La Ru 486 e il Trentino.

Riportiamo una lettera comparsa sul Trentino.
Leggiamo continuamente notizie riguardanti l’uso della pillola RU486 e l’operato del prof. Arisi in materia di aborti farmacologici all’Ospedale S. Chiara. Questa volta si tratta di ben 178 aborti nel primo anno di sperimentazione clinica della pillola.
Per di più, per l’ennesima volta, viene affermato che questo metodo farmacologico non presenta significative controindicazioni. Il primario di ostetricia e ginecologia prof. Arisi afferma infatti: “Abolita l’anestesia e la sala operatoria, le prospettive di salute della donna che pratica l’aborto farmacologico possono essere solo positive”. Su quali basi Arisi dichiara che le prospettive possono essere solo positive? Solo sulle sue sperimentazioni? O su una letteratura scientifica ormai ampia e ben documentabile? E se vi è tale letteratura, quali ne sono i documenti?
Inoltre, ci lascia alquanto perplessi la presenza di un questionario in fase sperimentale, in cui si evidenzia il fatto che le donne consiglierebbero ad un’amica la procedura farmacologia.
La realtà sulla RU486 è però ben più complessa di quanto si voglia far credere. Citiamo, per l’ennesima volta, in brevità alcuni dati scientifici su questo delicatissimo tema. Un recente studio condotto da Centers for Disease Control and Prevention, ad Atlanta negli USA, descrive i casi di 4 morti dovuti ad endometriosi e sindrome da shock tossico associato al batterio Clostridium sordellii, casi verificati nella settimana successiva all’aborto chimico. Inoltre aggiunge alcuni effetti collaterali, come tachicardia, ipotensione, edema, vischiosità del sangue, profonda leucocitosi (M. Fischer, J. Bhatnagar, J. Guarner, et al., in “New England Journal of Medicine”, Dec. 2005).
Ma soffermiamoci sull’effetto letale. Nel settembre 2003 in California muore Holly Patterson, una giovane diciottenne, a causa di shock anafilattico. Il 19 luglio 2005 la Food and Drug Administration (FDA), l’ente di controllo sui farmaci degli USA, ha reso di dominio pubblico “quattro casi di morti settiche negli Stati Uniti, in particolare in California, fra settembre 2003 e giugno 2005, a seguito di aborto medico con RU486”, i quali si vanno ad aggiungere ad un caso analogo accertato nel 2001 in Canada.
Il 17 marzo 2006 (solo un anno fa!) la FDA ha reso noto che altre due donne statunitensi sono morte dopo aver assunto la pillola RU486 (cfr.: www.fda.gov/cder/drug/infopage/mifepristone/default.htm). Inoltre, si noti che le morti di queste donne nordamericane sono venute alla luce perché i parenti hanno chiesto delle autopsie sui cadaveri per capire le ragioni del decesso improvviso. Perciò, è legittimo supporre che le morti da RU486 potrebbero essere molto più numerose, anche al di fuori dagli USA. Infine, il prof. Greene, direttore di ostetricia al Massachusetts General Hospital di Boston, in un editoriale pubblicato sulla rivista “New England Journal of Medicine” (1 Dec. 2005), una delle più prestigiose a livello mondiale, dimostra che a parità di età gestazionale, la mortalità della donna per aborto con RU486 è 10 volte maggiore rispetto a quella con tecnica chirurgica.
? la stessa Danco, industria produttrice della pillola, a pubblicare nel suo sito, per obbligo legale, oltre 600 casi di donne che lamentano fortemente gli effetti collaterali della pillola.
Inoltre, mentre il 92% delle donne che si sono sottoposte all’aborto chirurgico sceglierebbe di nuovo questa tecnica in futuro, solo il 63% delle donne che si sono sottoposte all’aborto chimico sceglierebbe ancora questa metodica, segno che l’aborto chimico “non possiede in sé quei caratteri di indubitabile maggiore tollerabilità psicologica” (M. D. Creinin, in Contraception, Sept. 2000).
Dunque, su quali basi si può affermare di poter consigliare ad una donna la pillola RU486? Forse su basi scientifiche, oggettive, che possano andare bene per tutte le donne? O forse unicamente su basi soggettive, istintive, emotive, e quindi non univoche per tutte?
Soffermandosi sul fallimento del metodo e gli effetti collaterali riscontrati nell’uso della pillola, il prof. Arisi afferma poi: “…solo l’esperienza ci potrà dare più approfondite indicazioni”. Quanta poca considerazione delle donne nasconde tale dichiarazione! Quante donne si dovranno ancora “usare” prima di poter dichiarare finita la sperimentazione e dirsi sicuri della non pericolosità della RU486?
Sconcertante, d’altra parte, il dato che solo il 67% delle donne che hanno utilizzato la RU486 sia stato mandato dai consultori familiari, mentre un certo numero è passato per il medico di fiducia e per il pronto soccorso!
Che semplicistico, infine, leggere l’uso della locuzione “materiale abortivo”! Trattare vite umane innocenti e indifese, quali appunto i bambini in grembo (vedi ecografia), come materiale abortivo esprime la più grande intolleranza nei confronti del prossimo, senza specificare che anziché scomparire nel nulla, finisce nel water!
Il Movimento per la Vita vigila e vigilerà attentamente l’andamento delle pratiche abortiste che vengono utilizzate e promuoverà le opportune azioni in sede civile e penale per le eventuali violazioni delle leggi attuali in materia di sanità ed aiuto alla maternità.
Sandro Bordignon, presidente Movimento per la Vita-Trento
e-mail: sandrobordi@interfree.it
Mauro Sarra, componente direttivo MpV-Trento

