Come la scuola e la cultura hanno ripudiato il latino. Un latinista racconta

Una piccola presentazione dell’autore: Renato Oniga è professore di Lingua e letteratura latina all’Università di Udine. Ha scritto vari saggi e curato per Einaudi l’Opera omnia di Tacito. A febbraio uscirà, per Fede & Cultura, un suo bellissimo pamphlet dal titolo Contro la post-religione. Per un nuovo umanesimo cristiano nell’epoca del dogmatismo scientista, con prefazione dell’illustre Accademico di Francia Marc Fumaroli. Il volume affronterà con piglio combattivo le nuove tendenze anticristiane e antiumanistiche che allignano nella cultura diffusa e nei media, e di cui un Piergiorgio Odifreddi (oggetto nel libro di un’implacabile confutazione filologica) è in Italia un rappresentante emblematico. Dalle pagine di Oniga ho estratto, in qualità di anteprima, un interessante excursus sulla decadenza della lingua latina nel mondo della cultura e della scuola. Ringrazio il prof. Oniga per la cortese disponibilità alla pubblicazione del brano. Buona lettura.

“I classici dominarono incontrastati dal Cinquecento al Settecento nelle scuole di tutta Europa, dove generazioni di scolari studiavano gli stessi manuali e leggevano gli stessi autori […]. [A]ncor più forte fu la posizione del latino nel sistema universitario. A Parigi come a Oxford, si dava per scontato che docenti e studenti non solo fossero in grado di capire il latino, ma lo parlassero tra loro correntemente. Non a caso, a Parigi, il quartiere delle grandi scuole superiori e dell’università porta ancor oggi il nome di “quartiere latino”.
Proprio in Francia si riscontrano però, nella seconda metà del Settecento, i primi segnali di crisi. I più accesi oppositori dell’educazione basata sul latino furono alcuni illuministi francesi, che anche sotto questo profilo si rivelarono più dogmatici rispetto agli illuministi tedeschi o americani. L’?mile di Rousseau (1762) teorizzava la spontaneità del processo formativo, limitando lo studio scolastico alla sola lingua materna e alle scienze della natura, poiché il latino rischiava di limitare la mente dei giovani, impedendo loro di esprimersi liberamente. Negli stessi anni, Diderot, tracciando il progetto di una nuova università per la Russia di Caterina II, si chiedeva infine “a chi queste lingue antiche possano essere di un’utilità assoluta”, concludendo: “oserei quasi rispondere: a nessuno, a parte i poeti, gli oratori, gli eruditi e gli altri letterati di professione, cioè i ceti sociali meno necessari” (Plan d’une université pour la Russie, 1875) […].
Quella che possiamo chiamare la prima vera crisi europea del latino raggiunse dunque il suo culmine alla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese. Benché i rivoluzionari, parlando di tirannicidi, consoli e tribuni, dimostrassero ancora di essere profondamente imbevuti degli ideali di libertà della cultura classica, essi eliminarono in modo traumatico le strutture scolastiche di tradizione umanistica, considerate ingiustamente il simbolo dell’Ancien Régime, e istituirono le nuove scuole centrali, dove per la prima volta si realizzò il prevalere delle lingue moderne sulle lingue antiche e delle scienze sulle lettere.
La parentesi fu però ben presto chiusa dal regime napoleonico, che istituendo i Licei restituì al latino il suo posto fondamentale nell’educazione. L’Ottocento è dunque, in tutta Europa, il secolo in cui assistiamo ad una nuova fioritura della scuola umanistica: dal Gymnasium prussiano, istituito nel 1810, alla public school inglese, ai citati licei francesi e a quelli italiani, costruiti sul modello francese.
Il nuovo classicismo ottocentesco non fu però un semplice ritorno al passato, ma comportò una diversa impostazione rispetto alle scuole dei secoli precedenti: si perse quasi del tutto la dimensione del latino parlato e prevalse un nuovo approccio di tipo storico, archeologico e letterario. I ginnasi e i licei avevano il compito di formare la futura classe dirigente dello Stato, la cui principale capacità doveva essere la disciplina e l’elasticità mentale. In tal senso, le lingue classiche erano ritenute un’ottima palestra.
