La Jessen su Rai 2

“La Jessen oggi è sul secondo canale”. Avvertito dal passa-parola sulla rete, ho visto lunedì Gianna Jessen a “L’Italia sul due” e la mia impressione è questa: una luce e molte ombre. La vera, autentica luce di quel frammento di televisione pagato anche con i soldi dei cittadini è stata lei, Gianna, una giovane donna che il destino, ma lei non si vergogna di dire che è stato l’intervento diretto di Gesù, ha strappato ad una morte medicalmente pianificata: un aborto effettuato al settimo mese di gravidanza dalla madre. Gianna sarebbe dovuta morire, ma così non è stato; quando è nata il medico che aveva praticato l’aborto non era ancora entrato in servizio alla clinica della Planned Parenthood e non ha potuto terminare il lavoro. Leggi tutto “La Jessen su Rai 2”

Contro l’alt di Rodotà alla libertà di coscienza

Come nel celebre racconto di Stephen King, a volte ritornano e ancora una volta si torna ad attaccare l’obiezione di coscienza dei medici all’aborto.

La casistica è arricchita dalla più recente esternazione del professor Stefano Rodotà, comparsa sul quotidiano la Repubblica e ripresa integralmente dal sito della rivista MicroMega. Il titolo dell’intervista – Legge 194, Rodotà: “Aboliamo l’obiezione” – esprime chiaramente l’aspirazione dell’illustre giurista. Secondo il professore emerito di Diritto Civile, Leggi tutto “Contro l’alt di Rodotà alla libertà di coscienza”

I limiti della fecondazione artificiale

Signore, “liberami dalle colpe che non vedo”. Ripensare a questa invocazione contenuta nel salmo 19 aiuta a non dimenticare quella che si può definire la linea di avanzamento umanitaristica del male; non vi è dubbio che questo fronte sia assai avanzato nella modernità, ma è altrettanto vero che nella storia l’idea che fosse accettabile un piccolo male per ottenere un bene maggiore si è dimostrata capace di sedurre tante volte l’uomo.
Certo, vi è anche l’altro fronte, il relativismo negazionista dell’esistenza stessa di una verità morale, una “amoralistica superstizione” che per Dietrich von Hildebrand aveva purtroppo invaso i circoli cattolici, e non ho alcuna difficoltà a riconoscere nei suoi adepti l’elite rivoluzionaria vera e propria che senza sosta mira a distruggere qualsiasi riferimento normativo eterodosso rispetto al puro soggettivismo, ma è la perversione del vero bene, il “buonismo”, a svolgere poi il ruolo di truppa occupante dell’animo di tanti di noi, cattolici che abbiamo smarrito la nostra cattolicità.
Per restringere il campo di azione fu una presunta buona intenzione quella che animò i cattolici del no nel referendum sul divorzio del 1974 e allo stesso modo pensarono ed agirono quanti favorirono la contraccezione per raggiungere la paternità e maternità consapevole, quanti videro nella legalizzazione dell’aborto una via per tutelare la salute delle donne e nella fecondazione artificiale un modo per donare alle coppie la gioia del figlio. Da qui, secondo una logica di coerenza interna, sono state poi avanzate istanze ulteriori e secondarie, il divorzio breve per non trascinare situazioni di conflitto e permettere un più rapido avvio di nuovi legami, l’intercezione anti-nidatoria come estensione della contraccezione, l’aborto privato per via farmacologica per favorire la privacy delle donne, la diagnosi pre-natale e pre-impianto per evitare che nasca un figlio malato, la fecondazione eterologa per aggirare il problema della sterilità assoluta di uno dei due partner e per conferire la funzione genitoriale anche alle coppie omosessuali, il congelamento degli embrioni per ottimizzare i risultati ed il congelamento degli ovociti per evitare il congelamento degli embrioni e conservare una riserva riproduttiva altrimenti abolita da una chemioterapia. In ciascuno di questi interventi non è difficile individuare una buona intenzione, l’umanitarismo di cui parlava Lombardi Vallauri.
Questo modo di valutare le scelte morali ha trovato e tutt’oggi trova un terreno particolarmente fertile tra noi medici, professionalmente abituati e legittimati a ragionare in termini consequenzialistici e proporzionalistici quando il campo di applicazione è costituito dalle scelte cliniche, ma che si rivela disastroso quando non sappiamo cambiare registro, quando non riconosciamo il salto necessario nel ragionamento morale, quando rinunciamo a quello “sguardo contemplativo” a cui ci esortava Giovanni Paolo II in Evangelium vitae, capace di farci vedere la vita nella sua profondità.
Vi sono molte ragioni per ritenere inadeguata la prospettiva delle conseguenze come criterio assoluto di giudizio morale delle azioni; mi limiterò ad esporne un paio. Il primo di questi ce lo ricorda il libro della sapienza: “incertae providentiae nostrae”, le nostre previsioni sono incerte, spesso ci accorgiamo di essere stati miopi. Se consideriamo i risultati di quelle azioni chi, dotato di onestà intellettuale, non sarebbe costretto ad ammettere che tanto del bene cercato con esse è stato sopravanzato da problemi ben maggiori? Il divorzio, pensato per la pace dei figli, non ha forse portato a tanti bambini e giovani smarriti dietro una cacofonica pluralità di figure di riferimento spesso provvisorie e conflittuali? Non è anche grazie alla sub-cultura dei cosiddetti “diritti riproduttivi” che l’occidente è largamente flagellato dall’inverno demografico e dalle difficoltà sociali ed economiche che ad esso fanno seguito?
Dov’è andata a finire la tutela della salute delle donne promessa dall’aborto legale se la più grande revisione mai realizzata e pubblicata sull’autorevole British Journal of Psychiatry da Priscilla Coleman dimostra che la salute mentale delle donne peggiora dopo l’aborto e se sul non meno autorevole American Journal of Obstetrics and Gynecology già nel 2004 è stata dimostrata una mortalità tripla per le donne che abortiscono rispetto a quelle che danno alla luce il figlio? Sono forse fantasie l’incremento di patologie che affligge i figli concepiti in provetta e le difficoltà per le donne prima illuse e poi deluse dalla pubblicistica dell’accanimento riproduttivo segnalati ieri da Bellieni sull’Osservatore Romano?
Non sono forse numeri, numeri incontestabili, quelli che si leggono sull’annuale relazione del ministero della salute secondo cui dai 99.258 embrioni formati con tecniche a fresco sono nati 8.077 bambini, attestando un tasso di abortività della tecnica pari al 90,6% e del 93% se si considerano gli ovociti fecondati, certamente superiore a qualsiasi stima di abortività spontanea? Non è forse vero che mediante le tecniche di congelamento embrionale e di vitrificazione ovocitaria la resa, in termini di bambini nati, è ancora inferiore? Mentre si gioisce per i bambini che nascono, si è forse legittimati a tacere e persino silenziare il ricordo di una tale strage, considerandolo un elemento di disturbo del quieto vivere raggiunto attraverso la mediazione?

? il mitissimo San Francesco di Sales che ammonisce anche noi cattolici di oggi contro un tale accecamento: “E’ carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove”.
C’è un secondo aspetto che ci interpella quando si deve decidere l’adeguatezza della prospettiva della buona intenzione come criterio giudicante la bontà delle azioni. Quello che faccio con l’intenzione di fare del bene, è reso automaticamente dal mio intento un bene? La mia coscienza sinceramente volta al bene purifica le mie azioni a prescindere dal contenuto di quello che vado a realizzare?
Contro una tale distorsione già ammoniva S. Agostino nell’opera contro la menzogna, ma la fattispecie verso cui è forse più sensibile l’uomo moderno è quella indicata dallo studioso Massimo Introvigne come “reductio ad Hitlerum”.
Non era forse una buona intenzione verso il popolo tedesco, stremato dalla crisi economica e dalle sanzioni belliche, quella che animava il criminale regime nazista nella sua politica di proliferazione degli armamenti e di conquista dello “spazio vitale”? Non erano forse animati dal desiderio di ottimizzare il salvataggio dei piloti caduti in mare i medici che a Dachau conducevano esperimenti di congelamento usando uomini come cavie?
Non è forse vero che alcune di queste conoscenze servirono come base per ulteriori studi pubblicati su prestigiose riviste medico-scientifiche nell’immediato dopo-guerra? Se la coscienza è il tribunale supremo, ciò doveva valere anche per quei nazisti, com’è stato allora consentito ad altri uomini di ribaltare con la condanna per crimini contro l’umanità il giudizio di quel tribunale supremo interiore? In nome di che cosa si è proceduto? Sono riflessioni che in modo magistrale il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, svolse dalle colonne del settimanale Il Sabato nel 1991, provvidenzialmente riproposte in un recente libro edito da Cantagalli dedicato alla coscienza. Dov’è il male?