Ru 486. In Trentino un triste primato

Il recente plauso con cui è stato salutato l’uso nella sanità trentina della cosiddetta Ru 486 mi ha fortemente incuriosito. Certamente ribadisco la mia netta contrarietà a tale pratica, ma mi è sembrato opportuno e anche doveroso cercare di saperne di più. Non è facile addentrarsi in tematiche di tal fatta, ma ritengo che le valutazioni e la documentazione che ho trovato sull’argomento, sebbene non certo esaustive, possano essere un utile contributo per rendersi conto di cosa si tratta. Dunque il nostro sistema sanitario detiene un primato nel campo dell’aborto chimico. In pochi mesi sono stati realizzati 100 aborti con l’ormai famosa Ru 486. Un risultato non da poco per la nostra sanità che continua ad importare questo farmaco dalla Francia. Perché? Perché la Ru 486 non è registrata in Italia, in quanto la casa produttrice non ne ha mai fatto richiesta, e c’è il timore che la pillola abortiva non supererebbe tutte le sperimentazioni richieste nel nostro Paese, tanto con un governo di centro destra quanto con uno di centro sinistra, da cui è appena arrivato un ulteriore stop agli entusiasmi. Non si riesce a trovare nessuno disposto a produrre la Ru486, e la casa che l’ha inventata ha addirittura ceduto gratuitamente i diritti, perché la “pillola” non è affatto innocua e indolore come si vuol far credere. Infatti anche negli Usa è stata approvata dalla Food and Drug Adiministration (Fda) con un escamotage: presentarla come un farmaco salvavita, per il quale sono ammessi anche effetti collaterali molto gravi. Oggi la Ru 486 negli States è sottoposta a continue critiche: porta una banda nera ed è dotata di un bugiardino che mette chiaramente in guardia da numerosi effetti collaterali (tra l’altro vieta l’utilizzo della pillola per chi abiti lontano da un ospedale o non sappia guidare: infatti è frequente il caso di improvvise emorragie). Infatti la Fda ha dovuto ammettere numerosi casi di morte in seguito all’uso di tale pillola: il caso più famoso è quello di Holly Patterson, una ragazza minorenne che ingerì la pillola, credendo che fosse la cosa più facile del mondo, e ci rimase. Da allora, nella sola California, sono venuti alla luce almeno 5 casi di morte, a cui se ne sono aggiunti molti altri. Si ricorda anche la morte di un’altra giovane, la figlia del dottor Sicard, la più alta autorità di bioetica in Francia. Del resto basta recarsi nel sito americano della Fda per constatare quanto detto. Oppure si può visitare il sito della Danco, l’industria farmaceutica che produce la pillola, per trovare oltre 600 testimonianze di donne che ne denunciano gli effetti collaterali: si va dalle emorragie al vomito, agli aumenti della pressione ai dolori e crampi addominali fino alle infezioni pelviche o genitali. Talvolta la Ru 486 fallisce rendendo così obbligatorio anche l’intervento chirurgico. Il farmaco mette inoltre a rischio la possibilità di gravidanze future. Desta quantomeno forti perplessità pensare che un veleno potente al punto da uccidere un embrione già formato, non abbia controindicazioni per la donna, che quel veleno riceve. Una delle riviste più autorevoli in campo medico, il New England Journal of Medicine, ha dimostrato con una ricerca del 2005 che, a parità di età gestazionale, la mortalità della donna per aborto con Ru 486 è ben dieci volte superiore rispetto a quella con tecnica chirurgica. Non è difficile da capire: mentre l’intervento chirurgico, che dal punto di vista morale è assolutamente equivalente, dura una sola seduta, nel caso dell’aborto chimico si richiede che la donna assuma la Ru 486 in presenza del medico, poi dopo 24 ore ritornerà in clinica per assumere la prostaglandina, e quindi nella maggior parte dei casi dopo 12-24 ore avrà violente contrazioni uterine che espelleranno l’embrione dall’utero. Il protocollo seguito per l’aborto chimico richiede molti più incontri tra il personale sanitario e la donna rispetto a quello chirurgico, la permanenza in ospedale per almeno tre giorni consecutivi e una vista di controllo al quattordicesimo giorno. Concludo avvertendo che questo non è, come sicuramente qualcuno mi rinfaccerà, facile “terrorismo psicologico”, ma un semplice attenersi alla realtà dei fatti e dei dati. Si enfatizzano spesso, per tutelare la salute e l’ambiente dall’immissione di sostanze innaturali, i principio di prevenzione e precauzione. Giustissimo. Questa della pillola Ru 486 è un’ottima opportunità, considerata anche l’autonomia del Trentino, per applicarli.

Riguardo alla ru 486

Riporto questa lettera scritta a L’Adige da don Matteo Graziola: “Della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Sono parole scritte nelle prime pagine della Bibbia, pronunciate dal Creatore del mondo, prima della Legge mosaica: stabiliscono una legge universale, basilare per qualsiasi popolo, cultura, società, età storica. Sono parole che dovrebbero trovare una eco immediata in ciascuno di noi e che hanno dettato quel senso della giustizia che nel corso della storia ha mosso tutti coloro che hanno cercato di realizzare società più giuste e libere. Queste parole hanno segnato la coscienza di un popolo che è vissuto in queste valli per secoli.
Che ne è ora di questo popolo? Che ne è della sua coscienza? Quando alcuni politici riescono a far compiere ad una intera comunità la trasformazione di un delitto in un diritto, e quando altri politici o cittadini lo permettono per non compromettere il loro potere o il loro posto o la loro tranquillità di vita, e quando alcuni medici trasformano la loro professione da soccorso alla vita a soppressione della persona più indifesa, e quando centinaia di donne credono di essere aiutate così ad affrontare la loro maternità distruggendola ‘volontariamente’… Può un popolo assistere a questo sopruso senza sentire alcunché nella sua coscienza personale e collettiva? Possiamo restare indifferenti di fronte a questo genocidio silenzioso che avviene a casa nostra? Possiamo davvero essere giustificati affermando che non sono cose di nostra competenza?
Non si creda che sia un problema secondario o una necessità storica cui rassegnarsi per realismo socio-politico. L’intelligenza e la coscienza di un popolo si rivelano soprattutto quando smascherano il pericolo e il male la dove si nascondano in forme non appariscenti o nell’ipocrisia di falsi proclami di democrazia e libertà. In gioco è in realtà il valore e la vita della persona umana in quanto tale, chiunque essa sia e qualunque sia la sua condizione sociale, economica, biologica.
Se c’è ancora un popolo trentino, erede di una grande tradizione solidaristica e ideale, se c’è ancora una qualche coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, se almeno il fondamento di ogni civiltà -e cioè la difesa del più debole- è ancora riconosciuto tra noi, io spero che questo popolo dica basta e ponga subito fine a questo orrore. Prima che sia troppo tardi per tutti, perché questi fatti sono i più gravi in assoluto agli occhi di chi ci chiederà conto di quello che abbiamo fatto “al più piccolo” dei suoi fratelli.

Ero gay, ma sono guarito.