Arriviamo infine alla seconda crisi del latino, molto più grave della precedente, e nella quale siamo ancora immersi. Essa si verificò all’inizio del Novecento, anche questa volta in concomitanza con un’altra grande rivoluzione, iniziata con grandi speranze di libertà, ma finita nel dispotismo. Il latino, nonostante gli auspici di Diderot, aveva conosciuto larga fortuna negli ultimi secoli dell’età zarista. Fu invece ben presto spazzato via dalla Russia sovietica. Parallelamente, anche nei paesi dell’occidente, pur non toccati dalla rivoluzione, il latino si avviò a un lento ma inesorabile declino, che ebbe il proprio apice in concomitanza con i fatti del Sessantotto francese. Non bisogna tuttavia dimenticare che, in molti paesi, il colpo mortale alla scuola latina fu inferto da governi conservatori. Ad esempio, in Francia, fu il ministro dell’educazione nazionale Edgar Faure, che con un decreto del 9 ottobre 1968 soppresse il latino nella prima classe delle scuole medie superiori, riformate in base al famoso slogan delle “tre lingue”: la lingua materna, la matematica e una lingua viva. Finiva così in parodia l’ideale umanistico del Collegio Trilingue (greco, latino, ebraico), fondato da Erasmo a Lovanio nel 1517, che fu il modello del glorioso Collège de France. Paradossalmente, fu la demagogia del ministro di un governo conservatore a sentenziare che gli studi classici erano ormai “un freno per la democratizzazione” (F. Waquet).
In Inghilterra, con più pragmatismo e senza bisogno di contestazioni, il latino aveva già perso il proprio peso nella scuola, semplicemente per il venir meno dell’obbligo della sua conoscenza in vista dell’accesso alle più prestigiose università. L’abolizione avvenne a Cambridge già nel 1960, a Oxford nello stesso anno per gli studenti di scienze e nel 1978 per le altre facoltà. Privata della sua larga base scolastica, la stessa grande tradizione universitaria della filologia classica inglese ha finito poi per soccombere sotto i colpi di un’implacabile politica di risparmio, portata avanti in particolare dal governo Thatcher, che ha causato la progressiva riduzione del numero di cattedre di materie classiche nelle università britanniche. Gli eccessi di liberismo sono stati altrettanto nocivi per l’educazione classica quanto gli eccessi di comunismo, perché in fondo entrambe le ideologie condividono una medesima impostazione antiumanistica.
Anche in Italia, la crisi del latino è stata segnata da un lato dalla sua abolizione nella scuola media, e dall’altro dalla liberalizzazione dell’accesso all’Università. Nel complesso, si può affermare che il peso del latino nell’intero sistema educativo europeo, dalla scuola all’università, negli ultimi decenni si è ridotto in una misura mai verificatasi in passato. Se poi sia o no casuale il fatto che, negli stessi anni, si è aperta per l’Europa una delle peggiori crisi culturali ed economiche degli ultimi secoli, non sta a me giudicare. Certo, la coincidenza fa riflettere: personalmente, ho l’impressione che l’autodistruzione della cultura stia ormai innescando anche l’autodistruzione dell’economia, con il passaggio dai fondamentali del sano investimento alla speculazione più amorale, che produce ovviamente una serie di bolle devastanti e autodistruttive.
Passiamo infine ad esaminare, ancor più brevemente, un secondo settore, in cui il latino ha avuto per secoli un’importanza fondamentale: l’editoria scientifica. Ancora Fran?oise Waquet ci snocciola alcuni dati statistici piuttosto eloquenti. A Parigi, nel 1501, su un totale di 88 libri stampati, solo 8 erano in francese. Nel 1528, la proporzione di libri in latino era ancora di 269 contro 38, e bisogna attendere il 1575 perché il francese superi il 50 per cento. In Germania il processo fu meno lineare: ad un precoce arretramento del latino già nel Cinquecento, per effetto della Riforma, fece seguito un recupero nel secolo successivo: nel 1680, i libri tedeschi venduti alle fiere di Francoforte erano ancora in maggioranza latini, mentre nel 1770 la quota scese al 14 per cento. In Italia, per tutto il Cinquecento, la produzione di libri in latino si mantenne maggioritaria, e anche nel secolo successivo non scese al di sotto del 30 per cento; nel campo giuridico, poi, la percentuale di opere in latino si mantenne intorno all’80 per cento fino a tutto il XVIII secolo.
L’enorme mole di documenti conservati negli archivi di Stato europei dimostra inoltre, in maniera inconfutabile, che il latino rimase fino al Settecento la lingua ufficiale del diritto, dell’amministrazione e della diplomazia. Avvocati, addetti alle cancellerie, ambasciatori e diplomatici, dovevano possedere una buona conoscenza del latino, che era la lingua dei rapporti internazionali. Ad esempio, il poeta John Milton, allievo di St. Paul e di Cambridge, dovette soprattutto al suo talento di latinista la nomina, nel 1649, a “secretary for foreign tongues” del governo Cromwell: il suo compito consisteva infatti essenzialmente nella traduzione dall’inglese al latino e viceversa. Solo a partire dal Settecento, il francese si impose come lingua della diplomazia, ma ancora nel 1798 un ministro del re di Prussia sottolineava che “il latino è indispensabile non soltanto per via del diritto romano, ma anche a causa dei nuovi territori polacchi, in cui quasi tutta la nobiltà parla latino” […]. In molti territori europei oggetto di conquista da parte delle grandi potenze, parlare latino significava rifiutare la lingua degli invasori, e richiamarsi idealmente a un ideale politico sovranazionale.
