Antonio Rosmini: gli antenati. I puntata.

Il nome di Antonio Rosmini porta con sé il profondo legame con la città di Rovereto. Nei primi anni di sacerdozio Rosmini usava concludere le lettere con la firma “Antonio Rosmini, prete roveretano”. Questo affetto per la sua città natale ha sempre trovato un amorevole riscontro nei suoi concittadini, i quali nel 1887 erigeranno nell’attuale piazza Rosmini di Rovereto la poderosa statua, che verrà poi spostata in corso Rosmini, dinnanzi alla casa natale del sacerdote roveretano.

L’origine dei Rosmini, tuttavia, non risiede in Rovereto. Un illustre antenato del filosofo, Nicolò Ferdinando (1707-1753) Rosmini, in collaborazione con Jacopo Tartarotti ( fratello del più noto Girolamo ), intraprese una meticolosa ricerca sulla propria famiglia esposta in un voluminoso manoscritto che riceverà il titolo di Prove dell’albero della Famiglia Rosmini e altre notizie intorno la medesima. Il manoscritto non vuole essere solo una attenta indagine storica, ma vuole veicolare un esimio valore morale. Nella premessa spiega i “due motivi che mi hanno indotto a raccogliere queste notizie intorno la nostra Famiglia: il primo egli è perché servino di impulso a chi le leggerà di non degenerare dalle animose, nobili, e virtuose qualità de’ suoi antenati, ma più tosto con azioni eroiche, ed illustri procuri di aumentare le prerogative della Famiglia”; il secondo, aggiunge, è perché l’ignoranza della propria storia familiare porta sovente con sé litigi e contese per motivi di eredità e proprietà. Segue poi una valutazione sulla nobiltà che non può essere considerata parte della eredità, ma solo conquista personale di ogni membro della famiglia, poiché, continua, “la nobiltà è una qualità accidentale, gloria di chi con belle operazioni la ha ottenuta, e meritata, non di chi casualmente la ha ereditata”.

 La conclusione di questa premessa viene iniziata da una esortazione spirituale: “Procuri adunque ogn’uno ben impiegarsi santamente verso Iddio per salute dell’anima sua, poi virtuosamente per giovare al suo prossimo, e nello stesso tempo abbia a cuore di conservare e aumentare il preggio della famiglia […]”. Sottolinea l’importanza del legame con il proprio passato, ponendo nella firma la presenza di ben tre successive paternità: “Nicolò Ferdinando figlio di Ambrogio figlio di Nicolò figlio di Francesco figlio di Antonio”. Ma lo studio di Nicolò Ferdinando percorre una attenta indagine storica anche a ritroso nei secoli. Questo consente di scoprire che il capostipite della famiglia Rosmini portava il nome di Aresmino ed era originario di Piazzo, piccolo paesino dipendente dalla pieve di S. Pellegrino, nella provincia di Bergamo. Francesco Paoli, il primo biografo di Antonio Rosmini, nella sua Antonio Rosmini e la sua Prosapia, afferma che “Aresmino, figlio di Pietro degli Aliprandi, detti volgarmente Oprandi, è il capostipite di tutte le famiglie Rosmini, e nacque a Piazzo, in una delle piccole ville della pieve di S. Pellegrino”. Con Aresmino ci troviamo a cavallo del XIV e XV secolo. Il ricercatore di cui si serve Jacopo Tartarotti è il sacerdote di S. Pellegrino, don Gio-Batta Angelici, il quale verso la conclusione della sua ricerca, invia un documento dove afferma: “L’altro giorno trovai verso la fine del secolo 1200 un quondam Oprando de S. Pellegrino descritto in una pergamena della nostra cattedrale …”. Aresmino si porta a Rovereto. Qui lo rintracciamo con il nome di Rasmino, e viene individuato come il capostipite di tutte le famiglie Rosmini.

La sua morte si colloca tra il 1464-1469. Dei suoi quattro figli (Gusmero, Giovanni Picenino, Pamfilo, Carlo), Giovanni Picenino è il capostipite delle famiglie Rosmini di Volano, mentre il primogenito Gusmero, è il capostipite delle famiglie Rosmini di Rovereto, mettendo al mondo tre figli (Gusmero, Rosmino, Pietro), e due figlie, (Giovanna e Marietta). E’ singolare notare che il figlio di Rosmino, Zaccaria, abbracciato lo stato ecclesiastico, diviene rettore della chiesa di S. Marco in Rovereto, carica che verrà affidata anche ad Antonio Rosmini per un anno ricevendo il 21 giugno 1834 il decreto di elezione e il 5 0ttobre 1834 la presa di possesso. Il fratello di Zaccaria, Cristoforo, dal 1555 al 1564 riceverà più volte l’incarico di provveditore della città di Rovereto. L’impegno civile e militare rendono noti i Rosmini, accrescendo la stima nei loro confronti. I Rosmini si evidenziarono sia per la loro convinta fede religiosa, come anche per il loro impegno civile e militare, tanto che Massimiliano II, il 28 ottobre 1574, concede ai fratelli Francesco, Pietro, Giorgio e Pamfilo Rosmini il diploma imperiale di nobiltà. I discendenti di Pamfilo, cento anni dopo, il 29 maggio 1672, riceveranno da Leopoldo II un nuovo, solenne e più esteso decreto di riconoscimento dei meriti e nobiltà acquisiti. Anche il nostro filosofo, Antonio Rosmini e il fratello Giuseppe, il 13 marzo 1830 verranno immatricolati “fra i nobili della provincia di Trento”. Nel 1714 nasce Gianantonio Rosmini, fratello di Nicolò Ferdinando, il cronista. Gianantonio studia per due anni nel collegio “San Luigi” tenuto dai padri gesuiti a Bologna; frequenta con profitto le facoltà di Filosofia e Giurisprudenza. Terminati gli studi, sposa Margherita dei Conti Bossi-Fedrigotti di Rovereto. Dalla loro unione nascono due figli, Ambrogio e Pier Modesto e due figlie, Teresa e Cecilia che rimasero in famiglia nubili. Con Gianantonio si aggiunge al cognome Rosmini quello di Serbati, in seguito all’acquisizione di un Fidecommesso istituito nel 1619 da Benedetto Serbati di Rovereto, che imponeva all’erede di conservare intatti i beni ereditati e in caso di estinzione del ramo maschile dovesse passare al più vecchio dei discendenti per via di donne della casa Serbati.