La risposta del cardinale Ratzinger risuona delle parole di un grande conoscitore della coscienza, il beato cardinale Newman, secondo cui la coscienza ha dei diritti, perché prima ha dei doveri. Il primo di questi è quello di formarsi alla luce della verità, una verità che in
quel intervento il cardinale Ratzinger identificava come il termine medio, la cerniera che unisce autorità e soggettività ed in cui la norma, lungi da essere elemento di intollerabile oppressione dell’autonomia dell’individuo, interviene piuttosto come criterio che si oppone allo smarrimento di una coscienza auto-referenziale.

Così come la soppressione di un essere umano innocente realizzata con l’aborto non potrà mai essere una cosa buona ed una legge che trasforma il delitto in diritto non sarà mai una buona legge, altrettanto una pratica che trasforma l’essere umano da dono da accogliere in manufatto da assemblare mediante la fecondazione artificiale non sarà mai qualcosa da promuovere; anche quando le circostanze particolari possono intervenire nel modulare la responsabilità morale, queste non consentiranno di spacciare per un bene ciò che è di per sé un male.

Da ZENIT.org, 2 ottobre 2011

Relazione alla I marcia per la vita

Mi è stato chiesto di svolgere alcune riflessioni circa quelli che possono essere i programmi del popolo della vita.

Cercherò di farlo tralasciando le questioni teoriche, ma prendendo in considerazione quello che ho imparato dall’esperienza sul campo nel corso del mio servizio in questa battaglia. Credo che la prima cosa sia proprio questa: prendere coscienza che siamo in guerra. Hanno dichiarato guerra all’essere umano. È una guerra vigliacca, è una guerra spietata condotta contro i più deboli, l’essere umano nel grembo della madre e quello fragile, sofferente, impaurito, l’essere umano nella malattia.

Quella mentalità mortifera che si sperava sepolta sotto le macerie fumanti della seconda guerra mondiale, si è dimostrata capace di rigenerarsi assumendo le fattezze di un nuovo totalitarismo, quello relativista, un totalitarismo capace di promuovere quello che acutamente è stato chiamato il terrorismo dal volto umano. Perché è importante capire che siamo in guerra? Perché capirlo porta con sé alcune conseguenze che mi permetto di esporvi brevemente: Siamo tutti chiamati a combattere questa guerra.

Nessuno si illuda di essere al sicuro: certo, l’aborto non può colpire direttamente noi che siamo già nati, ma può piombarci in casa, può entrare nelle nostre famiglie e segnarci per tutta la vita. E a ciascuno di noi, prima o poi, sarà la stessa natura umana a ricordare che siamo solo creature; ci verrà rammentato attraverso la malattia, la dipendenza dall’altro, la perdita di quella capacità di autodeterminazione che sembra essere divenuta l’unica condizione che rende la vita degna di essere vissuta.

Che ci piaccia o no, la vulnerabilità sarà un ospite che busserà alla porta di ciascuno di noi. Come la società ci tratterà in quel momento dipende anche dall’impegno e dall’ardore con cui ci siamo battuti in questi giorni. La seconda buona ragione per comprendere che si tratta di una guerra è che questo ci aiuta a realizzare la necessità di combattere senza lasciare sguarnito alcun fronte: quello filosofico, quello più immediatamente tangibile dell’assistenza alle persone nel bisogno, quello scientifico, il fronte giuridico, comprendendo in quest’ultimo ambito anche quello delle aule di tribunale. Bisogna riconoscere che questa postazione strategica in ampi settori è sotto il controllo del nemico ed ho come l’impressione che sia subentrata una sorta di rassegnazione o di paura.

Spesso ci si limita alla mera difesa. Non dico che non vi sia saggezza nel sapersi trattenere e temporeggiare quando si intuisce che un attacco non avrebbe alcuna speranza di vittoria, ma sto parlando di qualcosa di diverso, sto parlando della rinuncia a qualsiasi strategia volta a mettere in discussione la supremazia dei nemici della vita nelle aule della giustizia civile e penale.

Perché non si ha notizia di alcuna azione legale nei confronti di quei medici che violano quella legge che gli stessi abortisti hanno promosso e dicono ad ogni pie’ sospinto di volere difendere? Non si tratta di numeri esigui: una ricerca condotta su un campione di poco meno di mille donne ha evidenziato che la metà di quelle che abortiscono non hanno ricevuto alcun sostegno. Mi ricordo di avere letto qualche tempo fa di un consultorio che ha rilasciato il documento per abortire con procedura d’urgenza ad una donna che aveva la non secondaria caratteristica di non essere incinta.

Vi prego di fare uno sforzo ed immaginare con quale cura sia stata visitata e con quanta abnegazione le siano state presentate tutte le soluzioni per evitare l’aborto, così come prescritto dalla legge abortista italiana. Allora ci si chiede: che fine ha fatto quel caso? Qual è stata la sua conclusione processuale? E se è vero che casi come questi sono molti, perché non viene organizzata una sistematica struttura legale che denunci tali comportamenti e assista gratuitamente in sede processuale le donne aiutando così anche i loro bambini? Quando i medici e i farmacisti coraggiosi che per coscienza rifiutano di eseguire richieste volte a provocare la morte del concepito verranno difesi da un tale ufficio legale? In una guerra la scelta del campo di battaglia è uno dei punti essenziali.

 Nella guerra per la vita è fondamentale battersi per un terreno legislativo che sia il più favorevole possibile alla causa della vita. Questo lo si fa difendendo le buone leggi esistenti ed attaccando le cattive leggi che ci sono. È stato detto che le leggi che facciamo oggi saranno la moralità della gente di domani e c’è molto di vero in questo: quello che è legale, è facile pensare che sia anche una cosa buona. Ma la storia ci ha ampiamente dimostrato che le più grandi infamie ed i più terribili abomini sono stati compiuti nel rispetto delle leggi. Allora nella battaglia per la vita una cosa deve rimanere a tutti ben chiara: una legge che consente l’uccisione dell’innocente è una legge ingiusta e basta, non è mai una buona legge, non è mai la migliore nel suo genere.

E non lo dico io, non lo dico io che non sono nessuno, lo dice la Chiesa, madre e maestra, lo dice oggi attraverso l’insegnamento di Benedetto XVI che non si stanca mai d’indicare la vita tra i principi non negoziabili, e lo diceva ieri attraverso la voce di quel Papa che abbiamo desiderato detto Santo e che poche settimane fa è stato proclamato beato, quel Papa che giustamente è stato definito il Papa della vita, per il suo incessante, irremovibile impegno nella promozione e difesa della vita umana.

Allora un movimento pro-life deve battersi come un leone per leggi giuste, non auto-mutilarsi preventivamente, non auto-censurarsi perché il fine ultimo è quello di raggiungere un compromesso. Certo, è vero, viviamo in una società largamente scristianizzata e dipendente dalla mentalità edonistica ed utilitaristica; lo sappiamo, nessuno qui vive su Marte, ma proprio per questo chi ha la responsabilità non soffochi le voci di quanti s’impegnano nella società per promuovere la cultura della verità della vita umana tutta intera; una tale condotta mi pare anche strategicamente perdente: non ho mai visto strappare buoni accordi da chi si siede al tavolo delle trattative con pavida e sfiduciata arrendevolezza.

Siamo in una guerra ed il nemico usa la disinformazione. Fornisce dati fasulli e su quelli comincia a costruire le sue falsità; per questo si devono controllare le fonti. Lo so per esperienza diretta, è un lavoro sfibrante, ma abbiamo prestigiose istituzioni scientifiche, eccellenze accademiche e forse è l’ora che qualcuno, garbatamente, le prenda per un orecchio affinché comincino a fare quello che possono e sanno fare. Si fa un gran parlare di sindrome post-abortiva.

Molte ricerche giungono da oltre-oceano per asserire che la sindrome post-abortiva non esiste; sostengono che le donne che stanno psicologicamente male dopo avere abortito starebbero male comunque, perché il loro malessere non sarebbe dovuto all’aborto, ma alle circostanze della loro vita pre-esistenti l’aborto. Sono ricerche spesso finanziate da organizzazioni abortiste, pubblicate su riviste scientifiche schierate sul fronte abortista, redatte da autori favorevoli all’aborto, talora militanti in associazioni abortiste. Non di meno conosciamo molti psicologi e psichiatri che possono attestare il dolore spirituale ed il malessere psicologico di molte donne direttamente collegati all’aborto volontario.

 Moltissime di queste stesse donne sono state consolate ed assistite a vario livello da persone legate al mondo pro-life. Sappiamo che la sindrome post-abortiva esiste, ci si è presentata davanti agli occhi in carne ed ossa. Perché allora non è mai stato finanziato e supportato uno studio per verificare in modo certo queste dinamiche, perché non si è fatto alcunché di tangibile per affrancarsi da una produzione scientifica per larghissima parte posizionata su un’ostinata e preconcetta opposizione al diritto alla vita del concepito?

