L’appellativo di “destra populista, xenofoba ed euroscettica” è usato spesso dalla stampa di sinistra per raggruppare forzosamente una serie di soggetti politici che in realtà sono molto diversi per esperienza, localizzazione e consenso. In occasione del recente successo elettorale di Sarkozy, alcuni gazzettieri nostrani hanno esteso questo marchio anche alla coalizione di centrodestra francese. L’intendimento è chiaro: caratterizzare negativamente esperienze politiche tra loro diverse, ma che hanno in comune una colpa grave: essere vincenti, essere alternative alla sinistra, e avere un notevole consenso popolare e interclassista.
Se il populismo è un concetto vago, stante la difficoltà a definire il confine tra “popolare” e “populista”, va detto peraltro che il populismo di certa sinistra europea, in particolare quella italiana, è molto più intenso di quello della destra, specie quando viene espresso su problematiche di attualità che vengono sfruttate come mezzo di consenso. I pensionati in piazza non li porta la destra, ma i sindacati e la sinistra radicale con le loro allettanti fantasie sulla sostenibilità del welfare e vari slogan annessi (le pensioni non si toccano, giù le mani dalla la sanità pubblica gratuita ecc.), e su questa demagogia mantengono il loro residuo consenso.
In quanto all’euroscetticismo, direi che è a dir poco giustificato. Non è colpa degli euroscettici la crescita zero dell’economia, la scarsa competitività dell’industria UE, l’assenza di una politica estera e di difesa comune, una moneta unica che ha fatto solo lievitare i prezzi, un mercato interno ancora “legato” per gli europei ma aperto, grazie a Schengen, alle incursioni di milioni di clandestini, una ricerca scientifica e tecnologica che segna il passo…etc. Attribuire ragioni e carattere emotivo agli elettori di destra, serve solo ad accrescere il livore e la diffidenza di questo elettorato e conseguentemente, ad aumentare l’euroscetticismo. Ricordiamoci quali effetti devastanti sul consenso comunitario ha avuto l’ingerenza dell’Unione europea sugli esiti elettorali austriaci nel 2001.
In quanto alla xenofobia, è una delle variabili più allucinatorie in assoluto. Considerati gli effetti della massiva immigrazione extracomunitaria sulla sicurezza, sulla convivenza e sulla spesa sociale, ci si potrebbe aspettare un aumento esponenziale dei fenomeni xenofobi. Al contrario, un extracomunitario in Europa, attualmente, non è più minacciato di quanto non lo sia un gay a S. Francisco o un basco a Bilbao. La diversità culturale e la tolleranza sono una ricchezza dell’Europa, e queste sono delle qualità intrinseche al nostro continente, ben preesistenti al recente fenomeno immigratorio. Anzi, una volta per tutte sarebbe opportuno ribadire una gerarchia delle “diversità” anche in termini storici e locali, differenziando cioè le vecchie ed endogene diversità tutte europee, dalle nuove diversità importate, e che per molti versi sono imposte.
Autore: Pierini Alessandro
Le tragedie annunciate ed ignorate
I familiari piangono, i vicini piangono, ha pianto anche il primario psichiatra De Stefani (Il Trentino, 2 giugno 2007 pag. 4). Ma lo sgomento suscitato dalla tragedia di Mezzolombardo dovrebbe ora lasciare il passo ad una doverosa indignazione: cosa si è fatto realmente per evitare questa sciagura?
In tutti i paesi civili sono tre gli impegni inderogabili per la salute del cittadino: la prevenzione, la cura e la riabilitazione. In Italia, dal 1978 è in vigore la legge Basaglia, così chiamata in onore del suo ispiratore, un medico seguace dell’Antipsichiatria (dottrina sociologica americana degli anni ’60, visionaria e nichilista). Questa legge dispone che gli accertamenti e i trattamenti psichiatrici siano volontari, salvo rare eccezioni che prevedono un regime autorizzativo macchinoso e complesso. In altri termini, chi soffre di disagio psichiatrico è arbitro della propria condizione patologica, restando libero di decidere se curarsi o se, come avviene nella gran parte dei casi, di non ritenersi malato. Ciò significa che, di fatto, spesso non esista alcuna prevenzione del disagio psichiatrico, senza la quale sono ugualmente negate sia la cura che la riabilitazione. Le famiglie vengono così caricate di un onere che non sono in grado di reggere, e spesso scontano fino alla tragedia la latitanza e l’inefficenza dei servizi preposti. Tutto il resto, le “reti”, la solidarietà, le strutture intermedie, vengono sempre evocate in modo un po’ allucinatorio, ma sempre ex post, a tragedia avvenuta. Il medico di base ha ammesso di non essere stato a conoscenza della storia clinica della mamma di Marialisa. E’ questa la “rete” di cui ci si parla tanto addosso?
Morale della favola: una persona che aveva bisogno di assistenza mirata e professionale, è stata lasciata sola a gestire il proprio disagio, e per questo un’innocente ha perso la vita.
Indulto e carriere devianti
Tra le varie opinioni a proposito dell’indulto, comparse di recente sui giornali e nei salotti politici, voglio segnalarne una proveniente da un sociologo misconosciuto (per lo meno a chi scrive), il quale, in sintesi, ha definito l’indulto un provvedimento doveroso e naturale, essendo il crimine un elemento strutturale della nostra società, che è “da sempre insensibile ai bisogni degli ultimi e dei diversi”.
Questa posizione rappresenta bene quella che possiamo chiamare la cultura giustificazionista della devianza, un atteggiamento semi-patologico che arriva ad allucinare la realtà per i propri fini di buonismo sociale. La realtà, invece, è molto più prosaica: il crimine diviene strutturale alla società quando la criminalità diventa una vera e propria carriera, una carriera deviante con connotati simili ad un qualsiasi investimento sociale ed esistenziale; con i suoi rischi, i suoi profitti, le perdite, i fallimenti. Se le perdite superano i profitti, la carriera deviante può interrompersi attraverso meccanismi che non sono solo espiatori. Ma se nella carriera deviante i profitti sono costanti, se l’ambiente sociale è tollerante e culturalmente “giustificazionista”, se il sistema sanzionatorio è inefficiente (condanne non scontate, processi infiniti, indulto), se il passivo, il rischio e le perdite sono annullati da prebende assistenziali e parassitarie, ebbene, la carriera deviante non troverà motivo di interrompersi se non con l’estinzione del soggetto deviante o con il suo “fallimento”. Generalmente questo fallimento coincide con la commissione di un crimine di gravità tale da espellere per sempre il deviante dal proprio ciclo produttivo (ad esempio l’ergastolo che si beccherà l’assassino del bimbo di Parma, psichiatri e assistenti sociali permettendo). Ma quanto danno sociale produce impunemente il deviante, prima del suo definitivo “fallimento”?
Una soluzione esiste, peraltro assai politicamente scorretta, e quindi verosimilmente efficace. Il crimine può essere combattuto attivando meccanismi repressivi che rendano la carriera deviante massicciamente improduttiva e disagevole, rispetto a quanto non lo sia il comportamento conforme alle norme. In altri termini, bisogna rendere la vita dei criminali molto più difficile di quanto si è fatto finora. E la cultura giustificazionista della devianza, che è spesso conseguente e connivente con la devianza stessa, deve essere oggetto di un precoce e continuativo vituperio sociale, e relegata nella pattumiera culturale dei nostri tempi.