Il Fidecommesso era stato ereditato da Gerolamo Tartarotti, eminente storico critico di Rovereto e, alla sua morte, nel 1761, passa a Gianantonio, per via della madre Cecilia Orefici-Serbati. Il secondogenito di Gianantonio, Pier Modesto Rosmini, sposerà Giovanna dei Conti Formenti di Biacesa, presso Riva del Garda, dalla quale nasceranno Gioseffa Margherita nel 1794, Antonio nel 1797, e Giuseppe nel 1798. Data l’instabilità di Giuseppe, il padre deciderà di lasciare quattro sesti dell’eredità ad Antonio, e un sesto rispettivamente alla sorella G. Margherita e al fratello Giuseppe. Giuseppe si sposerà, ma non avrà progenie. Con Antonio, sacerdote, filosofo e fondatore dell’Istituto della Carità, si estinguerà la casata dei Rosmini-Serbati. Testi di consultazione: PAOLI F., Antonio Rosmini e la sua Prosopia (= Prosapia), Rovereto 1880; TODISCO S., I Rosmini e gli altri, Udine 1996; VALLE A., Gli antenati, la famiglia, la casa, la città, Brescia 1997. padre Mario Pangallo

Il fascino della Verità.

Il misterioso fascino di Lady Verità
di Giacomo Samek Lodovici
(in “Avvenire”, editoriale del 25.08.2007)
Il notevole successo non solo di pubblico, ma anche di interesse, riscontrato al Meeting di Rimini dal tema della verità, mostra che l’argomento non riguarda solo i filosofi. Piuttosto, la sua rilevanza è sempre più avvertita, con crescente consapevolezza, anche dai non specialisti. Vi si sono soffermati varie volte anche Giovanni Paolo II (per esempio nell’enciclica Veritatis Splendor) e Benedetto XVI (in diversi interventi, in particolare nella sua ultima omelia da cardinale, in cui parla di “dittatura del relativismo”).
Ma che cos’è la verità? E perché il relativismo è esiziale?
La verità è la proprietà del pensiero umano e di quelle affermazioni che sono conformi alla realtà e riferiscono fedelmente le cose: si ha quando l’uomo si adegua alla realtà.
Il relativismo invece nega la possibilità per l’uomo di conoscere la verità e sostiene la relatività di ogni affermazione e di ogni pensiero: tutto è soggettivo ed ogni uomo è l’unità di misura delle cose. Così, non è l’uomo ad adeguarsi alla realtà, ma è la realtà a doversi adeguare all’uomo, a doversi conformare alle sue voglie ed ai suoi desideri. Ciò comporta che le leggi debbano assecondare ogni mio desiderio: se voglio fabbricare un bambino in provetta, se – per limitarci agli esempi di maggiore attualità – voglio clonare una persona, se voglio gli stessi diritti dei coniugi, anche se semplicemente convivo, ecc., la legge mi deve accontentare.
Il relativismo produce non solo queste importantissime conseguenze socio-giuridiche, ma anche altre, molto gravi: se non è possibile conoscere la verità, allora non possiamo giudicare oggettivamente gli atti umani e, dunque, le azioni umane, anche quelle che siamo soliti considerare crudeli e malvagie, non le possiamo più biasimare; inoltre ogni possibile ricerca ed indagine (esistenziale, scientifica, religiosa, ecc) non può che essere vana e sterile, perché destinata a non poter conseguire la verità. Così, le grandi domande che ogni uomo si fa sul senso della vita e della morte, su Dio, sulla sofferenza, ecc., sono destinate allo scacco. Insomma, come sempre più persone intuiscono, i problemi posti dal relativismo sono davvero cruciali e urgenti, decisivi e preliminari per ogni uomo.
Ora, il relativismo è antichissimo e le sue riformulazioni sono molteplici. Tuttavia, già Platone ne segnalò l’inoppugnabile contraddizione: infatti il relativismo pretende di essere vero proprio mentre nega che si possa conoscere il vero; proprio mentre dice: “la verità non esiste/è inconoscibile”, pretende di dire/conoscere una verità (cioè che: “la verità non esiste/è inconoscibile”); proprio mentre dice: “tutto è relativo”, pretende di dire qualcosa di assoluto (cioè che: “tutto è relativo”).
Certo, l’uomo non può conoscere tutta la verità, bensì solo alcune verità e la ricerca della verità è infinita, è un’impresa collettiva, svolta dal genere umano nel suo complesso. Come dice il medievale Bernardo di Chartres, “siamo nani sulle spalle di giganti”, cioè sulle spalle di coloro che ci hanno preceduti, sui cui risultati noi ci possiamo appoggiare per vedere più lontano, ovvero per incrementare, anche se magari solo di poco, la nostra conoscenza.
? vero che in certi casi la verità produce autoritarismo, ma solo se la si tradisce, perché la verità va proposta e non imposta. Inoltre, solo la conoscibilità della verità può far da baluardo contro ogni tipo di malvagità, compreso il totalitarismo, perché la malvagità può essere condannata solo se è conoscibile la verità secondo cui l’uomo possiede una dignità che non si deve mai calpestare.
Forse è questo che la gente cerca quando accorre per sentirsi chiarire le idee su verità e relativismo.

L’insostenibile leggerezza del relativismo

Qualche tempo fa si stava a discutere in classe sul valore della verità. A dirla tutta, sono stato io ad ardire di pronunciare la parola “vietata”. Il nostro infatti, si presenta come il tempo delle molteplici prospettive e chi si azzardi a parlare di verità è subito tacciato di integralismo. Ma le cose stanno proprio così? E’ vero che l’uomo moderno deve rinunciare per sempre alla pretesa di qualsiasi verità? Non solo, siamo convinti che egli farebbe bene a preoccuparsi dei problemi concreti evitando persino di cercarla la verità ? Ma cosa resta della ricerca se essa è destinata al fallimento? Ha ancora senso cercare in questo caso?
Queste ed altre domande hanno assillato la mia mente dopo quella discussione. Con questo breve scritto non ho alcuna pretesa di formulare una risposta; su di un punto però vorrei soffermarmi: quando con gli studenti si è parlato di “verità” inconsapevolmente, si sono formati due schieramenti che esprimevano prospettive filosofiche e antropologiche diversissime, uno spartiacque stimolante e provocatorio. Da una parte stavano i sostenitori della verità, essi riconoscevano all’intelligenza umana la possibilità di identificare alcuni principi, alcuni valori come assoluti, non negoziabili.