Perché non si conduce ad esempio uno studio che dimostri una realtà che ben tutti conosciamo: contrariamente a quanto attestato nel documento per abortire rilasciato dai medici, le donne che rinunciano all’aborto non hanno alcun serio pericolo per la loro salute psichica. Nessuna di loro è impazzita, nessuna di loro ha mai recato alcuna offesa alla propria creatura, nessuna di loro si è suicidata.

Dopo un tale studio, come si potrebbe negare il finanziamento ai centri di assistenza alla vita? Immagino che sarebbe alquanto imbarazzante per gli amministratori della mia regione, dove si erogano col finanziamento pubblico le visite omeopatiche, continuare a tenere fuori i volontari per la vita dai consultori e dagli ospedali dove si eseguono gli aborti.

Siamo in una guerra ed il nemico non è un fumo, non viene dall’iperspazio, è il consegnarsi al male, consapevolmente o meno, di molti uomini e donne. La malvagità pensa con un cervello umano, si diffonde con parole di uomini e di donne, fa proseliti attraverso il loro agire. Se siamo combattenti, se siamo in trincea, abbiamo un inalienabile diritto a pretendere che nessuno dei nostri generali faccia entrare il nemico nel nostro accampamento: i buoni pastori danno la vita per il proprio gregge, non fanno entrare i lupi nel recinto, nemmeno quando questi sono vestiti da agnello.

 Non ci è stato chiesto di essere sprovveduti, bensì candidi come colombe e prudenti come serpenti. Se saremo la milizia per la vita, allora dovremo ricordare che vi sono le specializzazioni. Non tutti devono fare tutto, ma tutti possono fare qualcosa e sforzarsi di farla bene. Parli chi ha la competenza per farlo. Così come l’abito non fa il monaco, la bontà d’animo non ti dà automaticamente la capacità di resistere all’argomentare di un barone della scienza o di un astuto conoscitore delle tecniche della comunicazione.

Si combatte quando si è pronti a farlo, dopo essersi addestrati a farlo, si deve essere consapevoli dei propri mezzi, dell’interlocutore che dovremo affrontare, dell’argomento che verrà trattato, del contesto in cui avverrà il confronto; si deve imparare a resistere alla propria vanità, talora solleticata dalla ribalta delle telecamere. Tutto questo costa fatica, lo so bene, ma quando saremo tentati dalla stanchezza, dallo sconforto perché quello che facciamo sembra non produrre il risultato atteso, in quei momenti dobbiamo ricordarci che la battaglia è già stata vinta da Qualcun altro per noi, da quel Qualcuno che ha preso su di Sé tutto il peccato del mondo per donarci la possibilità della vita eterna; dobbiamo ricordarci che non saremo giudicati sul successo immediato di quello che facciamo, ma dalla disponibilità a seguirLo.

Certo, per fede sappiamo che la battaglia è già stata vinta, ma questo non è certo un motivo che potrà giustificare il nostro disinteresse o la nostra defezione. C’è un passaggio in un romanzo di De Whole che mi ha aiutato a comprendere meglio questo aspetto. Al giovane don Juan d’Austria, comandante della flotta cristiana di Lepanto, che confidava nelle grandi strutture sociali della Chiesa del tempo, il padre Juan de Calahorra nel romanzo risponde: “Le porte dell’inferno non prevarranno, lo sappiamo. Ma ciascuno di noi deve vivere come se la promessa di Cristo dipendesse da lui e da lui solo”.

Una guerra ha ben poche possibilità di successo se non è adeguatamente finanziata, se non si ricevono le risorse minimali per combatterla. È bene tenere sempre a mente che il nemico ha mezzi incredibili assicurati dalle stesse strutture dello Stato finanziate con la fiscalità generale e dai potentati economici. Alcuni anni fa una singola cena di finanziamento che vedeva la presenza del vice-presidente americano Al Gore fruttò alla locale sezione della Planned Parenthood, la potente organizzazione abortista, ben 300.000 dollari, probabilmente più di quanto la maggior parte delle nostre realtà pro-life riceveranno nel corso di un intero secolo.

Questo è solo un motivo in più per usare il nostro ingegno per reperire ulteriori fondi ed usarli con oculatezza, per osare chiedere e scomodare, per fare comprendere che il volontariato è sì una bellissima cosa, il dare gratuitamente è testimonianza del cuore che si mette nelle cose, ma esso deve fornire linfa ad uno scheletro stabile, costituito da persone che con serenità possono dedicarsi a tempo pieno a difendere la vita in strutture pro-life capaci di lavorare ponendosi obiettivi, che redigono piani per raggiungerli e che rendono conto dei risultati.

Qui oggi noi abbiamo marciato, da qui, credo, debba partire l’impegno a costruire un collegamento tra tutte le tante, buone, generose realtà associative che difendono la vita.

 Oggi è il giorno di San Germano, se rimarremo fedeli alla retta intenzione, se saremo coraggiosi nella buona battaglia, se saremo umili di cuore, prudenti nelle scelte, disposti al sacrificio personale, se saremo davvero uniti allora quanti oggi non sono qui rimpiangeranno di non avere marciato con noi, perché oggi, il giorno di San Germano noi abbiamo fatto sentire alto e impavido il nostro grido ai nemici della vita: “voi non vincerete mai! Voi non avrete mai il nostro silenzio, fino all’ultimo, fino a che avremo una stilla di vita!”

Che cosa penso del ddl sulle DAT

Avvertenza prima dell’uso: le righe che seguono non sono destinate ai troppo freddi, ma ai tiepidi. Quanti infatti sostengono la bontà dell’eutanasia avranno qualche difficoltà a reperire qualcosa che si possa dire maggiormente inconciliabile con le loro posizioni. Oso sperare che queste righe possano aiutare a riflettere anche qualche sincero difensore della vita fragile ed indifesa, che forse vive con sconcerto l’attuale divaricazione delle posizioni pro-life anche all’interno del cattolicesimo non adulto.

Di questa opportunità non posso che ringraziare i responsabili del sito “Libertà e Persona” per avermi concesso la loro ospitalità. Qui non affronterò il tema delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) nel suo insieme, impresa che richiederebbe un ambito espositivo completamente diverso, ma vorrei concentrarmi sull’attualità, su quella che è la materia del contendere, il disegno di legge (ddl) in discussione alla Camera dei Deputati, conosciuto come ddl Calabrò-Di Virgilio, dal nome dei parlamentari che ne sono stati relatori nei due rami del parlamento.

Mi scuso anticipatamente perché non potrò essere succinto, come dice Nicol?s G?mez D?vila, “quello che non è complicato è falso” (1) e qui si tratta di porsi alla ricerca della verità. ? possibile anche che le mie parole possano dispiacere a più di un amico, ma confido nella capacità dei veri amici di comprendere che qui non si tratta affatto di questioni personali, è stato infatti detto: “amicus Plato, sed magis amica veritas“.

A tal fine il contributo migliore che possa offrire è quello di procedere cercando di sottrarmi alla tentazione del “botta e risposta” e dal coinvolgimento emotivo che necessariamente ne seguirebbe, ma avanzare piuttosto tenendo in considerazione la cronologia dei fatti, in modo da comprenderne meglio il senso.

Note anamnestiche

Nonostante una non chiusura pregiudiziale nei confronti di dichiarazioni che raccogliessero i desiderata delle persone riguardo la futura condotta clinica in caso di sopraggiunta incapacità di comunicare (2), il concretizzarsi all’orizzonte della prospettiva eutanasica, aveva progressivamente reso i pro-life uniti nell’opporsi alle DAT.

Un articolo del 6 Dicembre 2006 su Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), già nel titolo esprimeva la diffidenza del mondo cattolico riguardo a tali dichiarazioni (3). Sullo stesso giornale un anno dopo si raccolgono le dichiarazione critiche nei confronti del testamento biologico della dottoressa Silvie Menard, oncologa, collaboratrice del prof. Veronesi, ammalatasi di cancro (4).

Si tratta di indizi inequivocabili delle posizioni pro-life: il testamento biologico sarebbe stata la breccia per consentire la progressiva penetrazione nell’ordinamento dell’eutanasia.

Il caso di Eluana Englaro: lo spartiacque

Il 9 luglio 2008 la I sezione della corte d’appello di Milano autorizza a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale di Eluana Englaro, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico.

Nell’ambiente pro-life il provvedimento costituisce un vero e proprio shock che cancella una seppur provvisoria e parziale fiducia riposta nelle numerose sentenze contrarie all’istanza di interruzione dei sostegni vitali per la povera ragazza. Nel caso Englaro c’è un elemento oggettivo che non può essere trascurato da quanti si oppongono a qualsiasi legislazione in materia: l’accoglimento da parte di un tribunale di volontà espresse in forma orale, ricostruite a posteriori da una sola delle parti.