Lo si può incontrare in una via di Milano, confuso tra la folla del sabato, a fare acquisti con la fidanzata, attento a non spendere troppo perché sta mettendo da parte i soldi per il matrimonio. Tranquillo, “normale” come dice di se stesso, virgolette comprese. Chi lo avesse conosciuto dieci anni fa potrebbe pensare di essersi sbagliato. Invece è proprio Luca Di Tolve, nella sua nuova vita. “Quella – racconta – che mi sono conquistato dopo sei anni di terapia riparativa dell’omosessualità: tre rosari al giorno, gruppi di ascolto, studio della Bibbia e dei testi di Josè Maria Escrivà, il fondatore dell’Opus Dei. Adesso, finalmente, sono guarito”.
“Guarito”, dice, come se essere gay fosse una malattia, secondo le più bieche posizioni omofobiche. Eppure Luca era omosessuale, e non uno tranquillo. Piuttosto uno da montagne russe, capace di passare dalle eleganti suite newyorchesi al sesso rubato in una “darkroom”, dall’ufficio dove dirigeva un team di persone a un parco di notte a consumare rapporti.
Il primo amore
Gay lo è sempre stato, fin da bimbo. “Ricordo la mia infanzia a giocare con le bambole e con le amiche del palazzo volevo sempre fare la mamma”, racconta. Già allora i genitori si erano separati, lui viveva in un monolocale a Milano con la mamma “troppo affettuosa, a volte soffocante ma anche tanto indaffarata nella lotta per la sopravvivenza”. Andò a finire che in seconda media si innamorò perdutamente del suo compagno di banco “bello, perfetto, forte e dolce allo stesso tempo”. Amore non corrisposto. E non solo: “Se ne accorse la prof, anzi, praticamente tutti”. Lo sospesero. “Rimasi a letto per giorni, gridavo il nome del mio compagno nel sonno. Lo psicologo disse che ero il classico bambino turbato per la separazione dei genitori e che un altro cambiamento sarebbe stato dannoso”.
Il sesso
Luca tornò in classe, riuscì anche a diventare amico del suo “bello”. Ma l’amore quello no. “Rimaneva in me un vuoto che mai riuscii a colmare, i miei studi andarono a rotoli, abbandonai la scuola”. Dopo un po’ arrivò il sesso, forse anche l’amore, con un ragazzo più grande. Il mondo omosessuale si aprì davanti a lui, “un mondo finalmente pieno di colori dopo tanta amarezza, sentivo di poter finalmente camminare da vincitore e non da sconfitto”.
La prima vittoria? Arrivare a Canale 5. Batteva le mani, faceva apparizioni sporadiche, guadagnava quasi nulla ma intanto conosceva meglio l’ambiente. Il passo successivo fu entrare nel giro delle discoteche. Quando anche le discoteche iniziarono a stargli strette passò a occuparsi della sezione turismo dell’Arci Gay. Organizzava viaggi per omosessuali. Gli piacque talmente che pensò di aver finalmente trovato la via giusta. Mise su un’agenzia sua, specializzazione i viaggi a tema, soprattutto negli Usa, ma anche feste ed eventi come il Gay Pride di Napoli. “Ero amato, invidiato, avevo soldi, casa in centro, bei vestiti, in tasca biglietti d’aereo per andare a fare shopping negli Usa quando volevo”. Il massimo, insomma. O forse no. “L’Aids marciava trionfante, la vita di amici ventenni con i quali avevo diviso anni lieti, si spegneva miseramente”. Anche lui finì nella morsa dell’Hiv. Scomparve il suo lavoro, un sieropositivo non può sottoporsi a una girandola di viaggi e vaccinazioni. Si dissolsero le paillette, iniziò il periodo peggiore. “Tornai a casa di mia madre, ormai risposata, e fu il mio deserto”. Ovvero, il momento delle darkroom, dei parchi, del sesso disperato, degli stupefacenti. “Poi ho scoperto il buddismo, e sono arrivate le canzoni. Ho vinto un concorso con testo dedicato a un Dio non ancora decifrato bene”.
La svolta
La svolta avvenne per caso. Un giorno un amico omosex dimenticò a casa sua alcuni appunti di filosofia. Luca li sfogliò per curiosità e s’imbattè nelle teorie di Joseph Nicolosi. Spiega: “All’inizio ebbi voglia di prendere a pugni questo signore e le sue idee. Però non riuscivo nemmeno a liberarmene. In fondo che cos’era quell’andare in giro per parchi se non la conferma che anch’io ero vittima di pulsioni, di nevrosi di cui dovevo liberarmi? E perché non riuscivo a raggiungere la felicità con un ragazzo, uno dei tanti conosciuti in quegli anni? Perché nei maschi mi guardavo come in uno specchio, ma era della diversità di una donna che avevo bisogno”.
Abbandonò il buddismo, ritrovò il cristianesimo e scoprì per la prima volta l’identità di uomo. “Non dico che sia stato facile, devi saper rinunciare, fermare la caccia al sesso compulsivo che prima praticavo istintivamente”. Ci sono voluti sei anni, qualche caduta qui e lì, molta volontà, anche – e un tempo gli sarebbe apparso impensabile – tante preghiere. “Tre rosari al giorno, i corsi del gruppo Chaire e quelli di Living Waters. Un anno fa ho conosciuto la mia fidanzata. Di me sa tutto e ha accettato di starmi accanto”. Stanno mettendo da parte i soldi per sposarsi, conta di farcela nel giro di due anni.(la Stampa,26(2/2007)

Seppellire i morti.