Per quanto riguarda più propriamente il settore delle scienze, si possono cogliere dati altrettanto significativi. Una delle scienze più legate al latino fu senza dubbio la medicina: la tradizione dei medici umanisti si protrasse almeno fino a tutto il Seicento. Il latino nella medicina aveva inoltre il vantaggio di proteggere sia il medico sia il malato dalla brutalità di realtà sgradevoli, come ad esempio le malattie sessuali. Anche se, naturalmente, tale pratica poteva prestarsi anche all’abuso dei ciarlatani, come ci ricorda l’indimenticabile scena finale in latino maccheronico del Malato immaginario di Molière.
Nell’ambito della matematica e della fisica, il latino fu invece apprezzato soprattutto come lingua di comunicazione internazionale. Sappiamo ad esempio che la diffusione fuori dall’Italia del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo fu in larga misura dovuta alla traduzione latina del 1635. Newton tenne i suoi corsi a Cambridge e scrisse la maggior parte delle sue opere in latino, a cominciare dai celeberrimi Philosophiae naturalis principia matematica (Londra 1687). La sua biblioteca possedeva più libri in latino che in inglese e lo scienziato annotava in latino i propri libri, secondo una pratica comune tra gli eruditi del tempo […]. Ma anche nel Settecento, possiamo citare alcune pietre miliari nella storia della matematica come l’Ars coniectandi (Basilea 1713) di Jacob Bernoulli, l’Introductio in analysin infinito rum (Losanna 1748) e le Institutiones calculi differrentialis (Berlino 1755) di Leonhard Euler. Ancora all’inizio dell’Ottocento, Karl Friedrich Gauss continuava a pubblicare in latino le proprie opere, a cominciare dalle importanti Disquisitiones arithmeticae (Lipsia 1801).
Tra le scienze naturali, è noto che la botanica e la zoologia si basano, a partire dal Systema naturae di Linneo (Leida 1735), su una terminologia di classificazione interamente latina. Non a caso, nel 1789, il famoso naturalista britannico John Berkenhout poteva affermare: “quanti vogliono restare nell’ignoranza della lingua latina sono tagliati fuori dallo studio della botanica” […]. Inoltre, i simboli tuttora in uso per gli elementi della chimica, introdotti nell’Ottocento da Berzelius, sono basati anch’essi su nomi latini (e ancor oggi, i nuovi elementi continuano a ricevere nomi con la desinenza latina –ium: ad es. ruthefordium, bohrium, hassium, ecc.).
Più in generale, l’arricchimento delle lingue moderne per mezzo di termini tecnici di derivazione latina, sia come prestiti puri, sia a vari livelli di adattamento e integrazione fonetica, sia infine come neologismi formati per composizione a partire da basi lessicali greco-latine, è un fenomeno continuo, e le storie delle singole lingue moderne ne hanno messo in luce i diversi strati cronologici e i vari canali di trasmissione.
Riassumendo le vicende del latino dal Rinascimento ad oggi, potremmo dire che questa lingua è stata come un termometro in grado di misurare lo stato di salute dell’intera cultura europea. Il latino ha assunto grande rilievo nelle epoche in cui le società erano fortemente organizzate, possedevano valori condivisi e creavano autentico progresso, morale e materiale. Viceversa, il latino è entrato ciclicamente in crisi nelle epoche in cui le società stesse entravano in crisi, quando si verificavano rotture traumatiche e rivolgimenti dell’assetto politico, quando improvvisamente sembrava che tutto il passato fosse da condannare in blocco.
Mi pare perciò che oggi certe parole d’ordine delle vecchie e nuove ideologie siano ormai davvero consunte. Ad esempio, ancora qualche decennio fa, Antony Grafton e Lisa Jardine, in uno studio peraltro meritorio sull’umanesimo europeo, continuavano a ripetere, a proposito della persistenza fino ai giorni nostri di un ideale di educazione classica, il sospetto che si sia trattato in realtà di una “mistificazione dell’educazione liberale” […]. Al contrario, Fran?oise Waquet ha più recentemente contestato questa tesi, ed è giunta ad una conclusione opposta, senza dubbio più obiettiva: “Possiamo dire […] che il termine ‘mistificazione’, nel contesto, non risulta appropriato. Non si ebbe mai, nel mondo pedagogico, una volontà deliberata di mistificare nessuno, di ingannare, di deformare la realtà; si ebbe piuttosto una fiducia sincera, e largamente condivisa fuori dell’universo scolastico, nei poteri del latino e, con essi, in un certo numero di valori che gli vennero un po’ dappertutto riconosciuti” […]. Dei valori umanistici che oggi tornano ad essere riscoperti, e paradossalmente più negli Stati Uniti che in Europa, dove si procede invece, in ritardo, a ridurre gli spazi residui della grande tradizione classica, inseguendo il modello di una cultura basata sul pragmatismo e sulla tecnica, che sta dimostrando oggi tutti i suoi limiti”.