Si potrebbe dire che nel caso Englaro i giudici hanno messo in atto un dispositivo fondato su testimonianze che riferiscono neppure un testamento biologico orale, ma elementi narrativi da cui è stata desunta una specifica volontà, cioè quanto di più ampio si possa concepire. Risulta interessante notare una delle prime reazioni che argomenta contro la decisione della corte di Milano non tanto appoggiandosi al concetto di indisponibilità della vita umana, esito che, sebbene giudicato “sgradevole e conturbante”, viene comunque ritenuto “ineludibile”.

Fatto salvo “l’assoluto rispetto per la volontà dei malati” (ma si dimentica che le DAT si possono redigere anche da sani?), sono due diverse contestazioni quelle che vengono in quell’articolo rivolte alla decisione dei giudici milanesi: la nutrizione e idratazione non sarebbero una cura medica e l’assenza di una prova certa della volontà di Eluana (5). In un articolo dello stesso autore di qualche giorno dopo si comincia a delineare la strategia di riduzione del danno: no alle direttive, sì a dichiarazioni non vincolanti per il medico (6).

Quel pensiero traccia con quell’asserto la prima, decisiva linea di frattura all’interno del mondo pro-life. Ancora in quei giorni è ben diversa la prospettiva con cui altri esponenti di spicco del mondo pro-life affrontano la questione. Il prof. Pessina, Direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, esprimeva interamente la propria preoccupazione circa la capacità di arginare le istanze eutanasiche, una volta messa in moto la macchina di riconoscimento giuridico delle DAT (7).

Quanto all’interno del mondo cattolico la posizione del prof. Pessina trovasse largo sostegno emerge chiaramente dall’opposizione di Scienza & Vita al testamento biologico mediante un comunicato ufficiale ripreso dal quotidiano Avvenire (8) e dalle parole inequivocabili del co-presidente di allora della stessa Scienza & Vita, la professoressa Maria Luisa Di Pietro, che, pur dichiarandosi pronta a discutere una legge sulle problematiche del fine-vita, definiva esplicitamente il testamento biologico “non solo pericoloso, ma anche inutile” e ribadiva chiaramente la linea non negoziabile: “Il principio di indisponibilità della vita umana” (9).

Il 22 Settembre 2008 si apre la consueta riunione del consiglio permanente della CEI con la prolusione del suo presidente. Quell’intervento ci pare segni un altro momento centrale per comprendere alcune dinamiche: “Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita che – questa l’attesa − riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi” (10).

Si deve ricordare che in quello stesso intervento, in continuità col discorso di S.S. Benedetto XVI del 17 Luglio 2008 ai giovani a Sidney, non si manca di ricordare il fine che dovrebbe muovere “ogni coscienza illuminata”: il favor vitae che ispira l’ordinamento italiano e la conseguente necessità di evitare “forme mascherate di eutanasia” sulla base del principio centrale della inviolabilità ed indisponibilità della vita umana. Se niente quindi si può eccepire riguardo al finis operantis, molto più perplessi lascia la strada indicata in quelle poche righe per realizzare quel giusto fine.

Non stupiscono certi consensi per quella road-map che alimentano umanamente comprensibili impulsi a volare alto ed attingere persino a Kierkegaard per manifestare l’entusiasmo (11). Tutto l’impegno successivo di una parte rilevante del fronte cattolico italiano (12) a sostegno del progetto di legge, ci pare abbia ricevuto dall’intervento del presidente della CEI un indubbio forte impulso.

Eppure, con argomenti davvero ben strutturati pochi mesi dopo il prof. Pessina ripeteva che la questione centrale non solo per i cattolici, ma per tutti quanti si riconoscono nelle radici solidaristiche alla base della costituzione italiana, è il principio di indisponibilità della vita umana (13).

Il principio di realtà

Giunti a questo punto è possibile tracciare un primo bilancio provvisorio. Interventi di importanti rappresentanti della Chiesa Cattolica Italiana esigono risposte rispettose nella forma e nel contenuto.

Ciò non toglie che i singoli passaggi non possano reclamare un assenso dettato dalla fede, essendo ben distinte da essi le fonti cui attingere per apprendere l’insegnamento del Magistero. Sostenere la necessità di una legge sul fine-vita ritengo proceda da un elemento innegabile: il caso Eluana, con il suo drammatico epilogo, ha mostrato che né il codice penale, né il codice deontologico medico costituiscono una sicura barriera che impedisca i comportamenti eutanasici.

Benché il caso Englaro costituisca un singolo episodio giurisprudenziale e come tale siano possibili decisioni difformi in casi simili, nonostante siano state poste argomentazioni giuridiche (a mio giudizio eccessivamente ottimistiche) per sostenere che non si deve essere precipitosi nel legiferare, che si può ancora confidare nel fatto che in Italia l’eutanasia continui ad essere illegale (14), il clima culturale vigente nella società e nelle aule di tribunale, il convergente sostegno alla decisione della corte di appello di Milano giunto dai successivi livelli di giudizio, l’individuazione nella figura dell’amministratore di sostegno di un soggetto autorizzato ad impedire o sospendere i sostegni vitali delle persone da loro delegate (15), sono tutte circostanze che dovrebbero fare considerare un intervento legislativo volto non ad “arginare”, ma ad impedire le condotte eutanasiche come un agire improntato ad un uso prudenziale del principio di precauzione (16).

Se però la libera interpretazione delle leggi da parte di una componente significativa della magistratura è la causa che ha portato a questa situazione, non si comprende perché proprio coloro che a gran voce difendono il ddl sulle DAT e con giusta veemenza criticano a posteriori le sentenze “creative”, diventano improvvisamente così timidi, muti e inerti nel farsi promotori di interventi volti a ricondurre la magistratura nell’alveo che gli compete ed individuare strumenti sanzionatori dei comportamenti abusivi di certi magistrati.

Perché i sostenitori pro-life del ddl Calabrò non si uniscono all’esortazione a muovere iniziative in tal senso proveniente dalle colonne del quotidiano Il Foglio? (17) Il saggio Chesterton consigliava di non urlare dopo, ma prima che la mannaia colpisca. Quali iniziative hanno messo in piedi i sostenitori dell’attuale disegno di legge per evitare che il loro progetto legislativo, una volta approvato non sia preda del tritacarne giurisprudenziale che ha già polverizzato la legge sulla fecondazione artificiale? Confidano che per magia dichiarazioni oniriche sulla legge 40 si estendano all’approvanda legge sul fine-vita per il solo fatto di formularle? (18)

Consola che simile preoccupata disillusione riguardo al destino di tale futura legge sia espressa da don Michele Aramini, bioeticista e docente di teologia morale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, particolarmente esperto di tali questioni (19)

Sì alla legge, ma non questa legge

1. Come ammoniva un’altra brillante mente, quella di Clive Staples Lewis, non basta fare il bene, occorre anche fare bene. Non dubito che questo ddl intenda fare il bene, ma giudico non lo faccia affatto bene. Già una prima preoccupazione nasce dal leggere nell’elenco dei promotori della legge, i nomi di tanti protagonisti politici che non fanno mistero di puntare alla distruzione del principio di indisponibilità della vita umana.

? vero che nel testo (che qualcuno ha ardito sostenere essere ossequioso del Magistero della Chiesa) all’articolo 1 si afferma il divieto di eutanasia, ma diversamente da quanto fanno i testi magisteriali (20), ci si dimentica di fornire una definizione esatta di eutanasia. Come osserva John Keown, giurista emerito alla facoltà di legge dell’Università di Cambridge, “Molta della confusione alla base del dibattito contemporaneo sull’eutanasia può essere ascritta ad una sfortunata imprecisione nella definizione” (21).

Questa importante omissione nel testo del disegno di legge è rilevata anche dal Cardinale Sgreccia (22). Allo stesso modo si deve fare notare che non attribuire una definizione legale anche ad altri termini, tra cui “accanimento terapeutico”, “trattamenti straordinari”, “trattamenti non proporzionati“, offre il fianco ad un florilegio di interpretazioni da parte dei giudici.

? un po’ strano che questo aspetto sembri essere sfuggito ad alcuni preclari esperti di biodiritto nel loro appello formulato dalle colonne di Avvenire in cui si raccomandava che questa legge “va fatta e va fatta adesso“. Si pone nel testo grande attenzione alla nutrizione ed idratazione assistita (NIA), per evitare che attraverso la sua sospensione la persona sia condotta a morte, ma è forse diverso se si muore perché si è scritto che non si vuole essere sottoposti a ventilazione, dialisi, defibrillazione, interventi chirurgici o farmacologici? (23) L’originaria espressione utilizzata, dichiarazioni inequivocabili, costituisce un ossimoro; per loro stessa natura le DAT sono equivocabili.

