Il ministro Eugenia Roccella è da giorni e giorni il bersaglio preferito della stampa e dei partiti di sinistra, con l’accusa di voler abolire o distruggere, in chissà quale maniera, la legge 194. Poco importa che si tratti di un tema che non riguarda lei, ma semmai il ministro della Salute, e, soprattutto, il parlamento. Neppure interessa che nell’attuale maggioranza nessuno voglia toccare la 194, o per convinzione (ci sono molti abortisti anche nel centro destra), o, in qualche caso, perché lo si ritiene oggettivamente “impossibile”, dato il contesto culturale odierno.
Nella guerra politica ci sono delle persone, dei simboli, da abbattere, e Roccella lo è! Perché è un’altra donna non di sinistra al governo, e perché per il suo passato radicale è considerata una traditrice. Come tale va abbattuta, delegittimata, mostrificata, come monito per tutti.
Al centro del polverone, un concetto molto semplice: Roccella dice di aver imparato dal femminismo della differenza che l’aborto non è un diritto, ma semmai un dramma. Come tale da rendere il meno frequente possibile.
In diversi attacchi al neoministro ritorna un libro di CISA e MLD del giugno 1975, proprio a cura dell’allora radicale Eugenia Roccella, intitolato: “Aborto. Facciamolo da noi”.
Alla luce di questo saggio, acriticamente a favore dell’aborto “libero e gratuito in strutture sanitarie pubbliche”, Roccella viene accusata di aver tradito la sua storia e di mentire. All’epoca -questo è il rimprovero- dicevi ben altro!
In verità proprio leggendo quel libretto si capisce bene come negli anni Settanta il femminismo non fosse affatto monolitico. Vi sono infatti riportate, a partire da pagina 32, alcune dichiarazione dell’UDI, l’Unione delle donne italiane – forse la più nota e numerosa associazione femminista italiana, che ebbe tra i suoi membri Rita Montagnana e moltissime altre donne del PCI – di questo tenore: “I fautori della liberalizzazione dell’aborto lo presentano come libertà di non avere figli prescindendo spesso dalle cause del fenomeno e dalle conseguenze che esso determina. Questa posizione che agli sprovveduti può sembrare avanguardista, in realtà come mezzo di controllo delle nascite già presenta una posizione conservatrice… I sostenitori della liberalizzazione propugnano l’aborto in nome della libertà della donna. Niente di più falso. Se c’è qualcosa che contrasta con il libero estrinsecarsi della personalità femminile ciò è proprio la pratica abortiva… Teorizzare l’aborto come controllo delle nascite significa liberare definitivamente l’uomo da ogni responsabilità”.
Le donne dell’Udi, per lo più femministe e di sinistra, erano molto spaventate dall’idea che l’aborto divenisse un mezzo di “controllo delle nascite” e fosse la scusa, per gli uomini, per lavarsi le mani davanti ad una gravidanza non voluta: “il bambino è tuo e te lo gestisci tu, io non ci sono più!”.
E’ chiaro dunque che l’assunto “tutte le femministe sono per l’aborto come diritto” è assolutamente falso: storicamente molte di loro, come per esempio Lina Merlin, sono state del tutto contrarie, mentre molte altre lo consideravano una scelta dolorosa, qualche volta “inevitabile”, e per questo da annoverare nè tra i delitti punibili né tra i “diritti”. La donna infatti, questo era il ragionamento di fondo, è il soggetto che paga di più, rispetto al maschio, in termini fisici e psicologici.
A tal riguardo un testo classico del femminismo “moderato”, come Non credere di avere diritti, favorevole alla depenalizzazione dell’aborto, si esprimerà così sulla legge 194/1974 che lo aveva legalizzato:
“Quando la legge fu approvata ed entrò in vigore, le donne stesse che l’avevano voluta si resero conto che essa rispecchiava fedelmente le esigenze, le preoccupazioni, i compromessi di coloro che l’avevano fatta, gli uomini, con l’occhio attento a un corpo sociale dove il punto di vista maschile era ben chiaro e prevalente. Il più violento mezzo di controllo delle nascite era ormai entrato ufficialmente tra le norme che regolano la società”.
Solo qualche anno orsono, Luisa Muraro, storica fondatrice de La libreria delle donne di Milano, ha dichiarato: «Noi [femministe] partivamo dal principio fondamentale di libertà femminile: una donna non può essere obbligata a diventare madre, la maternità inizia con un sì. Ma tendevamo a sottolineare che l’aborto non è un diritto. Un diritto ha sempre un contenuto positivo. L’aborto invece è un rifiuto, un ripiego, una necessità. La donna che non vuole diventare madre subisce un intervento violento sul suo corpo per estirpare questo inizio di vita. Pensavamo, e pensiamo tuttora, che se si fa dell’aborto un diritto, si autorizza l’irresponsabilità degli uomini» (in Avvenire, 10 maggio 2018).
Insomma tra le donne e tra le femministe non vi era allora, come non vi è oggi, una visione univoca. Non vi era del resto neppure tra gli uomini di sinistra se è vero come è vero che Pierpaolo Pasolini, replicando a Calvino e Moravia, scriveva riguardo all’aborto: «lo considero una legalizzazione dell’omicidio».
Articolo comparso sul quotidiano La Verità
Ps Eugenia Roccella è stata la portavoce del Family day del 2007 contro i Dico (antenati della legge Cirinnà); si è poi schierata contro il ddl Scalfarotto, antenato del ddl Zan, nel 2013, contribuendo ad affossarlo; è strata protagonista del decreto del governo Berlusconi per salvare Eluana Englaro; successivamente si è battuta contro il ddl Cirinnà, poi passato, e contro il ddl Zan.