Recentemente la Regione Lombardia, guidata da Roberto Formigoni, ha votato all’unanimità il diritto alla sepoltura per i feti abortiti, spontaneamente o meno, definiti dalla legge “prodotti del concepimento”. Chi vuole può dunque provvedere personalmente alla sepoltura del proprio figlio, mentre, per chi non ha interesse a farlo, non cambia nulla: ci penserà l’ospedale a occuparsi dell’inumazione, in una volgarissima “fossa comune”. La notizia è di quelle che consolano: c’è ancora qualcuno che crede nella dignità dell’uomo, che ritiene doveroso tributare un ultimo saluto, un ultimo onore, ad un membro della specie umana, ucciso dalla natura o dai ferri di un chirurgo. Eppure non mancano gli scandalizzati. Marina Terragni, su “Io donna”, urla la sua rabbia e il suo rancore verso tutti coloro che volessero “indietro il feto per il funeralino”, mentre manifesta la sua ammirazione per “quei pochi medici pietosi che non hanno mai smesso di applicare la legge 194 e di praticare aborti”. E’ anche spaventata dall’onere fiscale che ne deriverà al contribuente: “chi provvederà concretamente? Pagheranno gli addetti? O sarà il Movimento per la vita a farsene carico, con dei ‘volontari della sepoltura?'”. L’allarme, cara Terragni, è ingiustificato: se ha letto bene, i mostri feroci del Movimento per la Vita, quasi tutte donne, potrebbero al più prodigarsi per dare una sepoltura a bambini già morti, non per ucciderne di nuovi, e neppure per eliminare violentemente coloro che avessero abortito. Rimanga pure della sua idea, racconti pure che la sepoltura dei feti ricaccerà le donne nel “percorso ad ostacoli” dei “cucchiai d’oro” e delle “mammane”. Saranno in pochi a crederle, benché lei scriva su giornali importanti: le menzogne ripetute all’infinito, sino ad un certo punto funzionano, poi perdono interesse, diventano monotone e risibili. Certo, Lei non è l’unica ad spaventarsi: se i morti possono essere seppelliti, infatti, benché il loro corpicino sia straziato e irriconoscibile, significa che erano vivi, e che sono stati uccisi. Alla logica, alla realtà, non si scappa. Per questo Augusto Colombo, responsabile della Mangiagalli per la 194, interviene deciso: “Per chi si sottomette all’interruzione di gravidanza non è rilevante conoscere la sorte dell’embrione”. Meglio dunque occultare il cadavere, continuare a bruciarlo nell’inceneritore dell’ospedale, come fosse immondizia. Anche Colombo tira in ballo l’economia: “E’ un provvedimento anche oneroso dal punto di vista economico”. Non si dice, però, quanto sia più onerosa per lo Stato ogni interruzione violenta di gravidanza! Quante spese ci siano, per il contribuente, ogni volta che negli ospedali italiani si pratica un aborto, mentre, negli stessi, le donne in gravidanza devono pagarsi l’ecografia per il figlio che vogliono amare. Anche Dacia Maraini, l’amica degli alberi e degli animali, ha voluto affidare al Corriere la sua indignazione: “Immagino che presto saranno proposti funerali per gli embrioni e perché no, per gli spermatozoi o per gli ovuli fecondati ma non andati a termine”. Così, con questa ironia mal riuscita, si vuol far finta di credere che un embrione della specie umana, con 46 cromosomi, o un feto con mani, piedi, cuore e sistema nervoso, che sente rumori ed odori, siano la stessa cosa di un ovulo e di uno spermatozoo! Che falsità! Personalmente, invece, sono felice: forse in Lombardia non succederà più come a Roma, dove sino a pochi anni fa i feti abortiti venivano gettati nel Tevere; non succederà come in Francia, dove l’Istituto cosmetico Merieux di Lione lavora tonnellate di materiale umano, in buona parte proveniente dalla Russia, per creme di bellezza o amenità simili; non succederà, come in molte regioni italiane, dove i bambini abortiti divengono “rifiuti speciali ospedalieri”, “residui di sala operatoria”, “prodotti abortivi”, o, come ho sentito dire su radio radicale, “materiale infettivo, pericoloso” che deve essere assolutamente bruciato, non seppellito, per motivi igienici. Per essere liberi occorre che mettiamo da parte le perifrasi, i giri di parole, e torniamo a chiamare le cose e le persone con il loro nome. Come è accaduto, anni orsono, in Francia. Dove il dottor Xavier Dor, medico e professore universitario, aveva deciso di piazzarsi davanti alle cliniche abortiste, regalando a chi ci entrava due piccolissime calzette, fatte su misura per i piedini dei neonati. Dor è stato picchiato, caricato dalla polizia, incarcerato: quelle calzette, come le piccole bare, fanno male, nella loro incredibile forza espressiva, a chi osa mentire persino a se stesso.

Micromega e l’eutanasia.