Ci tocca in sorte di avere dedicato studi alquanto approfonditi e conoscere piuttosto bene la letteratura medico-scientifica sull’argomento per non sentirci obbligati a farlo rispettosamente presente (24). Ma al di là delle pur importanti riserve su singoli punti del disegno di legge, è l’impianto complessivo che va nella direzione sbagliata e questo avviene perché il testo rinuncia ad affermare l’unica cosa veramente in grado di mettere al riparo dalla ripetizione del modello Englaro: il primato conferito al principio di beneficialità/non maleficienza nelle decisioni mediche dei pazienti non più competenti, una preminenza da concretizzare obbligando i medici a conformare la propria condotta a criteri di appropriatezza clinica al singolo caso.

Nel testo manca l’affermazione che taglia la testa al toro: il principio di autonomia del paziente viene meno nel momento in cui questi non è più capace di intendere e di volere. Non è possibile sapere quale trattamento vorrebbe davvero il paziente se fosse capace di decidere in quel momento, le DAT sono strumenti altamente inaffidabili (25), allora in dubio pro vita, perché meglio curare un po’ più del desiderato che un po’ meno.

Un solo articolo, nessun appiglio per contestazioni riguardo a specifiche fattispecie, nessuna differenza fra idratazione, nutrizione, ventilazione e tutti i possibili trattamenti salva-vita, nessun obbligo di metterli in atto o di continuarli se cessano di essere clinicamente adeguati alla situazione clinica. La pura, semplice, antica riaffermazione del principio medico sfigurato dalla giustizia creativa: primum non nocere.

Com’è stato sostenuto dal prof. Paul Ramsey “Per sapere quale trattamento è moralmente indicato si deve solo stabilire quale trattamento sia clinicamente indicato” (26).

Una legge che dia forza giuridica alle DAT non può che fondarsi su una fictio iuris, trasferendo i criteri per risolvere la problematica etica della legittima astensione o interruzione delle cure da parte dei soggetti consapevoli (27) ai soggetti non più capaci di decidere per se stessi.

Perché si dovrebbe scrivere, mentre si è perfettamente sani, che in caso di coma protratto non si vorrebbe ricevere un determinato trattamento, se non perché si reputa che in determinate condizioni la vita non sia più meritevole di essere vissuta? Perché si dovrebbe acconsentire che nel nostro ordinamento passi tale principio attraverso la surrettizia modalità delle interruzione delle cure? (28) Che cosa impedirebbe ad un tale desiderio di trovare accoglienza qualora le cure fossero affidate ad un medico favorevole all’eutanasia? Forse si opporrebbe una legge come questa in cui che cosa si intenda per eutanasia è affidato de facto all’interpretazione del singolo giudice?

O piuttosto si confida negli interpreti della deontologia che però non hanno avuto alcunché da eccepire ai protagonisti medici dei noti casi, non rinvenendo nella loro condotta alcuna violazione del codice medico che all’articolo 17 vieta l’eutanasia (ci pare che ciò sia stato reso possibile perché l’eutanasia è stata intesa nella sola dimensione commissiva e l’azione dell’interrompere i supporti vitali è stata considerata invece un’omissione)?

Non hanno perso di attualità le parole scritte quindici anni fa dal prof. Antonio Spagnolo, oggi ordinario di bioetica all’Università Cattolica di Roma: “Occorre, pertanto, ripensare al problema in sé del testamento di vita cercando modalità alternative alle dichiarazioni anticipate di volontà, che salvaguardino la dignità del morire che e’ anche la dignità della persona come bene individuale e sociale. […] dovrebbe essere il medico, al limite, e non il paziente, ad essere incoraggiato a sottoscrivere una dichiarazione che lo impegni a non somministrare consapevolmente, in alcun modo, trattamenti futili o che prolunghino la sofferenza dei pazienti senza alcuna reale speranza di ripresa” (29)

Invece di andare in rotta di collisione con quanto deciso dalla magistratura creativa (30), forse per un’inconsapevole od inconfessata aspirazione alla conciliazione, con l’attuale ddl sulle DAT si è scelta maldestramente la strada di seguire il sentiero predisposto dai battitori radicali per spingere la preda là dove essi stessi vogliono: il riconoscimento delle volontà anticipate con i paletti. Questo è tutto quanto serve loro, il resto del lavoro lo faranno gli avvocati. Non avrei mai potuto esprimere meglio questo concetto di quanto ha fatto il prof. Pessina, inopinatamente da un giornale diverso da Avvenire: “A mio avviso soltanto indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni anticipate e rafforzando i criteri che permettano di riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure moralmente hanno un loro specifico valore” (31).

Sogni d’oro

Quando leggo interventi a sostegno della legge rassicurati dall’opposizione ad essa dei “paladini dell’assolutezza dell’autodeterminazione” (32), rimango turbato; il pensiero va infatti alle lode di Gesù per l’uso della scaltrezza ed al suo ammonimento ad usarne nelle cose di Dio: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (33); si assume infatti come autentica la contrarietà al ddl sulle DAT, senza includere nel novero delle possibilità un’opposizione tattica per favorire la promulgazione di una legge che consenta ai giudici di sollevare questioni di costituzionalità in punti strategici.

Un minuto dopo che la legge dovesse essere approvata sono convinto che dall’accampamento della “buona morte” si leverebbero brindisi, essendo già pronti i piani per il successivo smantellamento di tutti i limiti a partire da quelli della non vincolatività e della esclusione della NIA.

Sono considerazioni già pubblicamente e chiaramente esposte dall’on.le Alfredo Mantovano: “Non sono certo che quella parte di magistratura ostile alla vita non trovi anche nel testo del Senato margini per riprodurre sentenze di morte […] C’è una sola ragione per la quale vale la pena che un Parlamento attento alla tutela del diritto alla vita vari delle norme sul “testamento biologico“: quella di riaffermare che l’esistenza di ogni uomo è intangibile, qualunque sia la sua età, le sue condizioni, il suo stato; e che è intangibile anche quando volessero permetterlo i giudici” (34).

Parafrasando Samuel Johnson, affermare che l’impiego nella legge del termine “direttive anticipate” al posto di “testamento” dovrebbe garantire la volontà del legislatore e la conseguente tenuta della legge davanti ai giudici, è l’indubbio trionfo della speranza sull’esperienza (35)

Non era forse chiaro ai giudici della corte costituzionale la volontà del legislatore, laddove all’articolo 1 della legge 40 si affermava la volontà di compenetrare i diritti dei soggetti coinvolti, compresi quelli del concepito? Allora perché oggi si è ripreso a congelare gli stessi concepiti decidendo deliberatamente di abbassarne ulteriormente le già ridotte probabilità di sopravvivenza?

Non è forse scritto nella legge 194 che per accedere all’aborto vi deve essere un “serio rischio per la salute della donna”? Com’è successo allora che i giudici abbiano interpretato la clausola in modo così esteso da accettare che una gravidanza ogni 4 o 5 configuri un tale rischio? non è dunque vero che quella stessa ipocrita legge ha nel titolo la “tutela della maternità”, una maternità così tutelata da avere condotto a 5 milioni di aborti legali?

E tutto questo confidare nella coscienza del medico è davvero ben riposto? “Houston, abbiamo un problema“: duole dirlo, ma la coscienza di molti medici non è immune dalla cultura della morte; 5 milioni di aborti sul fronte dell’inizio vita non consentono di dormire sonni tranquilli sul fine-vita. Stupisce che le criticità del ddl qui solamente accennate sembrino non preoccupare, tanto da far considerare gli opportuni emendamenti migliorativi dei semplici “dettagli che non toccano il cuore della proposta Calabrò-Di Virgilio” (36).

Not in my name

In un editoriale sul giornale Avvenire si afferma: “Una legge `buona e giusta` quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. ? civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa `non cattolica` ma accettata dai credenti per chiudere l’era di `provetta selvaggia`. Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore” (37).

Si tratta di un passaggio di non univoca lettura. Non so se interpreto bene il pensiero dell’autore, a cui peraltro mi sento legato da vincoli di amicizia e stima personale, ma esso sembrerebbe condividere le preoccupazioni di cui, ultimo rispetto ad altri più profondi e qualificati di me, ho cercato di farmi portavoce.

Si potrebbe anche cogliervi una supplica rivolta al fronte eutanasico perché pietosamente conceda un minimo di tregua (rodaggio) prima d’iniziare l’attacco alla legge; si potrebbe infine cogliere una criptica giustificazione delle tante deviazioni di questo disegno di legge rispetto ai principi cattolici nella necessità di elaborare un testo quanto più largamente condiviso proprio per evitare la sorte che è toccata alla legge 40. Qualora questa motivazione fosse reale (spero vivamente che non lo sia), mi sentirei obbligato a rispondere che se è vero che talora si può tollerare un male per evitare un male peggiore, è altrettanto vero che in nessun caso si può fare il male, anche se facendolo si ha l’intenzione di fare del bene (38).