Questo gruppo lo potremmo chiamare, il gruppo dei credenti, cioè di coloro che vedono nella natura un disegno e attraverso di esso la volontà di un creatore che nel creato avrebbe posto dei valori riconoscibili da parte di una ragione ben orientata. Questo significa che non basta la semplice ragione per garantire la bontà di un atto; anche una legge iniqua può essere frutto della ragione. Ciò che fa di un’azione o di una legge qualcosa di desiderabile è il dettato della retta ragione; questo intendo per ragione ben orientata. In tale sede non ho lo spazio di approfondire come si determini la recta ratio, basti qui solo ricordare il fecondo apporto in tale ambito promosso da Tommaso D’Aquino.
Il secondo gruppo sosteneva – come osservato – una tesi totalmente diversa dal primo. I ragazzi asserivano che ogni valore morale non è altro che il prodotto di una determinata cultura e di un determinato tempo. In tal modo veniva espressa l’impossibilità di affermare l’assolutezza di qualsivoglia valore, mentre si riconosceva la transitorietà dei principi e persino dei concetti di bene e di male.
A questo punto mi è parso opportuno porre un interrogativo: esiste un “dover essere” per l’uomo? Detto in altre parole mi chiedevo se fosse possibile riconoscere nella persona umana una serie di dati originari che la qualificano rispetto ad ogni altro essere vivente. Se esiste questa natura, la domanda che successivamente andrebbe posta è come l’uomo possa corrispondere nel corso della propria vita a questa “legge” inscritta dentro di lui.
Gli inconsapevoli sostenitori di quella che ho chiamato visione materialistica della vita, i sostenitori convinti del relativismo dell’uomo e delle culture, ovviamente rigettavano la mia ipotesi, sostenendo al contrario come ogni verità fosse soltanto espressione di convenzioni, abitudini, idee consolidate, compromessi raggiunti.
Questo ragionamento però, mi avvidi subito che portava in un vicolo cieco. Gli assertori del relativismo etico infatti dovevano concludere che collocate nel loro tempo pratiche come la tortura, la schiavitù, l’infanticidio, il cannibalismo, la discriminazione in base al sesso ecc…andavano valutate come eticamente vere e perciò, non solo tollerabili ma anche comprensibili, in quanto espressione di un dato sentire.
Essi, nel precludere alla ragione umana la possibilità di riconoscere valori assoluti e atemporali, dovevano necessariamente esimersi da ogni giudizio sulla storia.
Non solo, persino il presente visto attraverso questo angolo di visuale, se ci pensiamo, si rivela incomprensibile e gravido di contraddizioni. Chiediamoci infatti perché dovremmo censurare oggi, pratiche come la poligamia, l’infibulazione, la discriminazione della donna, la pena di morte, se esse sono vissute come valori culturali, come elementi di civiltà da popoli diversi da noi occidentali.
A questi popoli cosa contrapponiamo? Le nostre convenzioni, i nostri usi e costumi, la nostra democrazia, anche laddove quest’ultima non appartenga minimamente alla cultura di una data civiltà?
Se tutto è opinabile, se ogni cosa è semplicemente il frutto di rapporti di forza o votazioni di maggioranze, se tutto è frutto della cultura di riferimento, allora tutto è possibile e si equivale.
E la prova di questa mia ultima osservazione è data da un fatto, che oggi, nel mondo ci si preoccupa della democrazia e dei diritti umani solo laddove vi sono interessi che esulano da motivi semplicemente umanitari. Il mondo è pieno di dittature, di atroci sperequazioni, di popoli che si scannano a vicenda nel disinteresse generale. Questo perché la stessa vita umana non è avvertita come un valore assoluto. Diritti umani e democrazia infatti, dove manchi un radicamento di questi principi in qualcosa di assoluto, risultano semplici convenzioni.
Con che autorità infatti potrei proporre una convenzione ad un’altra ergendomi a giudice della stessa?
Cosa accade insomma, se seguiamo il filo di questi ragionamenti? Vogliamo riconoscerlo?Semplicemente si verifica che i valori senza fondamento diventano tutti relativi.
Il paradosso, percorrendo tale traiettoria concettuale è che persino le crociate e la caccia alle streghe, noti cavalli di battaglia della propaganda anticlericale e anticattolica, possono essere serenamente “giudicate”soltanto dai cattolici stessi, in quanto solo loro riconoscono la dignità assoluta di ogni essere umano, dignità che può essere tale, in quanto sottratta ad ogni discussione e radicata in DIO.
Così, per converso, i relativisti dovrebbe comprendere molte vicende storiche senza giudicarle in quanto maturate in epoche dove i valori erano diversi.
Un’ulteriore prova delle incoerenze cui porta la negazione della possibilità di riconoscere una verità sull’uomo si manifesta nell’attuale dibattito relativo allo statuto dell’embrione. Il prof. Boncinelli, intervistato in merito, osservò come fosse impossibile dire con certezza quando l’embrione umano potesse essere qualificato come persona. Detto ciò aggiunse, come per uscire da tale impasse, l’unica via praticabile fosse quella di stabilire convenzionalmente il momento del trapasso dell’embrione da anonimo grumo di cellule a persona.
Questo significa che in paesi diversi, in culture diverse,tale momento può variare; insomma per alcuni la persona emerge con l’embrione stesso, per altri neppure dopo la nascita. Da tutto ciò conseguirebbe che la dignità umana e il diritto alla vita varierebbero in base alla logica di un accordo.
La rinuncia dei principi suggeriti dal diritto naturale porta per tale via alla barbarie, all’affermazione del diritto del più forte. Accade sempre più quello che i buoni assicuratori sanno: la vita di un affermato avvocato di 40 anni vale infinitamente di più di quella di un modesto impiegato postale. Mai ci capiti di investire ed uccidere un affermato professionista! Ci accorgeremmo sulla nostra pelle di come va il mondo.