L’ultimo numero di Micromega è dedicato in buona parte all’eutanasia. Si apre, nella prima pagina, con una celebre frase del filosofo ed economista liberale John Stuart Mill: “Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”. Una dichiarazione importantissima, che ci ricorda l’alleanza strategica, sempre rinnovata, tra l’ individualismo materialista ed utilitarista del pensiero liberista e il materialismo collettivista dei socialisti. Entrambi, da due secoli, alleati nella battaglia per la disgregazione della persona umana, ridotta semplicemente ad ego, ad individuo, ad “un atomo nello spazio e un attimo nel tempo”, nel liberismo, e a massa indistinta, senza volto e senz’anima, nel socialismo. Io, vuole dire Staurt Mill, anticipando il celebre slogan “L’utero è mio e lo gestisco io”, sono mio, mio è il mio corpo, mia la mia vita, mia la sovranità sulla mia esistenza: l’io, però, ridotto a proprietà privata, perde la sua caratteristica di persona, cioè di io in relazione con gli altri, e dimentica la sua vocazione alla solidarietà, il suo essere unico e irripetibile, ma appartenente al genere umano; “separato, come scriveva Donoso Cortes, dagli altri per ciò che lo costituisce come individuo e unito con gli altri attraverso quello che lo costituisce individuo di una specie… soggetto ad una responsabilità che gli è propria e a un’altra che gli è comune con tutti gli altri uomini”. Solo dopo aver capito questo concetto, questa riduzione dell’uomo a proprietà di se stesso, all’io-mio che si fa dio, si può capire la lunga prefazione al lettore, che compare su Micromega, in favore dell’eutanasia. In essa, infatti, dati i presupposti appena esposti, si arriva coerentemente a ribaltare il principio di carità, il concetto di solidarietà, la sostanza del nostro essere in relazione, chiamando “cura” il procedimento attraverso il quale il medico elimina il paziente che, disperato, chiede di morire. Nella prima pagina l’atto eutanasico del dottor Ricco nei confronti di Welby è definito ben tre volte come “prendersi cura”, mentre il suicidio “aiutato” diviene, ormai per convenzione, “assistito”, allo stesso modo della fecondazione artificiale: sino alla conseguente affermazione secondo cui un medico che dovesse rifiutarsi di uccidere un malato che lo richiede, tralasciando così di prendersi “cura” di lui, di “assisterlo”, dovrebbe essere considerato “sanzionabile per omissione”. Ecco ribaltato, con pochi inganni lessicali ed antropologici, una cultura millenaria di pietà, di solidarietà, di compassione, di vera cura per il malato. Ecco come invece coloro che propongono l’eutanasia, presentandosi come personaggi pietosi, tolleranti, liberali e comprensibili, finiscono poi per condannare, per invocare l’intervento del magistrato, nei confronti di quei medici che preferissero veramente curare, e non si sentissero di porre fine, con le proprie mani, drasticamente, alla vita di un altro uomo!
Immaginiamo per un attimo, qualora l’umanità dovesse accogliere questi concetti, il paziente quotidiano di domani. Attorniato da “amici” come quelli di Welby, che lo consigliano fortemente di andarsene, che ritengono così di essere, appunto, amici, e da medici smaniosi di “assistere”, di “prendersi cura”, per mille motivi: magari per la volontà di espiantare qualche organo, come Kevorkian in America, oppure di liberare qualche letto d’ospedale; oppure per la paura di essere denunciati da Micromega, o dal suo giurista di riferimento, quell’ Amedeo Santosuosso per il quale non solo l’eutanasia dovrebbe diventare obbligatoria, per i medici, in casi estremi, ma i medici dovrebbero pure “farsi carico della sofferenza psichica del paziente”, anche non in stato terminale, con l’obbligo di ucciderlo. Infatti, continua il Santosuosso – dimenticando di spiegarci che così si apre la strada, come in Olanda, al suicidio dei depressi e dei tristi-, allo stesso modo in cui oggi si può abortire, o cambiare sesso, o ricorrere alla fecondazione artificiale, o subire operazioni di chirurgia plastica, per motivi psichici, ugualmente sarebbe lecito esigere dalla collettività e dal medico l’atto eutanasico di chi abbia appunto problemi psichici (non ben identificati, e potenzialmente illimitati). Se infatti l’eutanasia è “cura”, la non eutanasia diventa “omissione di soccorso”!
Alla prefazione di cui si è detto, e ad alcuni altri articoli, tra cui quello citato di Santosuosso, seguono, nell’ultimo numero di Micromega, quattro interventi di altrettanti sacerdoti che, secondo la dichiarazione ex chatedra del periodico laicista, “prendono sul serio il Vangelo”, a differenza di tutti coloro che invece la pensano diversamente. Sarebbe bello capire se l’intenzione con cui Micromega ospita il parere di quattro preti è quella di un dialogo con il mondo cattolico, o se l’ospitalità è limitata a coloro che la pensano nella medesima maniera della rivista stessa.
Fatto sta che l’idea sostenuta dai quattro è che la posizione della Chiesa in materia di eutanasia, sia troppo dura, inutilmente dura. Per Don Gallo, don Farinella, don Franzoni e don Antonelli, tale posizione appare inficiata da un certo “materialismo”, perché concede eccessiva importanza al corpo di Welby, al suo essere ancora vivente, pulsante, pensante. E’ vero, fa parte della tradizione cattolica, della sua storia, il dare importanza al corpo, alla carne, a quell’involucro splendido in cui soffriamo e con cui compiamo ogni azione, buona o cattiva. E’ da questa visione, così criticata dagli gnostici e dagli spiritualisti di ogni tempo, che sono nati gli ospedali, gli orfanatrofi, gli ordini religiosi dediti ai malati, ai lebbrosi, ai poveri: sono nati san Camillo de Lellis, san Vincenzo de Paoli, San Giuseppe Cottolengo…le sette opere di misericordia corporale accanto alle sette di misericordia spirituale. Don Gallo dice anche di diffidare “dalle precisazioni, dai distinguo senza cuore”. Se fossimo solo sentimento, se il sentimento fosse un cannocchiale abbastanza preciso per vedere tutta la realtà, a 360 gradi, don Gallo avrebbe ragione. Il fatto è che siamo uomini, e non ci è possibile: accanto al sentimento abbiamo la ragione, accanto alla compassione per Welby, abbiamo la capacità di capire che aprire mediaticamente e poi giuridicamente la porta all’eutanasia ci porterà a breve, come in Olanda o Svizzera o nell’Oregon, a dover accettare anche l’eutanasia per i depressi, per i bambini, decisa magari solo dai medici, contro il volere dei genitori, per chi ha sofferenze psicologiche, e poi, un giorno, come si è detto, per chi occupa troppo a lungo letti d’ospedale. Se questo non fosse successo, e non succedesse ogni giorno, in molte parti del mondo, forse la ragione non servirebbe, e basterebbe il sentimento. La realtà è che “il medico pietoso fa la piaga cancerosa”: così una Chiesa che dimentica la verità dell’uomo, e la sacrifica in nome di una presunta misericordia apparente, non fa il bene dell’uomo, ma riapre il vaso di Pandora. Don Giovanni Franzoni, nell’articolo successivo a quello di don Gallo, esprime anch’egli il suo disappunto: purtroppo tira in ballo concetti strani, di “quantità della vita” e di “qualità della vita”. Cosa è questa “qualità della vita”? Chi la stabilisce? Come si pesa, con quale formula si calcola? Chi ha detto che ci siano vite, e cioè uomini, perché è questa equazione, evidente, che si vuole nascondere, di qualità superiore o inferiore? La verità è che quattro uomini che hanno incontrato Cristo avrebbero potuto dire ben altro.
Che la misericordia di Dio è grande, che ha sofferto con noi, che l’uomo deve essere solidale con l’uomo, come diceva anche un ateo come Leopardi nella Ginestra…che il malato non deve essere lasciato solo, ma accompagnato, non da persone che spingono per la sua morte, ma da amici che tengono in vita la sua speranza, il senso della sua vita, accompagnandolo serenamente verso “sorella morte”. E poi, se proprio volevano parlare di eutanasia, avrebbero dovuto accennare anche alle terapie contro il dolore, alla differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico…avrebbero dovuto mostrare di conoscere il tema, difficilissimo e complesso, a risolvere il quale non basta un po’ di sentimento. Avrebbero parlato un po’ meno di Dio, e della Fede, come la vedono loro, e un po’ più con la ragione, capace di distinguo, che per ogni buon sacerdote è a fondamento di ogni vera indagine sulla realtà.

I signori del DNA.