R. Oniga, Contro la post-religione, Fede & Cultura, Verona 2009

Pericolosità e stoltezza dello scienziato senza Fede: Ugo Cerletti, il “33” della Massoneria che inventò l’elettroshock

Come chiunque facilmente comprende, l’invenzione dell’elettroshock non è stata quel che si dice una benedizione per l’umanità. L’infernale marchingegno, messo a punto nel 1938 dallo psichiatra italiano Ugo Cerletti e dal suo aiutante Lucio Bini, ha torturato nel corso dei decenni centinaia di migliaia di pazienti, perlopiù inutilmente. Oggigiorno – almeno in Italia – l’impiego della “terapia elettroconvulsivante” è legale solo in caso di “episodi depressivi gravi con sintomi psicotici e rallentamento psicomotorio”, ma c’è chi preme per un utilizzo più massiccio. Anche se i medici non sembrano avere alcuna idea precisa del perché, pare che in qualche circoscritto caso-limite l’elettroshock “funzioni”, dia cioè luogo ad un certo miglioramento del quadro clinico generale.
Tutto questo, però, interesserà semmai agli scienziati. Quello che interessa a noi in questa sede è il curioso profilo intellettuale e umano del principale inventore dell’elettroshock, Ugo Cerletti: una figura per più versi emblematica della degenerazione scientista della medicina contemporanea. Ripercorrendone la biografia (1) potremo verificare in cosa consista, e a quali esiti conduca, l’abbandono di ogni sana prospettiva filosofica, morale e religiosa da parte della cosiddetta “scienza” moderna (2).

Tra la “religione della scienza” e un guazzabuglio di miti: formazione di uno scienziato triste