Un’ultima osservazione: spesso abbiamo sentito affermare che un feto non può essere detto una persona perché lo è solo in potenza. Anche in questo caso vorrei servirmi di un esempio tratto dalla realtà. Supponete che un vostro vicino pianti cento alberi di mele, cento tenere pianticelle che fra qualche anno una volta cresciute daranno dei frutti. Nessuno si sognerebbe mai di dire che quelle pianticelle non solo degli alberi di mela, tanto che se io una notte decidessi di tagliarli tutti per fare un dispetto al mio vicino, se visto, andrei incontro ad un processo e ad una grave sanzione. A poco varrebbe affermassi che quegli alberi erano capaci di produrre mele solo in potenza.
Sta tutta qui l’insostenibile leggerezza del relativismo.

La Verità, non l’autorità, fa la legge. Considerazioni sul diritto.

Tra i valori in cui il nostro tempo afferma di riconoscersi possiamo notare che manchino di fatto sia la legge che la verità. Formalmente è accettato il principio del governo della legge – che, come si sa, è molto antico, teorizzato già da Platone e da Aristotele – dal momento che il nostro ordinamento giuridico è concepito come stato di diritto, ovvero come uno stato in cui i rapporti intersoggettivi e le manifestazioni di volontà dell’autorità costituita devono avere luogo secondo la forma stabilita o sanzionata, cioè approvata dalla legge. Legge intesa in senso formale, cioè come deliberato di un’assemblea legislativa eletta a suffragio universale. Però questo riconoscimento del governo della legge in senso formale (qui la legge è tale solo in senso formale, cioè la legge è legge per la forma in cui viene emanata), è esso stesso formale perché non sembra più avere luogo in senso sostanziale, cioè nella coscienza degli individui sottoposti alla legge. Infatti, una prima cosa da notare è questa: che la legge posta dall’autorità legittima ci obbliga e ci costringe già per il solo fatto di esistere. E questo essere obbligato dalla semplice esistenza della legge, l’uomo contemporaneo non lo vuole più accettare. Non vuole alcun limite alla propria libertà individuale per cui l’atteggiamento spirituale del mondo moderno è quello di obbedire alla legge solo se ci trova il proprio utile, la propria convenienza. Diciamo in sostanza che l’uomo contemporaneo rifiuta il principio del governo della legge così come rifiuta il principio di autorità. ? una delle cose più normali oggi sentir negare il principio di autorità: non bisogna costringere, non bisogna imporre niente a nessuno.
Ora, anche la legge in senso formale è pur sempre espressione del principio di autorità. Naturalmente questo atteggiamento dell’uomo contemporaneo è sbagliato, in quanto il principio di autorità non è incompatibile con l’idea di libertà, ma è incompatibile con l’idea di una libertà senza limiti, quale viene professata dall’uomo contemporaneo. Bisogna quindi dire che l’accettazione dell’antico principio, secondo il quale la legge posta dall’autorità legittima deve governare la nostra vita temporale, comporta l’obbedienza alla legge in quanto tale, a meno che non si dimostri che nel caso particolare la legge non è buona, cioè è incompatibile con dei princìpi più alti. Era il caso dei martiri cristiani i quali non negavano l’autorità dello Stato, come sappiamo, ma negavano la pretesa dello stato romano di divinizzarsi, rifiutavano di sacrificare all’imperatore, che l’imperatore dovesse essere considerato come Dio, tant’è vero che Tertulliano scrive, com’è noto, rivolgendosi ai pagani: “Cesare è più nostro che vostro”, ovvero: noi riconosciamo la legittimità dello stato nell’ambito delle sue funzioni ordinarie “… perché se non ci fosse l’impero romano”, dice Tertulliano, “verrebbe l’Anticristo”. Ma quando lo stato vuole farsi esso stesso Dio allora non si può più obbedire a questa pretesa.
Da cosa deduciamo dunque che la legge oggi venga osservata soprattutto se la si considera conveniente per noi stessi? Dal puntuale e sistematico verificarsi di contestazioni organizzate, in Italia – lo sappiamo bene – praticamente ad ogni legge. Cioè gli interessi che si considerano lesi si organizzano ogni giorno in forme concrete di lotta contro la legge emanata, o in procinto di esserlo, e l’opinione pubblica trova questo modo di agire del tutto normale. ? l’aspetto più impressionante che rivela che non c’è più l’idea che la legge vada innanzitutto osservata perché è legge, punto e basta, fatto salvo il caso detto in precedenza. Per l’uomo contemporaneo nella legge non c’è alcuna verità, c’è solo l’utilità, quando c’è. Perché il criterio che egli adotta per giudicare la legge non è dato dal vero (e quindi dal giusto), ma dall’utile. Il ragionamento che egli fa è dunque il seguente: se la legge non mi è utile, non accresce il mio benessere, non rispetta le mie pretese, protesto e mi ribello.
L’idea di una libertà senza limiti, che è ormai incardinata nella mentalità dell’uomo contemporaneo, ha fatto poi venir meno in quest’uomo l’idea stessa del dovere. In conseguenza di ciò non c’è più l’idea che obbedire alla legge sia innanzitutto un dovere, dovere al quale non si soddisfa che in presenza di gravi e giustificati motivi. L’idea, inoltre, di una libertà individuale illimitata nasconde una concezione violenta della libertà. Perché mancando i limiti della libertà di ciascuno, fatalmente si ha quello che gli stessi filosofi laici del tempo passato chiamavano “lo stato di natura belluino”, cioè lo stato di guerra di tutti contro tutti. Infatti se manca ogni limite sarà solo con la mia forza, perennemente vigilante, che mi difenderò dagli altri e mi imporrò loro. Dato poi che un limite deve pure esserci, perché la natura delle cose lo impone, dovrò essere io, l’individuo, a dirigere questo limite nei confronti degli altri, magari aggredendoli prima che mi attacchino. In una condizione del genere, di lotta belluina di tutti contro tutti, la regola, o norma, la legge che un’autorità voglia imporre, sarà sentita unicamente come l’espressione di puri rapporti di forza ai quali l’individuo si piegherà solo in relazione alla propria convenienza e al timore che la legge, cioè i rapporti di forza esistenti, gli incuteranno. Non è quindi la verità, ma l’utile e la forza, i criteri ai quali ci si ispira per valutare la legge.
Diciamo quindi che l’idea della verità oggi come oggi, è talmente assente dall’idea della legge che l’accostamento di legge e verità può sembrare persino assurdo. Ma la legge, dobbiamo dire, non può essere la mera espressione dei rapporti di forza dominanti, nei quali si organizzano e vengono a conflitto tutti i fini egoistici degli individui. La legge deve invece mirare a una verità obiettiva, assoluta, che può essere data solo dalla realizzazione del bene comune. Il bene comune costituisce l’unica misura obiettiva per determinare la verità della legge, infinitamente superiore a ogni sua utilità per i particolari, per gli individui.