Il sociologo Edgar Morin ha recentemente affermato che c’è il rischio di nuovi, terribili totalitarismi, in cui le biotecnologie, di per sé, in molti aspetti, anche buone, potranno diventare lo strumento principale dei nuovi dittatori! Occorrono esempi concreti? Ne farò qualcuno, rifacendomi ad un testo scritto da alcuni giuristi e scienziati, intitolato “I giudici davanti alla genetica” (Ibis, Pavia, 2002). Non prima, però, di aver ricordato, a titolo esemplificativo, lo strano fatto per cui oggi in Cina, cioè in un paese ancora dittatoriale, “esistono già circa 40 cliniche di fecondazione in vitro, spesso costruite con l’assistenza dell’esercito, che, unitamente a influenti segmenti governativi, sembra profondere grande impegno a favore dello sviluppo di queste tecnologie” (Gregory Stock, “Riprogettare gli esseri umani”, Orme). Non si può non chiedersi: perché tanta attenzione alla sterilità, in un paese sovrappopolato e con la politica del figlio unico, come la Cina? Cosa importa la fecondazione artificiale all’esercito e al governo?
Lascio a voi la risposta, e ritorno al libro citato. Nel primo intervento il magistrato Amedeo Santosuosso ricorda alcuni rischi connessi alla “discriminazione su base genetica”: senza parlare della folle abitudine di scegliere i figli su misura, attraverso l’utilizzo di test genetici, della Fiv e dell’aborto selettivo, allude a questioni concernenti gli adulti. In particolare, ad esempio, cita il caso di Theresa Morelli, avvocatessa dell’Ohio: costei “si rivolge ad una compagnia di assicurazione per stipulare una polizza sanitaria, ma il contratto le viene rifiutato. Il motivo: è noto che il padre è affetto da Corea di Hungtington, malattia ereditaria che la giovane donna ha il 50% di probabilità di aver ereditato come predisposizione…Milioni di americani, al pari di Theresa, corrono il rischio di perdere la copertura assicurativa in quanto portatori di geni che sono associati ad una malattia”. Un rischio analogo può avvenire nel campo del lavoro: “la discriminazione genetica da parte dei datori di lavoro è una sorta di effetto collaterale della discriminazione genetica da parte di assicurazioni sanitarie: i datori di lavoro, infatti, sono interessati a discriminare geneticamente i dipendenti o gli aspiranti al posto di lavoro nella prospettiva di contenere i costi delle assicurazioni sanitarie, per malattie, infortuni, assenze”. Potrebbero bastare queste brevi considerazioni per comprendere che il pericolo non è tanto un nuovo “oscurantismo”, quanto, semmai, un nuovo liberismo assoluto nel campo scientifico-tecnologico! Ma il Santosuosso ci fornisce altre interessanti notizie: “il 17 dicembre 1998 il Parlamento Islandese…approva una legge che autorizza la raccolta e l’elaborazione dei dati sanitari e genetici dell’intera popolazione dell’isola da parte di imprese private a scopo di profitto”. Succede cioè che la società “deCode Genetics”, con interessi nel campo farmaceutico, viene autorizzata a accumulare “i dati che i medici raccolgono dai loro pazienti, i dati già raccolti sulla popolazione deceduta, i dettagliati alberi genealogici conservati da molto tempo presso le chiese sparse nel paese e i dati su campioni di sangue e tessuti”. La “deCode Genetics” “acquista il diritto di usare, per dodici anni, e a scopo di profitto economico” tutti questi dati! La cosa incredibile sta dunque nel fatto che uno Stato possa vendere tutte le informazioni più riservate (genetic privacy) del suo popolo ad una azienda privata, fondata con capitali americani, e quindi stranieri, che, a sua volta, senza neppure consenso informato, può elaborarli e utilizzarli “a scopo di profitto, con un pressoché totale diritto di esclusiva”! L’acceso poi, anche dello Stato, a tali “dati legati alla predizione di malattie” potrebbe aprire al strada anche alle tentazioni eugenetiche: “non bisogna mai dimenticare che tutta la legislazione eugenica di inizio Novecento, e poi quella della Germania, avevano come obiettivo dichiarato il miglioramento della società”. Il caso Islandese ci permette di toccare brevemente un altro aspetto legato alle biotecnologie. Quello degli interessi economici connessi ai brevetti. Scriveva Jacques Testart, pioniere della fecondazione in vitro, nel suo “La vita in vendita”: “la vita sta per essere integralmente trasformata in capitale e in merce, ovvero in fonte di profitto e in oggetto di scambio. Negli USA la terapia genica fa parte della nuova economia ed è quotata in Borsa…Nel 1980 la Corte Suprema Americana ha dichiarato brevettabile un batterio transgenico, mangiatore di idrocarburi, manipolato da un ricercatore. Per motivi di sicurezza il microbo non è mai uscito dal laboratorio per combattere una marea nera. Ma è entrato nella storia come il primo organismo vivente brevettato. Poiché il suo genoma era stato modificato da una mano d’uomo, era passato dal mondo dei prodotti naturali (non brevettabili), a quello delle invenzioni (brevettabili). Qualche anno fa, l’ufficio americano dei brevetti aveva concesso a Incyte un brevetto su 44 geni umani. L’unico lavoro dell’azienda era consistito nello scoprire un frammento di ciascuno dei 44 geni, senza nemmeno che la loro funzione precisa fosse identificata. Ma questi geni sono ormai una sua proprietà esclusiva: nessuno potrà sfruttarli senza l’accordo, vale a dire royalties che immaginiamo alte, di Incyte…L’appropriazione dell’oggetto scoperto, che sopprime il limite tra scoperta e invenzione, è qualcosa di nuovo nella scienza. Riusciamo a immaginare Cuvier che reclama i diritti sui fossili, o Marie Curie che fa brevettare l’uranio?”. Il problema dei brevetti (per esempio sulle staminali embrionali) è dunque assai serio, anche se nella recente campagna contro la legge 40 non se ne è quasi mai discusso, forse per fingere che il denaro non c’entrasse nulla! Ne parla anche la giurista Mariachiara Tallacchini nel saggio della Ibis già citato, sottolineando come, mentre la “disciplina statunitense sui brevetti considera come fenomeni non distinguibili scoperta e invenzione”, “la Direttiva europea 98/44/EEC sulle invenzioni biotecnologiche non definisce il termine invenzione, ma indica in novità, inventività e applicabilità industriale i requisiti delle invenzioni biotecnologiche, la cui brevettabilità è ammissibile anche se esse riguardino un prodotto consistente in, o contenente, un materiale biologico o un processo in cui sia prodotto, processato o utilizzato un materiale biologico (art.3)”. A tal riguardo il già citato Santosuosso specifica: “un elemento isolato dal corpo o prodotto con un processo tecnico, ivi compresa la sequenza parziale o totale di un gene, può rappresentare una invenzione brevettabile, anche se la struttura dell’elemento riprodotto è identica a quella naturale”. E’ evidente come, anche nel caso dei brevetti, ci si trovi di fronte a qualcosa di epocale. Lo scriveva anche l’europarlamentare verde Alex Langer: “finora quello che è terapia medica era sempre stato escluso dalla brevettabilità. Come ovviamente era escluso il corpo umano. Domani saremo nelle mani di chi ha la titolarità di questi brevetti” (Il Foglio, 2/7/2005). Se così è non possiamo non gettarci a capofitto, ancora una volta, nella battaglia per impedire che il progresso divenga fonte di asservimento e di perdita della libertà, “il bene più prezioso che i cieli abbiano dato agli uomini”. In nome di questa libertà, e del diritto naturale, occorrerebbe forse stipulare una inedita alleanza, che veda coinvolte anche quelle forze ambientaliste e no global sincere, che in parte hanno colto l’estremo inganno in cui i loro leaders li hanno portati: perché non si può essere per la natura, e poi schierarsi, come i Verdi italiani, contro la legge 40 (pessima, ma per le troppe aperture, non, come dicono, per limiti, pochissimi, che impone)! E non si può essere critici verso le multinazionali e lo strapotere dell’economia, e non contrastare l’estrema commercializzazione del corpo umano e della sua salute! (Da: “Controriforme”, Fede & Cultura)