Cerletti nasce nel 1877 in un’agiata famiglia di Conegliano, in provincia di Treviso. Suo padre, Giovanni Battista, è un appassionato viticoltore ed enologo di ideali garibaldini. ? lui a favorire i contatti tra il giovane Ugo e il botanico Giuseppe Cuboni, che inizia il futuro psichiatra a quella positivistica “religione della scienza” in virtù della quale “il sapere scientifico viene inteso come strumento per l’emancipazione dell’umanità e il riscatto dalle miserie sociali”: la contrapposizione con i valori religiosi è ovviamente esplicita. La prospettiva che Cuboni inculca nell’affascinato allievo è laica e progressiva, senza peraltro disdegnare le suggestioni kantiane, schopenhaueriane e buddistiche in gran voga a quell’epoca presso i ceti più colti e secolarizzati.
Nel 1886 la famiglia Cerletti si trasferisce a Roma. Il ragazzo, di belle speranze, frequenta per un certo periodo un istituto di gesuiti, ricavando dall’esperienza un acceso anticlericalismo (3); dopo il liceo classico si iscrive a Medicina. L’approccio “religioso” alla scienza ereditato da Cuboni opera potentemente nell’animo giovanile di Ugo: la disciplina medica gli sembra rispondere al “bisogno spirituale” di seguire una strada che possa fungere da “norma di morale e di vita”. Sotto la guida di Giovanni Battista Grassi, docente di anatomia comparata, lo schivo e per nulla goliardico Cerletti si vota completamente all’allestimento di nuove strutture didattiche e ad un totalizzante lavoro intellettuale e di ricerca, occupazione che egli stesso paragona a “una vera tossicomania”. Nelle note manoscritte di quel periodo, però, giunge a scrivere: “Qualche volta, nei momenti di carenza del tossico, mi sento sbalordito, triste e molto solo”.
Di lì a poco, Cerletti fa il suo primo incontro con la psichiatria. Il giovane “scienziato umanista” è fermamente convinto dell’esistenza dell’anima (“è l’unica cosa di cui sono certo”), ma – digiuno com’è di una prospettiva filosofica rigorosa – ritiene altresì che essa debba risiedere nella materia, e che solo lo studio positivo del sistema nervoso possa riuscire a “stanarla”. A Roma diventa allievo degli psichiatri Mingazzini e Sciamanna; affina le sue conoscenze a Parigi con Dupré, a Monaco con Kr?pelin e Alzheimer e a Heidelberg con Nissl (4). Al momento della laurea, nel 1901, la formazione ricevuta è sulla carta la migliore possibile. Cerletti è più che consapevole delle proprie doti: sovente, nell’intero corso della sua carriera scientifica, i successi lo renderanno orgoglioso fin quasi all’arroganza, anche se le difficoltà riusciranno ancora più spesso ad abbatterlo e prostrarlo. Sarà lui stesso, lucidamente, a definirsi “bizzarro impasto di autosvalutazione ed orgoglio”. A livello di prospettive generali non abbandonerà mai le suggestioni schopenhaueriane e kantiane di Cuboni, ma saprà ecletticamente integrarle: ad esempio con l’evoluzionismo, il vitalismo, l’eugenetica e la psicanalisi, “scienza” quest’ultima di cui vagheggerà persino un’imposizione legale. Si interesserà per breve tempo anche di occultismo, risultando iscritto negli anni Quaranta alla neonata Società Italiana di Metapsichica, ma l’autentica appartenenza del “libero pensatore” Cerletti sarà ben più caratterizzante: si tratterà, ?a va sans dire, della Massoneria. Secondo una fonte autorevole, prima della morte avrà raggiunto il 33? grado nel Rito Scozzese (5).

Costruttore di bombe per avidità di denaro: l’etica di uno scienziato laico alla prova della Grande Guerra

Il primissimo Novecento vede Cerletti brillante ricercatore a Roma, sotto la direzione di Augusto Tamburini. Il novello psichiatra pubblica alcuni lavori e studia il cretinismo e il gozzo endemico per mezzo di ricerche sul campo, dove non sempre tutto fila liscio: in un’occasione viene preso a sassate da un intero paese e volto in precipitosa fuga. La competenza scientifica del giovane comincia però ad essere riconosciuta da alcuni degli specialisti più affermati.
Il 1915 segna una svolta: Ugo è un “fervido interventista” (6) e si arruola come volontario negli alpini. Nel corso della guerra partecipa alle operazioni militari come capitano di sanità, dando prova di grande attivismo e di un’inventiva persino esagerata in campo tecnico-tattico. Come molti altri scienziati presenti al fronte (un nome per tutti: Padre Agostino Gemelli), Cerletti ha modo di osservare con l’interesse del clinico le reazioni psicologiche scatenate nei soldati dalle dinamiche inumane della vita di trincea. Lo colpisce, in particolare, il logorio psichico che affligge i militari in occasione di combattimenti lunghi e ininterrotti, giungendo ad inibirne le reazioni vitali e a comprometterne quindi le prestazioni. ? in questo frangente che il nostro medico “si trasforma”. A partire dal 1916, Cerletti sarà completamente assorbito dalla progettazione di una speciale “spoletta a scoppio differito” (7): un ordigno di sua invenzione che, grazie alla caratteristica di esplodere a distanza di varie ore dal lancio, risulterebbe particolarmente adatto a generare nei combattenti “un’angoscia senza requie”, determinando “uno stato tale di esaurimento nervoso da rendere praticamente insostenibile una prolungata permanenza sulle posizioni”. L’invenzione, che suscita l’interesse degli alti comandi, è messa definitivamente a punto e prodotta su scala industriale solo negli ultimi mesi di guerra. Nel frattempo, Cerletti ha potuto sperimentare per la prima volta cosa significhi lavorare senza limitazione di mezzi e soprattutto di denaro: come lui stesso confesserà in seguito, al suo impegno di costruttore di bombe non rimane estraneo il desiderio di guadagno.
Gli aspetti più interessanti di questa vicenda risiedono però altrove. Scrive una biografa dello psichiatra veneto (i corsivi sono miei): “[il] gusto della ricerca […] agisce su di lui come una forza tanto potente da mettere a margine qualsiasi riflessione etica. Ancora una volta, come in passato, è il “fanatico” che viene in primo piano: la religione della scienza, prima che al bene dell’umanità, deve rispondere ad una sete di sapere tutta speciale. Assoluta“. E ancora: “Cerletti è posto di fronte alle zone d’ombra che la propria identità di scienziato porta con sé. Tocca con mano le impl
icazioni estreme dell’esercizio spregiudicato e ardito di una curiosità scientifica difficilmente addomesticabile dall’etica(8). Ecco dove sono finite le “norme di morale e di vita” che il tardo adolescente Cerletti si diceva certo di trovare nell’esercizio della medicina.