Il bene comune, ripeto, non come somma di interessi individuali, cioè di ciò che per ognuno di noi è soggettivamente il bene, ma come valore obiettivo che risulta da ciò che è bene in sé per l’uomo, creato da Dio a Sua immagine e somiglianza e che il singolo deve saper cogliere usando l’intelletto e la volontà secondo le disposizioni al bene che Dio ha posto in essi (intelletto e volontà). Ma, detto questo, ci chiediamo: un’epoca che non crede nella verità come la nostra, come può credere nella verità che la legge deve incarnare? Il nostro tempo non crede infatti nell’esistenza di una verità assoluta. Si ritiene invece che ogni verità sia del tutto relativa, del tutto soggettiva. Ciò equivale a negare di fatto l’esistenza stessa della verità, dal momento che una verità solo soggettiva è nient’altro che un’opinione del soggetto, e quindi, per definizione, una non verità, non potendo la verità ridursi alla mera opinione. Anche in tutta la filosofia antica, nella sua componente costruttiva, cioè classica, la filosofia greca – diciamo – costruttiva, non intendendo i sistemi negativi come l’epicureismo, lo stesso stoicismo e, per vari aspetti, lo scetticismo, ma intendendo proprio il pensiero costruttivo che troviamo in Platone, in Aristotele e anche nei presocratici. C’è la lotta continua contro la doxa, l’opinione. L’opinione non è verità. La semplice opinione, o del soggetto, o del popolo, della comunità, come tale non può contenere la verità. Deve dimostrarlo. Eraclito diceva. “la doxa dimostra di avere la verità se dimostra di contenere il logos”, il principio universale che deve governare il tutto. Comunque c’è questa lotta continua, costante, del pensiero antico contro il regno dell’opinione e oggi la decadenza del mondo moderno la si vede anche da questo, che viviamo nel regno dell’opinione, della doxa organizzata attraverso i mezzi di comunicazione e le scoperte della scienza. Dire dunque che la verità è solo soggettiva è come negare la verità in quanto la verità non può ridursi all’opinione. Occorre notare come sia del tutto logico che questa negazione si accompagni alla negazione del principio di autorità, le due cose andando assieme in quanto la verità, una volta accertata, ci costringe con un’autorità indefettibile. La verità possiede in sé un’evidenza, ma si può usare un termine più forte e dire che possiede una propria autorità, un’autorità di fronte alla quale non possiamo più far valere la nostra opinione personale, dobbiamo invece inchinarci e obbedire alla verità. Quindi oggi si nega autorità alla verità e si nega l’autorità della legge. I due fenomeni sono correlati e derivano entrambi dal rifiuto che la coscienza moderna oppone alla verità assoluta, la quale, come sappiamo, è rappresentata in primo luogo da Dio e dalla Sua rivelazione. Per questa coscienza la legge non ha verità e la verità non può essere la nostra legge. Detta coscienza non riconosce alcuna autorità al di sopra di sé. L’unico principio di autorità che accetta è quello che, in maniera del tutto arbitraria, attribuisce a se stessa. Ciò significa che per questa coscienza è oggettivo solo ciò che essa considera conforme alla propria natura. Una natura però in cui non si sentono più alitare la coscienza o il logos universale, di cui ad esempio parlavano gli idealisti, ma la pura, unilaterale, volontà di potenza di Nietzsche, secondo la quale “nessuna legge può essere sacra per me”, come egli scriveva, “se non quella della mia natura”. Giusto è solo ciò che è in armonia con la mia natura, ingiusto ciò che è contro di essa.
Possiamo dire che questo noto frammento o aforisma di Nietzsche sia un po’ la divisa del modo di pensare contemporaneo in relazione alla legge e alla giustizia. Ora, diciamo che la fede contemporanea nel carattere rigorosamente soggettivo della verità e la conseguente, ostinata, negazione dell’esistenza di una verità assoluta, manifestano l’aporia, la difficoltà, la contraddizione che dir si voglia, che, sul piano dei princìpi, è stata da sempre rinfacciata ad ogni scetticismo e relativismo (e, tra l’altro, può sembrare un paradosso, ma tuttora sono sempre estremamente valide le critiche fatte da Hegel nelle sue “Lezioni sulla storia della filosofia” a tutto lo scetticismo, sia quello antico che quello moderno).
Chi nega infatti che esista una verità assoluta, non considera questa negazione come una verità relativa, cioè quale opinione che può essere falsa in quanto mera opinione di un soggetto, affermando quindi, di fatto, che il carattere soggettivo della verità è una verità assoluta. In tal modo egli si contraddice. E la contraddizione consiste proprio nell’essere costretto a far valere come verità assoluta la negazione stessa di ogni verità assoluta. Se i sostenitori della relatività della verità e della conseguente legittimità di tutti i punti di vista sulla verità, cioè di tutte le religioni, i costumi, le morali, le culture, fossero coerenti con se stessi, dovrebbero ammettere anche la relatività del loro punto di vista. Se il vero è sempre soggettivo perché non passibile di una dimostrazione assolutamente oggettiva, allora è soggettiva anche l’affermazione che il vero è soggettivo. Però, diciamo, che se è soggettiva, non è vera. Allora il relativismo assunto come principio assoluto, nega se stesso. Sul piano speculativo la sua negazione dell’esistenza di una verità assoluta non ha quindi valore già per il fatto che questa negazione è posta come una verità assoluta.
Ne concludiamo che la verità assoluta esiste, si tratta solo di sapere quale sia.