Umberto Veronesi ci vorrebbe tutti ermafroditi

Il buon Umberto Veronesi non conosce riposo, non vuole permettere che fondamentalisti, assolutisti, dogmatici di ogni genere, come ama definirli, infettino il mondo con la loro ignorante superstizione. Per questo li combatte, producendo a ritmo continuo libri-interviste, in cui cambiano i partner e gli editori, ma rimangono i concetti fondamentali di sempre: difesa dell’aborto, della fecondazione artificiale, della manipolazione genetica e della clonazione.

Se editori diversi continuano a pubblicare, benché tante volte anche le frasi e le espressioni ritornano uguali, un significato e un riscontro di vendite ci deve essere. Per cui vale la pena analizzare il fenomeno. Ebbene l’ultima fatica di Veronesi si intitola “La libertà della vita”, ed è un dialogo con un altro pontefice del libero pensiero, Giulio Giorello. Due giganti a confronto, sui grandi temi della vita, della scienza, dell’amore. La presenza di Girello garantisce una cosa: l’assenza di quegli errori marchiani, di quelle date sbagliate, di quei riferimenti storici inopportuni che solitamente impreziosiscono gli interventi di Veronesi (tipo l’Impero romano che era “in decadenza” nel VII secolo).

Ma veniamo al sodo. Per iniziare, secondo una strategia propagandistica affinata, occorrono alcune boutade, come l’affermazione secondo cui la Chiesa sarebbe sempre e comunque per il dolore, fino se possibile a contrastare le cure palliative e l’utilizzo di fermaci antidolorifici, o come la storiella dei medievali che in nome di Dio si opponevano all’invenzione degli occhiali per i miopi. Si crea così lo sfondo grottesco su cui innestare l’idea fondamentale: sappia il lettore che i due protagonisti del dialogo sono in lotta permanente contro entità spaventose, di una ignoranza e di una rozzezza senza pari.

Fatta la premessa, lo scienziato Veronesi può sbizzarrirsi a sostenere, anzitutto, che il compito affidato dall’evoluzione all’uomo (animale senz’anima) è solo quello di fare figli: “dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il suo compito è finito, occupa spazio destinato ad altri”, per cui “bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant’anni sparissero” (p.39).

Si passa poi a Dio, che Veronesi liquida in poche righe, come una invenzione dell’uomo, di cui nella Russia comunista nessuno in fondo sentiva il bisogno. Del resto “anche gli elefanti pregano” (p.47), e la fede degli uomini nasce di fronte ai temporali, ai lampi e ai tuoni, per paura…(evidentemente permane, purtroppo, anche nell’era del parafulmine, ma solo come residuo primordiale). Ciò non toglie, riprende Veronesi, che si debba dialogare anche con i credenti: pensierino ipocrita di cui ogni buon laicista ama fregiarsi, dopo varie manifestazioni di alterigia e disprezzo. Il culmine del grottesco, in un libro che è veramente piccino in tutti i sensi, viene raggiunto nell’ultimo capitoletto, dove si parla di clonazione, terapeutica e riproduttiva. “E perché non provare a immaginare per i tempi futuri- si chiede l’illustre oncologo- piccoli gruppi che si riproducono e si diffondono per clonazione?” (p.83).

A questo punto Veronesi immagina il caso di una donna bella e intelligente che voglia un figlio, senza uomini, perché li odia, e ricorra quindi alla clonazione. Come e perché impedirglielo, chiede Giorello, secondo cui tutto ciò che uno desidera può automaticamente farlo (senza rispetto alcuno per l’innocente o il debole che vi è coinvolto): “A chi fa male la scelta della nostra ipotetica donna che odia l’intero genere maschile?”. E Veronesi risponde: “Non credo che di per sé la mancanza dell’eventuale padre possa costituire da sola una ragione contro quel tipo di clonazione” (p.89).

E prosegue: “ Ha senso, e se sì dove è il senso, che per avere un figlio ci vogliano sempre comunque un maschio e una femmina?…Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Cero per specie evolute la dualità maschio femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il Dna e di clonare? Perchè tanta paura della clonazione se l’abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo ad un parto gemellare? Come tu dicevi: perché mai dovremmo per principio vietare alle donne di clonare se stesse?” (p.91).

 Detto questo Veronesi conclude addirittura dicendo che la clonazione è in realtà il metodo migliore di riproduzione della specie umana, perché “il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione” e nessuno “sarebbe più ossessionato dalla ricerca del partner”. Nascerebbe così una società “quasi felice”, in cui ognuno vivrebbe “quell’ansia di bisessualità che è profondamente radicata in noi”, e “avremmo davanti a noi il Paradiso terrestre”. Finisce così, con questa splendida promessa l’ennesima filippica dello “scienziato” laico, che vuole per tutti, in nome della libertà e della scienza, figli in provetta, figli clonati, uomini ermafroditi, e una società senza l’amore tra uomini e donne. Poi dicono che la Chiesa è sessuofobica…

Coppie di fatto e Pacs: un libro per capire.