Sul carro del vincitore: Cerletti e il fascismo

Dopo la guerra, Ugo Cerletti si trasferisce a Milano per dirigere un istituto di ricerca e l’annesso manicomio. Si tratta per lui di un periodo fecondo di studi e di ricerche, che però si interrompe malamente dopo alcuni anni a causa dello scarso appoggio da parte delle autorità sanitarie locali. Nel 1924, a fascismo affermato, viene fondato l’ateneo “Benito Mussolini” di Bari. L’ormai esperto psichiatra vince il concorso per una cattedra, e a quarantasette anni diviene professore universitario.
Con il regime è un idillio. Il Duce è la “personalità d’eccezione” che saprà risollevare le sorti della scienza italiana: “L’uomo che oggi con lucida volontà e mano ferma guida le sorti dell’Italia è un felice germoglio del più genuino proletariato”; egli “non ha nulla a che vedere con le mezze figure dei politicanti” che l’hanno preceduto. Gli articoli di Cerletti sono ospitati sul mensile “Gerarchia”, rivista mensile nata nel 1922 per dare voce alla “rivoluzione fascista”. Lo scienziato ha così modo, ad esempio, di esporre le proprie convinzioni razziste e di criticare con argomenti “scientifici” l’idea della naturale uguaglianza fra gli uomini. Si dichiara però contrario alle idee eugenetiche molto discusse in quel periodo, sembrandogli che un’eventuale politica di miglioramento razziale possa configurarsi come una variante moderna dell’antica barbarie spartana.
Su una cosa Cerletti e il fascismo non s’intendono: la Chiesa cattolica. In un’ottica critica nei confronti dell’atteggiamento conciliante di Mussolini, Cerletti propugna politiche educative rigorosamente laiche, avversando con fermezza ogni possibile influenza religiosa nell’insegnamento. Le giovani intelligenze non devono assolutamente essere poste in contatto con la dottrina e la morale religiose, ma con le “verità” – abbiamo visto e vedremo quali – della scienza più aggiornata.
Naturalmente, nel 1943 Cerletti saluterà con favore la caduta di un regime “fatto di arbitrio e violenza e corruzione”. Un processo di graduale disillusione, forse. O forse uno dei tanti episodi di opportunismo di cui la classe intellettuale italiana seppe dare prova in quel frangente storico.