La contraddizione che inficia la proposizione speculativa fondamentale del relativismo fa sì che esso, ulteriore conseguenza, non possa distinguere tra verità ed errore. Allorché religioni delle quali si voglia affermare l’uguale dignità, come si dice oggi, affermano cose opposte nel dogma e nella morale, si può accettarle come ugualmente vere? Per il cristianesimo l’unico Dio è uno e trino, mentre per gli ebrei e musulmani non lo è. ? impossibile che questi due modi di concepire Dio siano entrambi veri. Dal momento che si escludono a vicenda dobbiamo dire che uno dovrà essere falso. Se Dio, come ben sappiamo è Uno e Trino, chi afferma il contrario non dice la verità, cade in errore, per cui diciamo che il cristianesimo è nel vero, mentre gli altri errano. A questa affermazione ci conduce un giudizio nel merito della cosa, cioè un giudizio mediante il quale prendiamo posizione a favore della verità, verità che non può che essere una verità assoluta, cioè una verità sentita come tale non perché posta da noi, ma perché da noi accettata nella sua obiettiva e indisputabile esistenza di verità rivelata. Come può allora il punto di vista relativistico, oggi dominante, porre tutte le religioni sullo stesso piano, riconoscendo loro pari dignità come se le loro fedi fossero ugualmente vere? Può a condizione di non addentrarsi nel merito perché il giudizio di merito obbliga a scegliere, già per il fatto di obbligare a distinguere fra proposizioni manifestamente contrapposte, con l’applicare il principio di identità e di non contraddizione. Il riconoscimento della pari dignità, come se contenessero un’uguale verità, a verità che sono fra loro antitetiche come il bene e il male si basa perciò sulla mancata applicazione dei canoni elementari della logica e il risultato ultimo è quella confusione fra verità ed errore che purtroppo è diventata la nota dominante, caratteristica, della nostra società; confusione, bisogna purtroppo dire, della quale la gerarchia cattolica ufficiale, da tempo – sappiamo – in piena crisi di fede, si è resa complice.
La contraddizione filosofica che è a fondamento del soggettivismo e del relativismo, si traduce quindi in una contraddizione pratica, ossia in quel nichilismo che pervade ormai ogni comportamento dell’uomo del nostro tempo. Possiamo fare un’annotazione ulteriore e dire che nella programmata indifferenza odierna per la verità, si cela un non detto, che è il vero nucleo del relativismo oggi dominante, e cioè che non c’è alcun Dio, alcun giudizio, alcuna vita eterna. Per questo non credono alla verità assoluta e pongono tutte le verità sullo stesso piano. E quindi l’ateismo è in realtà il segreto del soggettivismo contemporaneo, il suo articolo di fede.
Detto questo, ribadiamo il principio cattolico, del carattere rigorosamente oggettivo della verità che ho cercato di evidenziare nel mio modesto intervento: ciò che è vero lo è in sé, non perché riconosciuto come tale da noi, sia che si tratti di una mera verità di fatto, sia che si tratti dei valori. Non diventa vero per noi se non lo riconosciamo come vero, cioè, se non ne siamo convinti. Ma l’essere vero per noi nulla toglie o aggiunge a ciò che è in sé. Dio esiste e si è manifestato nella Rivelazione testimoniata nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Che noi si creda o non si creda in Lui questo cosa toglie o aggiunge alla Sua esistenza e alla Sua Rivelazione? Cosa toglie o aggiunge a questa verità?
Nel sostenere il principio del carattere assoluto e oggettivo del Vero, quindi che il Vero è tale non in quanto pensato, ma pensato – cioè fatto proprio dal soggetto – in quanto Vero. Nel sostenere quindi questo principio il pensiero cattolico, come sappiamo, da Sant’Agostino a San Tommaso, ha approfondito e rielaborato gli aspetti migliori del pensiero classico, cioè gli aspetti migliori di Platone e Aristotele, e ciò è stato rimproverato a quel pensiero ad es. dai protestanti, come una colpa, come se avesse tradito la verità rivelata. L’aristotelismo: un peccato mortale! In questa sede ci limitiamo a dire che le intuizioni – naturalmente positive – del pensiero classico, dimostrano solamente che Dio, oltre alla morale naturale, ha posto negli uomini anche un lume naturale, il quale, se ben usato, può condurre a delle verità di pensiero che vengono, diciamo, come a dissodare l’animo nostro, inaridito e piagato dalle passioni e dalla superbia, sì che poi la grazia di Dio possa piantarvi o farvi fiorire la fede. Del resto, se noi guardiamo i fatti, dobbiamo dire che essi parlano chiaro, che, appunto, gli eretici, abbandonato il principio del carattere assoluto della verità di fede (abbandonato perché? In odio alla autorità della Chiesa che ne custodiva il deposito e in odio al pensiero classico, su cui la Chiesa, indirettamente, si appoggiava) l’hanno sostituito con il principio del libero convincimento individuale e la libera coscienza di sé, che si costruisce la sua verità in apparente serietà di intenti. Quando Hegel diceva che Lutero era stato il vero profeta, il vero artefice della coscienza moderna, la libera coscienza individuale, questa libertà infinita che la coscienza riscopre, o scopre dentro di sé, ecco che la verità della fede viene a dipendere, ovviamente, dall’approvazione della coscienza individuale (eccoci al passaggio che si opera) e il rapporto fra il credente e la verità rivelata si snatura completamente, perché la verità rivelata è ciò che è in modo unico, in quanto rivelata e non perché approvata da qualcuno. I devastanti effetti di questo capovolgimento del modo di intendere la verità sono da molto tempo sotto gli occhi di tutti, dobbiamo cioè chiederci cosa è rimasto oggi dell’orgogliosa Riforma. Riforma che, sappiamo, fin dall’inizio divisa in mille sette, afflitta da mille eresie, dissoltasi nei paesi protestanti nell’indifferentismo più radicale, in pratica i culti di oggi, che possiamo definire perfino blasfemi, basti pensare ad esempio alle donne prete della chiesa anglicana. Ma i suoi frutti avvelenati, dobbiamo purtroppo dire, si colgono anche all’interno della Santa Chiesa, visto che la Gerarchia proclama sempre più spesso, oggi, che il fondamento della fede, dove va ricercato? Nella libera coscienza individuale! La Chiesa è messa così in contraddizione con se stessa poiché Nostro Signore Le ha affidato il compito, come sappiamo, di custodire il deposito della fede, di mantenere cioè la verità rivelata in sé e per sé, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, non di adattare la verità rivelata alle mutevoli e vane esigenze della coscienza, il cui trionfo rappresenterebbe la fine della Chiesa.
E dobbiamo ricordare a noi stessi, allora, che non è la forza della nostra coscienza che ci fa diventare cristiani, ma la forza della verità rivelata custodita dalla Chiesa, che sorregge la nostra ricerca di Dio mediante la grazia. Noi, naturalmente, siamo liberi, siamo sempre liberi, ma solo di cercare Dio, cosa che possiamo anche rifiutarci di fare, come dimostra l’ateismo oggi dominante. Quanti sono a cercare Dio oggi?