Non si può chiedere di difendere una cattiva legge, sperando che sia sufficientemente cattiva da non indurre ad un suo ulteriore peggioramento allorquando dovesse cambiare la maggioranza politica. Chi si è ostinato a rimanere sordo a tutti i buoni e saggi consigli che sono giunti da molteplici voci dell’accampamento pro-life, talora sottovoce, talora urlati, sperando almeno così di ottenere un po’ più di attenzione, ma sempre con grande amore per la difesa della vita umana, dovrà farsi carico di portare sino in fondo la paternità delle decisioni.

Renzo Puccetti, Scienza & Vita Pisa e Livorno

[1] In: M. Tangheroni. Della storia. In margine ad aforismi di Nicol?s G?mez D?vila. Sugarco ed. Milano, 2008. [2] Il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica del 18 Dicembre 2003 sulle DAT ricevette l’approvazione anche dei membri di orientamento personalista, in larga parte cattolici, a partire dal presidente, il prof. Francesco D’Agostino.

[3] L. Liverani. Testamento biologico: “Più rischi che benefici” Avvenire, 6-12-2006, p. 10. Si legge: “Testamento biologico, maneggiare con cautela. Perché nel migliore dei casi è un doppione di norme già esistenti, come la donazione di organi. Oppure è inutile, perché già oggi l’accanimento terapeutico esula dalle corrette pratiche mediche. Più realisticamente è il traguardo a cui punta chi vuole eliminare terapie efficaci e proporzionate quali l’idratazione o l’alimentazione in pazienti in coma. Un grimaldello giuridico, insomma, per introdurre nell’ordinamento l’eutanasia nuda e cruda”.

[4] M. Corradi. “Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia”. Avvenire, 28-11-2007. Si legge: “Io, il “testamento biologico”, da sana, lo avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero”.

[5] F. D’Agostino. “Una sentenza di morte dai giudici: ma si può?”. Avvenire, 11-7-2008.

[6] F. D’Agostino. “Una legge sul fine vita? “Dichiarazioni” per aiutare i medici a decidere”. Avvenire, 8-8-2008.

[7] V. Daloiso. “Prof. Pessina: “Testamento biologico: attenti al rischio eutanasia””. Avvenire, 3-9-2008.

[8] G. Isola. Scienza & Vita: “No a una legge su testamento biologico” Avvenire, 5-8-2008.

[9] F. Rosicano. “Possono gli uomini decidere di anticipare la morte? Colloquio con Maria Luisa Di Pietro”. Liberal, 12-8-2008.

[10] Angelo Card. Bagnasco, Presidente Cei. Prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. 22-9-2008.

[11] F. D’Agostino. “Il testamento c’è già: ora bisogna arginare e cambiare”. Avvenire, 25-9-2008.

[12] Il quotidiano Avvenire ha davvero speso rilevanti energie a questo scopo, giungendo a negare l’accesso a qualsiasi voce critica ed anzi prestando il proprio autorevole spazio ad interventi unidirezionalmente volti ad accreditare la bontà dell’attuale ddl. Tra i contributi più significativi il mini-manifesto a favore del ddl Calabrò pubblicato su Avvenire del 12-3-2011; benché sottoscritto da personalità di indubbio prestigio, il loro numero risulta un po’ troppo esiguo per potere essere accreditato quale espressione univoca della posizione cattolica fedele al Magistero, citato peraltro in modo quanto meno criticabile.

[13] A. Pessina. . “Il diritto di rifiutare la cura è l’altra faccia dell’indisponibilità della vita: tolta questa diventa eutanasia”. Il Foglio del 22-1-2009.

[14] M. Micaletti. “Perché nel nostro Paese l’eutanasia e’ ancora illegale”. 4-3-2011. http://www.comitatoveritaevita.it/pub/editoriale_read.php?read=291

[15] G. Mommo. Testamento biologico: applicabili le disposizioni sull’amministrazione di sostegno. http://www.altalex.com/index.php?idnot=43586

[16] L’associazione Medicina & Persona ha espresso maggiore fiducia nella formazione etica dei medici piuttosto che nella elaborazioni di leggi per salvare le prossime Eluana. Medicina & Persona. “Continuiamo a fare i medici”. 25-2-2011.

[17] Lector quidam. “Contro l’inganno del fine vita”. Il Foglio del 16-3-2011. p. 8.

[18] E. Roccella. Si legge: “E’ evidente che prosegue l’attacco ideologico alla legge sulla procreazione assistita che invece ha già resistito perché è stata sostanzialmente confermata dalla pronuncia della Corte Costituzionale del 2009 e ha ormai dimostrato di dare buoni risultati”, commenta invece il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella che si è detta comunque “fiduciosa” rispetto alla nuova pronuncia che dovrà arrivare dalla Suprema corte “che già ha mantenuto l’impianto della legge”. Repubblica del 22-10-2010.

[19] M. Aramini. “Fine vita: si faccia la legge ma il problema è culturale”. La Bussola Quotidiana del 29-3-2001. http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-fine-vita-si-faccia-la-leggema-il-problema–culturale-1410.htm

[20] “Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzi tutto chiaramente definirla”. Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, n. 65.

[21] J. Keown. Eutanasia, Ethics and Public Policy. An Argument Against Legalisation. Cambridge University Press. Cambridge 2002. p. 16.

[22] P.L. Fornari. “Sgreccia: legge necessaria stop agli itinerari di morte”. Avvenire del 11-3-2011. p. 3.

[23] La definizione di eutanasia del Magistero amplia le condotte eutanasiche non solo alla rimozione della nutrizione ed idratazione, ma ad ogni “azione od omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. Vd Congregazione per la Dottrina della Fede. Dichiarazione sull’eutanasia Iura et Bona. 5 Maggio 1980.

[24] Puccetti R, Del Poggetto MC, Costigliola V, Di Pietro ML. Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT): revisione della letteratura. Medicina & Morale. 2009; 14(3): 461-498.

[25] Perkins H. Controlling death: the false promise of advance directives. Ann Intern Med. 2007; 147(1): 51-7.

[26] P. Ramsey. Ethics at the edges of life. New Haven ; Yale University Press, 1978 p. 155.

[27] Vd. a proposito della posizione del Magistero il testo di M. Calidari. “Curarsi e Farsi Curare: tra Abbandono del Paziente e Accanimento Terapeutico”. San Paolo ed. Cinisello Balsamo (Mi), 2006.

[28] Con onestà intellettuale lo ammette il prof. Maurizio Mori nel descrivere la valenza del caso Englaro: “Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana. Sospendere l’ alimentazione e l’ idratazione artificiali implica abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’ idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell’ ippocratismo e anche prima nella visione dell’ homo religiosus, per affermarne una nuova da costruire. Come Porta Pia segna la fine del papa re e di un paradigma del ruolo sacrale della religione in politica, gettando le basi di un’ aurorale democrazia in Italia, così il caso Eluana segna la fine (sul piano teorico) del paternalismo in medicina e di un paradigma medico fondato sul vitalismo ippocratico, gettando le basi di un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone”. M. Mori. ” Il caso Eluana Englaro. La “Porta Pia” del vitalismo ippocratico ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento”. Pendragon ed. 2008.

[29] A.G. Spagnolo. “Il bene del paziente e i limiti dei testamenti di vita”. Orizzonte Medico n. 6, 1996.

[30] Nella sentenza N? 21748/07 della Corte di Cassazione riguardo al caso Englaro, il termine “dignità” ricorre undici volte giungendo ad affermare, in nome del pluralismo dei valori, che la vita con attributi soggettivi di indegnità costituisce un diritto esigibile.

[31] A. Pessina. “Controindicazioni di una legge che non fermerà l’eutanasia”. Il Foglio del 22-3-2011.

[32] A. Gambino “Questa legge s’ha da fare”. Avvenire del 4-3-2011. p. 1.

Lo stesso pensiero è stato sorprendentemente ripreso da un uomo di grande esperienza nelle questioni biopolitiche: “Tutta la cultura radicale, abortista, sostenitrice di una idea corrotta di libertà e del diritto alla morte, favorevole all’eutanasia, preme affinché non si approvi la legge che ha raggiunto la soglia del voto finale alla Camera. Non è già questo fatto un’indicazione di quale deve essere la nostra scelta? ? evidente che la legge disturba i progetti eutanasici”. C. Casini. “La legge di fine vita”. Zenit del 3-4-2011.

[33] Lc. 16,8.

[34] On.le A. Mantovano. “Lettera a Il Foglio”. del 25 febbraio 2011.

[35] C. Casini. “Quanta distanza tra “bio-testamento” e “Dichiarazioni anticipate””. Avvenire del 25-2-2011.

[36] C. Casini. Vd. rif. 32.

[37] D. Delle Foglie. Per una legge che sia utile. Avvenire del 31-3-2011.

