra stranamente inattingibile.

Ho sentito dire, e mi trovo d’accordo, che lo stato normale dell’uomo è l’innamoramento. Siamo fatti per essere innamorati: innamorati di Dio. L’uomo che non si innamora di Dio è l’essere più monco e irrealizzato della terra: una larva grigia che non conosce i colori.

L’amore umano, l’innamoramento tra creature diverse e complementari come l’uomo e la donna, è stato progettato per essere metafora di quell’amore più grande che è l’Amore divino. Sicuramente è per questo che, dopo il peccato e l’allontanamento da Dio, tendiamo a trasferire sull’amore umano la nostra fame di assoluto.

“Se penso a quelle cose che morranno perché / non potremo più condividerle… / muoio anch’io”.

“Muoio anch’io”: cioè muore in me la mia essenza, se viene meno l’oggetto del mio originario e strutturale “essere innamorato”. La fine di un amore umano, nella misura in cui esso non è stato subordinato e finalizzato all’Amore divino, è sempre un disinganno: scopro di aver assolutizzato il relativo, ed ora al mio slancio mancano appigli.

“…questo è il mio tormento, la mia fatalità / il motivo della fine della favola…”.