Non siamo quindi liberi di costruirci Dio a nostra immagine e somiglianza seguendo i falsi ragionamenti e le passioni della nostra coscienza, la quale, lasciata alla sua libertà, quasi di istinto, cerca subito di deformare le Sacre Scritture a misura d’uomo.
E non arretrerà di fronte, aggiungiamo, a nessun sofisma. Mi ricordo un filosofo inglese del Seicento, Hobbes, che diceva: “credo, naturalmente, che Dio abbia fatto, possa fare i miracoli, perché Dio è onnipotente, ma come posso essere sicuro che i miracoli raccontati nei vangeli siano effettivamente accaduti? Devo credere nell’autorità di quelli che hanno scritto queste cose, ma gli uomini mentono, gli uomini imbrogliano continuamente, chi mi dice che non se lo siano inventato?” Tipico esempio di sofisma… ? la deformazione della Sacra Scrittura e l’interpretazione erronea in base ai sofismi per non ammettere la verità assoluta, il sovrannaturale che si manifesta.
Quindi l’unica libertà che a noi conviene è quella di ricercare Dio. E come? Come lo dicono i buddisti? Come dicono di ricercarlo i musulmani? No, cercare Dio così come si ricerca la verità che esiste di per sé ed opera in maniera in tutto indipendente da noi, quella verità che, sola, può dannarci o salvarci e che ci viene incontro se noi, dal Suo punto di vista, lo meritiamo.
L’autorità della legge si fonda sulla sua verità
Dalle brevi considerazioni fatte risulta che il carattere oggettivo della verità comporta il riconoscimento del principio di autorità come principio inerente alla cosa stessa, cioè alla verità. Come si diceva la verità nella sua oggettività, nel suo valore assoluto, possiede autorità, cioè la capacità di imporsi nei nostri confronti. Dobbiamo solo riconoscerla, anche se già questo solo riconoscere richiede tutta la partecipazione del nostro intelletto. Questa capacità, o potere, la verità ce l’ha solo da se stessa, quindi diciamo che la verità vale, e può, per ciò che è in sé. Infatti la verità non si limita ad essere, ad esistere come qualcosa di separato e lontano: essa agisce nel senso che provoca un determinato modo di essere nel soggetto che la conosce. Ben diversi sono infatti il pensare e l’agire di chi crede in Dio da quelli di chi non ci crede. Ora il termine autorità è spesso usato come sinonimo di potere. Tuttavia nel concetto del potere c’è sempre l’idea di una forza che si impone esercitando una determinata pressione fisica o psichica. Una coercizione, una minaccia. Mentre nel concetto dell’autorità in senso proprio si ha l’idea di una superiorità che si impone senza costrizioni, comprimere o minacciare in alcun modo, ma solo con la forza della propria evidenza, alla quale non possiamo in alcun modo sottrarci. Questo è proprio della verità, la cui autorità è, appunto, indiscutibile, della verità nella sua obiettività; quindi tutto ciò che ha verità possiede autorità. Ora, anche l’autorità della legge, in senso proprio, è quella della verità e non è l’autorità della mera forza, del potere che si manifesta nella legge. Il principio di autorità che la legge incarna non può perciò essere solo quello che gli può essere conferito dalla forza. In esso deve apparire anche quell’autorità, non sorretta da alcun potere, che è tipica della verità. Per il pensiero moderno il principio di autorità si riscontra esclusivamente nell’autorità che è stata costituita mediante determinate regole, garantite da un potere, o che si è costituita da se stessa, autolegittimandosi mediante la propria forza materiale. Inteso in tal modo il principio di autorità esprime non la verità, ma solo il potere, perché l’autorità costituita o autocostituitasi, non è che l’espressione di rapporti di potere, che si fanno valere con la minaccia dell’uso della forza. ? anzi l’efficacia di questa minaccia a rendere non solo efficace, ma anche valida l’autorità costituita. Diciamo però che questa è una nozione formale del principio di autorità, perché lo concepisce solo come forma in cui si articola il potere, come vestigia di meri rapporti di fatto, rapporti che si legittimano finché possiedono la forza di imporsi. In quest’ottica l’autorità della legge è esclusivamente quella del potere che sostiene la legge, riducendosi così quest’ultima al mero comando dell’autorità costituita senza considerazioni del suo contenuto. Non si può negare, naturalmente, che la legge sia anche comando, voluntas, avendo bisogno di una volontà mediante la quale manifestarsi e che una volontà che si manifesti per uno scopo – non si può negare – abbia bisogno di un potere mediante il quale esercitarsi, altrimenti sarebbe una volontà impotente. Tuttavia la volontà mediante la quale la legge si attua non è propriamente la legge, ma è il suo veicolo, è lo strumento mediante il quale la legge si mostra per ciò che è.
Per quanto la legge è in sé ricava dalla propria verità la sua autorità, e la verità della legge è quella di essere, come già diceva Aristotele, “ordine e ragione senza passione”. Quest’idea della legge come ordo e come ratio c’è, come è noto, già in Platone, successivamente ripresa, sviluppata e approfondita in San Tommaso. La legge deve mostrare di avere colto l’ordine (ordo taxis) delle cose, dei rapporti cui si riferisce. Deve mostrare in altre parole di essere giusta. In ciò è la sua verità. Quindi la legge non è tale solo per la fonte che la promulga, per l’autorità che possiede in senso formale, per essere cioè un comando, lo è soprattutto perché manifesta quell’ordine che è nelle cose come loro verità intrinseca. Un ordine non creato quindi arbitrariamente dal legislatore, ma che esiste già nella realtà fisica e soprattutto morale. Un ordine che il legislatore deve riconoscere, far crescere, mantenere e infine imporre. Non si tratta quindi di una nozione meramente formale di ordine, ma sostanziale, alla quale non può che concorrere la ratio, una ratio – come opportunamente chiosa Aristotele – senza passione, perché l’ordine che la ragione rappresenta nella legge non è quello del soggetto, in preda alle proprie passioni, non è quello che appare al limitato punto di vista di ciascuno, ma è l’essenza stessa delle cose, il loro valore che, indipendentemente da ciò che ne pensi il singolo, la ratio deve cogliere considerando il fine per il quale la realtà stessa è.