[38] Giovanni Paolo II. Veritatis Splendor n. 80.

Femminismo d’alto bordo

Provate ad andare su un qualsiasi motore di ricerca della rete, cliccate sulla funzione ‘ricerca immagini’ e digitate ‘femministe sulla vostra tastiera.

Troverete una sfilza di foto ottenute in tempi e luoghi diversi, il simbolo più ricorrente sono le mani unite a mimare l’organo genitale femminile, ma non mancano i seni al vento.

Ricordo ancora una puntata del Maurizio Costanzo Show, il programma condotto dal campione della tolleranza ideologica, in cui una prostituta fu invitata ad illustrare la sua scelta. Mi ricordo il senso delle sue parole: perché rinunciare ad un mestiere che le consentiva di guadagnare in una sola serata il corrispettivo di un intero usurante mese di lavoro come operaia?

Perché sfiancarsi ad accudire marito e figli, quando invece il mestiere di prostituta la metteva in contatto con personaggi importanti e facoltosi?

Un unico filo comune lega quelle rivendicazioni femministe alla scelta della prostituta sotto i riflettori: l’autodeterminazione, quello stesso principio espresso nell’arcaico slogan "il corpo è mio e lo gestisco io".

L’apparato mediatico e ideologico relativista ha per decenni sostenuto in tutte le salse quel principio di autodeterminazione sciolto da ogni istanza veritativa pervicacemente negata in tutte le circostanze: non esiste né vero, né falso, ma solo opinioni, il bene di un’azione non consiste nel contenuto della scelta, ma nella libertà di effettuare la scelta.

 Per anni si sono adoperati per accreditare il sesso pre ed extramatrimoniale, il sesso adolescenziale, l’educazione alla sessualità liberata dal peso della fecondità, il sesso sulle copertine, il sesso nel cinema, il sesso in ogni spazio. Sesso nelle scuole coi distributori di preservativi, fuori dalle scuole con le prescrizioni a catena di pillole del giorno dopo, nemmeno la consacrazione religiosa doveva restarne immune; il celibato ecclesiastico è sempre stato giustamente percepito come una silenziosa, intollerabile testimonianza vivente del credere nel regno dei cieli.

 Il corpo delle donne dal ’68 della rivoluzione sessuale è stato fino ad oggi esposto per sottrarlo al pudore, ritenuto segno di sottomissione all’oppressione della società dei maschi.

Oggi le donne scendono in piazza per protestare a difesa della loro dignità che dicono essere stata sfregiata. Verrebbe da dire ‘finalmente!’; hanno capito che non può esserci vera libertà senza verità? Hanno compreso che uomo e donna hanno una dignità grande rispettata da certe azioni e violata da altre?

Avranno cominciato a comprendere che esiste un significato intrinseco proprio di un’azione, che esso non necessariamente corrisponde a quello attribuito dall’intenzione, che fare sesso non è lo stesso che fare l’amore, quello vero, quello che vuol dire voglio il tuo bene donandomi tutto a te e prendendo tutta te, ora e per sempre?

Con un po’ di ottimismo se la manifestazione di oggi fosse sincera ci si potrebbe aspettare di vedere sventolare i librettini della lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II ‘Mulieris dignitatem’ e persino osare sperare di vedere i cortei trasformarsi in processioni.

E invece niente di tutto questo accadrà. Oggi si manifesterà avendo nel cuore lo stesso principio di autodeterminazione delle femministe di quarant’anni fa, le più giovani delle quali oggi sono nonne: del proprio corpo la donna può farci quel che vuole, tutto va bene, ogni cosa è lecita, basta che non lo conceda al cavaliere

Le strane idee di Hans Kung

Oggi è il giorno in cui ho trovato il tempo per leggere la lettera aperta rivolta al Santo Padre da parte del teologo Hans Küng,[1] secondo cui l’attuale pontificato si caratterizzerebbe «per non avere saputo cogliere una serie di opportunità».
Nel testo il teologo svizzero ne elenca undici.

Chi scrive non ha competenze specifiche per verificare la fondatezza di ciascuno di essi, è possibile che alcuni elementi si possano trarre leggendo l’omelia che il Papa ha pronunciato nella Messa celebrata oggi a Malta,[2] ma due punti sollevati da Küng hanno però forti implicazioni bioetiche; immagino che prenderli in esame, seppure in maniera non certo esaustiva, possa interessare i lettori di questa rubrica.

Nel primo di questi si sostiene la opportunità di aiutare le popolazioni dell’Africa sollevandole dal peso della sovrappopolazione e dal flagello dell’AIDS assecondando la contraccezione e l’uso del preservativo. Su questo punto l’argomentazione sembra svilupparsi partendo da una prospettiva proporzionalistica; il bene o il male di un’azione deriverebbe da una ponderazione delle conseguenze.

Tale prospettiva non certo nuova e di cui si riconoscono peraltro numerose varianti, non perché è sostenuta da Küng esime dai problemi e garantisce dal commettere azioni immorali. Chi stabilisce i criteri di utilità? Come sono valutate le conseguenze? Chi le verifica? Sono tutte prevedibili? È stato osservato che il proporzionalismo, facendo l’uomo responsabile di tutto, finisce per farlo diventare responsabile di niente. Come potrebbe rispondere infatti il proporzionalista e quindi in definitiva lo stesso Hans Küng, a quei medici che dalla sbarra del tribunale di Norimberga si fossero giustificati adducendo la loro buona intenzione quando sottoponevano i prigionieri agli esperimenti di congelamento e di decompressione? Non agivano forse nell’interesse dei piloti della Luftwaffe ed in definitiva dell’intero popolo tedesco che aveva un interesse a vincere la guerra?[3]

Una tale prospettiva, al fine, finisce per ridurre l’azione malvagia ad un semplice errore di calcolo. Attenzione non si dice qui che contraccezione ed esperimenti sugli ebrei siano la stessa cosa, una tale lettura del concetto da me espresso sarebbe talmente rozza da non meritare alcun commento, ma si vuole fare riflettere sui limiti della teoria proporzionalista.[4] Ma diamo per scontato che tale impostazione sia accettabile e seguiamo il teologo dissidente. Vi sono robuste evidenze che la diffusione della contraccezione porti ad una riduzione del tasso di fertilità nei paesi in via di sviluppo.[5]

Molto meno evidente che la riduzione della popolazione porti a benefici in termini economici. Se quindi lo sviluppo economico viene preso come unico indicatore del benessere di una popolazione, allora la pretesa di dettare l’agenda da parte di Küng comincia ad avere dei guai. A tale proposito riporto quanto affermato da Luca Molinas, dottorando presso la facoltà di Scienze Economiche “La Sapienza”: «In sostanza il mondo accademico è totalmente diviso ed in disaccordo sulla relazione tra crescita della popolazione e sviluppo economico nei paesi in via di sviluppo».[6] Lo stesso autore conclude affermando: «Lo studio comparativo sulle politiche demografiche in Cina ed in India dimostra che l’approccio neomaltusiano esce sostanzialmente sconfitto nel dibattito». Ma la contraccezione non ha soltanto effetti in termini di popolazione. Se il teologo considerasse ad esempio gli studi in proposito del nobel per l’economia Gorge Akerlof se ne potrebbe facilmente rendere conto.

Una delle conseguenze indirette individuate da Akerlof è quella, ad esempio, dell’incremento dei bambini costretti a crescere con un solo genitore. Ora il guaio è che Küng sembra rinvenire nella contraccezione proprietà quasi taumaturgiche. Quando egli accusa infatti di “rigorismo impietoso” il Magistero, egli cita tutta una serie di questioni come la contraccezione, l’inseminazione artificiale, l’aborto, la diagnosi pre-natale, l’eutanasia, quali esempi di “estremismo fanatico”.[7] Lo “zelo antimodernista” della Chiesa finirebbe addirittura per incoraggiare l’aborto attraverso la proibizione della contraccezione. Il professor Küng non ce ne voglia, ma il suo concetto di modernità ci ricorda quello di Cristiane, la protagonista del film “Good Bye Lenin!” , che, risvegliatasi dopo un coma protratto stenta ad adattarsi ai cambiamenti che hanno fatto seguito al crollo del comunismo.