Il tema dei Pacs, anche dopo le recenti elezioni, non sembra scaduto. Anzi torna alla ribalta, e sembra capace di infiammare gli animi e il dibattito politico, al pari di altre grandi questioni. Per questo Umberto Folena, giornalista di lungo corso, ha deciso di raccogliere in un’ unica opera una messe abbondante di informazioni, di cronaca e giuridiche, orientando in modo semplice ed efficace chi voglia conoscere i termini del problema, e il panorama legislativo internazionale. Folena inizia il suo “I pacs della discordia” (Ancora, pp.111, 10 euro) col caso più eclatante, la Spagna di Zapatero, patria del divorzio veloce (appena tre mesi, senza preavviso da parte di un coniuge) e del matrimonio omosessuale, con possibilità di adozione di bambini. Il paese di Fernand Savater, Mario Vargas Llosa, e di tanti intellettuali entusiasti del nuovo corso zapatero, non è in realtà il primo ad equiparare l’unione di due persone dello stesso sesso alla famiglia tradizionale, ma è sicuramente quello che, per la sua lunga tradizione cattolica, stupisce ed influenza maggiormente il dibattito in Italia. Già nel 1986 il regista spagnolo Pedro Almodòvar nel suo “La legge del desiderio”, aveva immaginato una “famiglia” con un “transessuale ex donna, suo fratello e una bimba ereditata da una relazione precedente”. Sulla stessa lunghezza d’onda, e in perfetto accordo con la visione dei legislatori di Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda, Belgio, Inghilterra e Canada, si colloca lo spagnolo Mario Vargas Llosa, il quale sostiene che la presunta necessità, per ogni bambino, di avere un padre ed una madre, sarebbe una “affermazione dogmatica e senza il minimo fondamento psicologico”. In Italia, in verità, il dibattito non è ancora così avanti: per ora si mette l’accento sul problema delle unioni di fatto in genere, ma sottolineando in particolare il problema dei diritti giuridici della coppia di fatto eterosessuale, o di quella omosessuale, senza però parlare, per quest’ultima, di diritto all’adozione. Riguardo all’Italia Folena si chiede quante siano veramente, al di là delle cifre propagandistiche, le coppie di fatto, e quali siano i diritti che ancora non sono loro riconosciuti. Tra i cosiddetti “diritti non garantiti” per una coppia di fatto vi è quello alla pensione di reversibilità. Perché? Folena si appella ad una sentenza della Corte Costituzionale, per la quale “diversamente dal rapporto coniugale, la convivenza more uxorio è fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile, di ciascuna delle parti e si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimonio”. Come a dire che per la Corte italiana chi non si assume determinate responsabilità, con un matrimonio vero e proprio, non può godere dei diritti connessi, senza che questo comporti una discriminazione nei confronti di chi è coniugato. Prima di concludere con una analisi precisa di alcune proposte di legge sui Pacs e sulle varie posizioni esistenti in Italia, l’autore ci dà alcune cifre indicative, relativamente alla Francia, dove i Pacs sono stati introdotti nel 1999. Da allora a tutto il 2005 ne sono stati contratti 204.924 -tra cui molti pacs “bianchi”, cioè stipulati per puro calcolo, anche da persone tutt’altro che vicine tra loro-, a fronte di 280 mila matrimoni annui. Di questi ne sono stati sciolti, sino al 2004, 17.793. Cosa accadrà da noi? Il tentativo in atto è quello di introdurre pian piano l’idea che la famiglia eterosessuale, stabile, in cui i coniugi si assumono una responsabilità certa tra loro e nei confronti del figlio, sia solo una forma come un’altra di famiglia: l’effetto sarà l’ulteriore indebolimento dell’istituto familiare, e una società sempre più disgregata, liquida, priva di legami e di responsabilità. Poi, col tempo, avremo anche noi omosessuali che comprano un ovulo in una banca del seme, affittano un utero, si fanno un bambino, e poi lo “allevano” (salvo magari separarsi, dopo tre mesi, secondo le regole del Pacs).

Pensando all’eutanasia e a Lincoln Rhyme

A proposito della proposta di introdurre nel nostro Paese l’eutanasia e quindi l’autorizzazione legislativa affinché anche da noi si possa “staccare la spina” alle persone costrette, sofferenti, all’immobilità, mi vengono in mente alcuni libri che ultimamente mi hanno molto appassionato.

Si tratta di una serie di thriller di Jeffery Deaver, ex avvocato e ora noto scrittore statunitense, di cui è protagonista Lincoln Rhyme (nella foto Denzel Washington che lo interpreta in un film), ex criminologo della polizia scientifica newyorkese ridotto sulla sedia a rotelle e in grado di muovere solo gli occhi e l’anulare di una mano in seguito ad un incidente occorsogli mentre raccoglieva indizi durante un’indagine.

Pur in questa tragica condizione e obbligato, suo malgrado, ad essere sempre assistito in tutto da qualcuno, Rhyme è ricercatissimo dalla centrale e dai colleghi con cui lavorava, per la sua straordinaria capacità di identificare e individuare i più efferati e scaltri assassini e serial killer servendosi di tracce infinitesimali che in qualche modo essi lasciano sempre dopo i loro delitti.

Al tempo stesso il criminologo non cessa di oscillare fra la voglia di farla finita procurandosi da una società specializzata il kit necessario per darsi o farsi dare la morte, e la scelta di tentare la strada opposta sottoponendosi ad operazioni chirurgiche estremamente rischiose per migliorare almeno parzialmente la propria situazione e riuscire a muovere magari almeno un braccio o una gamba.

Alla fine, proprio quando sembra deciso a rivolgersi al suo “dottor morte” o a giocarsi tutto con l’azzardo dell’intervento neurochirurgico, non arriva mai a soddisfare né l’uno né l’altro “desiderio” non avendone materialmente il tempo, perché troppo assorbito dalle indagini. In realtà il vero motivo che lo dissuade dalle due opzioni è l’amore per una collega, la donna poliziotto Amelia Sachs, dalla quale è intensamente ricambiato.

Sono la stima, l’intesa, la fiducia e la complicità umanamente profonde che permettono a Linconln di ritrovare continuamente il perché vale la pena accettarsi così com’è e andare avanti. Il pensiero di Amelia lo tiene in vita perché lei lo restituisce a se stesso e rappresenta la sola medicina, l’unico vero antiditodo alla morte che altrimenti lo schiaccerebbe comunque, ben prima di ricorrere all’iniezione letale.

Ecco, la vicenda di quest’uomo, pur inventata da uno scrittore che dalla lettura dei suoi libri non sembra assolutamente un credente, rivela una verità molto semplice e trascurata: una persona “normodotata” anche se viva è in realtà già morta (dentro) se non ama e non si sente amata da qualcuno, mentre può sopportare anche il peggior annichilimento fisico e recupera moltiplicandole, le sue capacità residuali e vicarie, in questo caso eccezionalmente preziose per la società, esclusivamente in forza di questo rapporto.

Già, si dirà, ma questa è appunto una faccenda personale. Cosa centra la legge sull’eutanasia?

Centra, perché uno Stato che consenta per legge di staccare la spina è uno Stato invasivo, che pretende di precludere questa esperienza al singolo malato. Altro che privacy. E’ uno Stato che si intromette nell’intimità della sua vita per dare a lui o a qualcun altro la possibilità (ma alla fine è di fatto un suggerimento) di non sperare più utilizzando la scorciatoia del suicidio o dell’omicidio legalizzato e programmato (perché questo è il vero nome dell’eutanasia).

Gian Burrasca