Secondo questa prospettiva una legge formalmente valida, ma che non esprima nel suo contenuto né l’ordo, né la ratio, non può ritenersi una vera legge. Sarebbe infatti una legge priva di verità, una norma del tutto falsa che, anziché concorrere al mantenimento dell’ordine morale e materiale, diciamo pure, del mondo, concorrerebbe a distruggerlo. Il prototipo di questa legge lo si è sempre visto nella norma posta in essere dal tiranno, cioè colui che non ha di mira il vero fine per cui l’uomo è in società, cioè il bene comune, ma solo l’utile suo personale. Perciò quella norma emanata dal tiranno inteso in quel senso, anche se formalmente valida, come dice San Tommaso, poiché è contro la ragione, non è neanche una legge, ma piuttosto una sorta di perversione della legge; e la perversitas legis non la si può limitare alla fattispecie della tirannide. Si riscontra ogni volta che una legge sia fatta per favorire – diciamo – l’interesse di parte, l’interesse di una fazione, un partito, una classe, contro il bene comune o per violare uno dei dieci Comandamenti. In quest’ultima categoria, ad esempio, rientrerebbe l’obbrobriosa normativa per il riconoscimento del cosiddetto “matrimonio” omosessuale, di recente auspicata da alcuni in Europa, dato che non si limiterebbe ad essere una semplice negazione del bene comune, sarebbe qualcosa di ancora più grave.
Quindi se nella legge manca la ordonatio rationis ad bonum communem, cioè è come dire che ad essa manca la verità, perché l’ordinarsi della ragione al fine che le è proprio, cioè il bene comune, costituisce per la ragione quella obiettiva conformità alla cosa, al proprio oggetto, che è caratteristica della verità. La definizione tomistica della legge, che mira a coglierne il senso sostanziale, elabora il rapporto fra ordine e ragione, già chiaramente visto in essa dal pensiero classico, alla luce di una concezione della verità che riposa sul principio dell’oggettività del vero, principio che è alla base del vero pensiero cattolico. La perversione della legge consiste dunque nella sua falsità, nel non essere il suo contenuto conforme a quella verità oggettiva la quale giustifica non solo il contenuto, ma anche la fonte della legge, costituita dall’autorità, dal potere che la pone, partecipa di quella verità che la legge autentica deve dimostrare. Dare vita a una legge conforme a verità non sarà possibile se il potere che la pone non avrà riconosciuto la verità della propria origine, che non è umana, ma divina, come ci insegna San Paolo “non est enim potestas nisi a Deo”. Tale è la verità dell’autorità costituita, di derivare da Dio, cioè di essere stata permessa e costituita da Dio. Dio è perciò il fondamento ultimo della legge posta dall’autorità e la sua verità. Nell’attuazione delle sue funzioni ordinarie mediante le leggi – ho fatto un cenno prima: punire i malvagi, proteggere e premiare i buoni, mantenere l’ordine, salvaguardare i costumi, riscuotere i tributi, difendere dai nemici esterni – l’autorità costituita agisce come minister Dei, e a questo titolo autorizzata, dice ancora San Paolo, a portare la spada. Essa attua i decreti dell’ira divina – ancora San Paolo – contro chi fa il male. L’autorità, impersonata al più alto grado dallo Stato, non si giustifica quindi mai da se stessa, o in conseguenza di un atto di volontà dei sottoposti, di una delega di poteri racchiusa in un contratto, ma è giustificata da Dio, che la vuole e la permette per la salvezza delle anime, perché l’uomo, corrotto dal peccato originale, ha bisogno di un’autorità terrena, di una potestas che gli impedisca di corrompersi definitivamente, disciplinandone le azioni con le leggi e con il mantenimento dei buoni costumi. Questa autorità, perciò, si fonda sulla verità rappresentata dal decreto divino che l’autorizza, affinché contribuisca con i suoi mezzi e nel suo ambito, alla salvezza delle anime. E ciò significa che la sua efficacia non dipende dalla forza materiale, dal mero potere, dai rapporti di fatto, ma dal suo mantenersi nella verità, ossia mantenersi conforme in ogni sua azione e intenzione, alla volontà di Dio, cioè ai dieci Comandamenti e alla fede in Gesù, Nostro Signore, Seconda Persona della SS. Trinità.
Conclusione
Contro le tenebre dominanti siamo perciò giunti a ribadire un’altra verità cattolica: che la vera forza dei poteri costituiti non consiste nella potenza materiale, né nella capacità di incutere timore e di imporsi con la forza, cose che pure devono saper fare, né nel consenso, pur esso indispensabile, ma nella loro capacità di mantenersi fedeli alla verità, non ad una verità umana qualsiasi, ma alla verità rivelata da Dio e, come per i poteri costituiti, così per la legge, che ne è la manifestazione tipica. Entrambi, poteri e leggi, ricavano la loro autorità dalla verità che rappresentano. Perciò la legge non è un mero rispecchiamento dell’esistente, come oggi si suol dire – è questa ormai una nozione comune nella filosofia del diritto – che la legge cioè fotografa la realtà, rispecchia l’esistente. ? questa una concezione del tutto fuorviante, volendo qui intendere che il legislatore deve essere semplice notaio della realtà sociale, limitarsi a recepire nella legge i rapporti sociali nel loro cosiddetto dinamismo spontaneo, anche se tale dinamismo, se tali rapporti, giungano a mostrare le contraddizioni più incredibili o addirittura si ispirino a palesi non valori.
Un simile modo di concepire la legge, tipico di un’epoca che non crede più nella verità, non vede nella legge né ordo, né ratio e la legge diventa allora il semplice riflesso del disordine sociale dominante, un frammento dell’universale caos e quindi un’autentica perversitas legis. Invece la verità che deve apparire nella legge e che sola può conferire alla legge l’autorità che le spetta, quella che si suol dire la maestà della legge, è la verità dei valori nei quali si realizza oggettivamente il bene comune. Questi valori, che vengono da Dio, possono essere negati dal cosiddetto dinamismo di una società in piena decadenza – società come la nostra, che sembra addirittura non in decomposizione, ma decomposta – ma la legge li deve ugualmente comprendere nel proprio dettato e, se necessario, imporli, mostrando in tal modo di essere la legge, il contenuto di un atto di volontà non casuale, ma veramente consapevole della propria origine.(prof Pasqualucci, filosofia del diritto, università di perugia)