Allo stesso modo il prof. Küng sembra riproporre riflessioni etiche che potevano avere una qualche verosimiglianza qualche decennio fa. Presentarsi con una tale teoria al premio Ig Nobel assicurerebbe ottime probabilità di vittoria; è piuttosto difficile infatti pensare che una persona ubbidisca al Papa per quanto riguarda la contraccezione, ma contravvenga al suo insegnamento sull’aborto. Si dà il caso peraltro che il sottoscritto abbia da poco pubblicato uno studio che fa piazza pulita dell’idea che la diffusione della contraccezione in una popolazione riduca il ricorso all’aborto.[8] Contra factum non valet argumentum. Il teologo casca male anche quando accusa il Papa sulla questione del preservativo e l’AIDS. Verrebbe da ripetere la risposta di Apelle di Coo al ciabattino a noi tramandata: “Sutor, ne ultra crepidam!”. Se egli infatti è così ansioso di riconciliare la religione con la scienza moderna, siamo certi che trarrebbe vantaggio dallo studio della letteratura scientifica prima di aprire bocca su argomenti da cui la sua statura intellettuale guadagna quando sta zitto. Abbiamo pubblicato da poco un piccolo libro proprio su questo argomento che in modo facile, facile potrà aiutarlo a comprendere che la sua posizione è sbagliata e che quando il Papa afferma che la distribuzione di preservativi aumenta il problema, egli ha ragione.[9] L’ennesima conferma deriva da uno studio svolto in Kenya da poco pubblicato che mostra come la conoscenza tra i giovani che il condom protegge dall’AIDS si associa ad una maggiore promiscuità sessuale.[10]

Quando il teologo parla di «una pianificazione famigliare ragionevole, così come una contraccezione ragionevole»,[11] lontano dall’offrire qualche risposta, sembra piuttosto più simile ad uno che brancola nel buio, ma vuole indicare la strada ai passanti. La seconda questione sollevata da Küng nella sua lettera aperta sarebbe la mancata riconciliazione con la scienza moderna attraverso il riconoscimento «senza ambiguità» della teoria dell’evoluzione e «aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali».

Ora, che quella che lui stesso riconosce come teoria, cioè terreno soggetto ad una continua rivalutazione scientifica, debba essere materia che impegna quello stesso Magistero di cui egli disconosce la infallibilità in materia di fede e di morale,[12] è espressione di un contorsionismo logico davvero ammirevole. Quando poi il professore cita quale esempio la questione della ricerca sulle cellule staminali è quanto meno impreciso. Egli infatti omette di ricordare che la Chiesa è favorevoli a tutte le fo
rme di ricerca mediante cellule staminali che non implichino la distruzione di embrioni, considerati degni di rispetto al pari delle persone. Se ad un tale tipo di ricerca il teologo è favorevole, allora egli non potrà che prendere atto che la sua prospettiva accetta la sacrificabilità di alcuni esseri umani per il tornaconto di altri.

Questo, depurato dagli aspetti circostanziali, è quanto accomuna infatti aborto e sperimentazione su cellule staminali embrionali: sopprimere lecitamente e legalmente esseri umani piccoli, piccoli, assolutamente indifesi, privi di qualsiasi colpa se non quella di esistere, esseri umani con caratteristiche che tutti noi abbiamo condiviso, perché qualcun altro ha deciso che ciò è utile. Basta toglierli l’umano di cui sono portatori, non più esseri umani viventi, ma ovuli fecondati, zigoti, blastocisti, embrioni, feti. Che arma potente il linguaggio! Se governi le parole puoi cambiare il mondo senza che questi se ne accorga. In tale esercizio si erano cimentati con eccellenti risultati anche nel campo di Dachau dove l’uomo era abolito e si sperimentava su versuchspersonen (soggetti permanenti da esperimento).[13] La filantropia del prof. Hans Küng, se non preoccupasse per la presa mediatica, mi sembrerebbe più patetica che pericolosa.

Note:

[1] Hans Küng. Benedetto XVI ha fallito i cattolici perdono la fiducia. La Repubblica, 15 Aprile 2010. (http://www.repubblica.it/esteri/2010/04/15/news/hans_kung-3359034/) [2] Benedetto XVI. Omelia del 18 Aprile 2010. (http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2010/documents/h…) [3] cfr. Gli esperimenti "medici" nei campi di concentramento nazisti. (http://www.olokaustos.org/argomenti/esperimenti/medexp01.htm) [4] Le teorie teleologiche sono chiaramente respinte dal Magistero (vd. N. 79 Veritatis Splendor). [5] John Bongaarts and Elof Johansson. Future Trends in Contraceptive Prevalence and Method Mix in the Developing World. Studies in Family Planning. 2002; 33(1): 24-36. [6] http://w3.uniroma1.it/secis/Molinas.ppt#3 [7] Hans Küng. A global ethic for global politics and economics. P. 135. [8] Puccetti R, Di Pietro ML, Costigliola V, Frigerio L. Prevenzione dell’aborto in occidente: quanto conta la contraccezione? Italian Journal of Gynaecology & Obstetrics 2009: 21(3): 164-78. [9] Cesare Cavoni, Renzo Puccetti. Il Papa ha ragione! L’AIDS non si ferma con il condom. Fede & Cultura Ed. 2010. [10] Chiao C, Mishra V. Trends in primary and secondary abstinence among Kenyan youth. AIDS Care. 2009; 21(7): 881-92. [11] Hans Küng. Il viaggio del Papa in Africa? Un’occasione sprecata. Euronews 2010. [12] Hans Küng. Infallibile? Una domanda. Queriniana Edizioni, 1970. [13] Luciano Sterpellone. Le cavie dei lager: gli esperimenti medici delle SS. Mursia Editore, 2005. p.11.

Una ragazza sieropositiva scrive al Corriere…

Qualche giorno fa il nella cronaca di Milano il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera di una ragazza, una studentessa della Bocconi, che a soli 18 anni si è scoperta sieropositiva.

Colpa della droga, di una leggerezza compiuta sotto l’effetto dell’alcool, di avventure di una notte con qualche giovane apparso irresistibile? No, niente di tutto questo; Michela, questo è il nome di fantasia che decidiamo di darle, stava col suo ragazzo da quattro anni, si fidava di lui, aveva rapporti solo con lui. Ma non altrettanto aveva fatto lui. Così è avvenuto che Michela è stata infettata da colui nei cui confronti aveva riposto la massima fiducia e da tre anni è in cura presso un centro specializzato nella città.

 "Se ci fosse stata una maggiore informazione o una rieducazione sessuale, io probabilmente non avrei fatto sesso non protetto con il mio ragazzo con il quale stavo da 4 anni, se gli uomini smettessero di tradire le proprie mogli e fidanzate, io ora non sarei malata di HIV, e non sarebbe per me così difficile tante volte trovare una ragione di vita", scrive Michela. Già, se … se, quanti se. Una vita, quella di Michela, tradita dalla menzogna. La menzogna di un ragazzo che mentre si univa alla sua fidanzata, a cui aveva promesso amore e fedeltà, nascondeva di non essere stato capace di onorare quella stessa promessa.

La menzogna di un gesto il cui significato intrinseco, come tante volte ha insegnato Giovanni Paolo II nell’intero di ciclo di catechesi sull’amore umano, esprime il massimo di unione possibile tra due persone e che invece era realizzato per realizzare il massimo di distanza: usare l’altra per soddisfarsi col suo corpo, violando quel principio kantiano di non ridurre l’altro a solo mezzo. La menzogna di una società che attraverso la tecnoscienza promette di potere manipolare a piacimento una forza esplosiva come la sessualità, che promette di sezionarla nelle sue dimensioni e prenderne solo la parte che in quel momento interessa.

Una promessa che nel doloroso silenzio di tanti uomini e donne che ne patiscono le conseguenze si rivela tragicamente falsa. Il sesso ha una potenza spaventosa, è un mezzo la cui energia permette una straordinaria accelerazione su quell’autostrada che è la vita umana, ma proprio perché è un bolide è necessario conoscerlo e rispettarlo. Se qulcosa deve essere insegnato è che la sessualità è una cosa seria della vita, non è riducibile a quel giochino pulsionale senza conseguenze, se solo si usa uno strato di lattice, una compressa, o, meglio ancora entrambi, come insegnano sin dai 13 anni nelle scuole olandesi, dove però il tasso di aborti è del 17% più alto rispetto alle coetanee italiane.

Non basta demandare alla scuola uno sforzo educativo di tal genere, le famiglie hanno il diritto di ottenere informazioni e di selezionarle in base al grado di maturazione dei propri figli, che non sono tanti piccoli Big Jim e Barbie tutti uguali, ma persone, esseri umani irripetibili. Le famiglie hanno anche il diritto a non ricevere un continuo bombardamento mediatico che ad ogni occasione ammicca al sesso. Ma la famiglia ha dei diritti perché prima ha dei doveri e non si può pretendere se non si è disposti a dare. Di questo avrebbe avuto bisogno Michela, ma ancora di più il suo ragazzo, il quale mentre pensava di compiere la propria libertà attraverso tradimento e menzogna, in realtà si consegnava come schiavo alle proprie pulsioni. A questi ragazzi sarebbe servito che qualcuno prima indicasse che esiste un modo di vivere diverso, che esiste una vita virtuosa che non soggioga, ma rende più liberi, che non intristisce, ma rende felici, che non brucia, ma irrora; avrebbero avuto bisogno di qualcuno che avesse indicato loro la via per amare l’amore umano.