“Impassibili maschere di guardiani di pazzi”: l’invenzione dell’elettroshock

Nel frattempo, però, sarà avvenuto qualcosa che cambierà per sempre la biografia scientifica di Ugo Cerletti: nel 1938, a Roma, fa la sua prima comparsa l’elettroshock.
Nella psichiatria degli anni Trenta i trattamenti più in auge sono quelli detti “convulsivanti”, finalizzati cioè ad innescare nel paziente un attacco epilettico “terapeutico”: lo shock insulinico di Sakel e lo shock cardiazolico di Meduna. Si tratta, quanto a metodologia e dolorosità, di vere e proprie tecniche di tortura che non starò a descrivere. Cerletti è promotore entusiasta di entrambi i metodi, ma si mette alla ricerca di un procedimento che riesca a indurre l’attacco in modo meno dispendioso dal punto di vista economico. Già negli anni trascorsi all’Università di Genova (città in cui si è trasferito nel 1928) lo psichiatra trevigiano aveva tentato ad altro riguardo qualche esperimento con l’elettricità, sortendo l’unico effetto di ammazzare alcuni dei cani adoperati come cavie. Ma è all’Università di Roma, a partire dal 1935, che i progetti di Cerletti acquistano definitiva concretezza.
Alla notizia dell’incarico, da lui conferito all’assistente Lucio Bini, di svolgere ricerche in vista di un possibile “shock elettrico”, la comunità scientifica non dimostra alcun entusiasmo: l’evocazione della sedia elettrica è troppo semplice e immediata. Ma un avvenimento inaspettato e casuale incoraggia Cerletti a perseverare nella direzione intrapresa: gli giunge all’orecchio, infatti, la notizia che al mattatoio comunale di Roma i maiali vengono abbattuti tramite l’uso di una comunissima corrente alternata, la stessa usata per l’illuminazione. Incuriosito, il Nostro chiede e ottiene di poter assistere all’esecuzione dei suini. “Quello che vedrà – scrive la solita biografa – cambierà il corso della storia; della sua storia personale, della storia di migliaia di pazienti, della storia dell’intera disciplina psichiatrica”.
“Contrariamente alle aspettative, scopre infatti che i maiali non vengono abbattuti con la corrente, ma solo storditi, tramite l’impiego di un circuito che applica la scarica direttamente al cranio. Dopo la scossa, cadono a terra, in preda ad una vera e propria crisi epilettica. ? allora che il macellaio interviene a sgozzarli”.
Tra “illuminazioni”, “colpi di fulmine” e “dinamiche ad alta tensione”, i giochi di parole potrebbero a questo punto sprecarsi. Secondo la biografa, è dopo aver assistito all’esecuzione dei maiali che “una lampadina si accende nella testa di Cerletti”. Già: peccato che, nei decenni successivi, qualcosa di simile a una grossissima lampadina sia destinata ad accendersi anche nella testa di migliaia di malati.
Il vecchio “fanatico della scienza” si mette subito al lavoro. Tramite una serie di esperimenti svolti proprio nel mattatoio, appura che la limitazione del circuito al cranio impedisce la diffusione della corrente elettrica al corpo nella sua interezza e in particolare al cuore, evitando sistematicamente la morte degli animali. Bisogna verificare se la stessa cosa avvenga anche nell’uomo: in tal caso, l’attacco epilettico “terapeutico” potrebbe essere raggiunto in modo molto più economico rispetto ai metodi di Sakel e di Meduna. L’alacre Lucio Bini mette a punto in breve tempo un rudimentale prototipo di “apparecchio per l’elettroshock”. Ora si tratta solo di trovare il coraggio di sperimentare la scarica su un essere umano.
I primi test hanno luogo a Roma nell’aprile del 1938. Inizialmente tesissimi, Bini e Cerletti constatano con un senso di liberazione che, effettivamente, l’elettroshock non comporta conseguenze letali per i pazienti, scelti tra gli schizofrenici in cura.
La nuova “scoperta” fa il giro del mondo. Lo scetticismo della comunità scientifica si converte in un coro osannante di elogi all’indirizzo del “luminare” Cerletti, che per poco non otterrà, a cavallo del 1950, il premio Nobel per la Medicina. Anzi, è proprio per raggiungere l’ambitissimo traguardo del Nobel che Cerletti stesso e tutta la sua equipe propaleranno a lungo una versione falsata e mitizzata della cronistoria dell’invenzione: mentitori per gloria, o solo per i soldi? Ad ogni modo, l’elettroshock si diffonde a tal punto da divenire l’emblema stesso di quella “istituzione totale” che gli antipsichiatri riconosceranno, non senza qualche ragione, nel manicomio moderno (9). Ecco cosa scrive una paziente a Lucio Bini dopo un trattamento:

Ora, tra me e il prof. Cerletti, tra me e voi, c’è un grosso muro fatto di dolori: di inibizioni senza costrutto, di pudore offeso, di inspiegabili ripulse, di stanchezza immane, di grossolane commedie, di assurde indifferenze.
Con le vostre impassibili maschere di guardiani di pazzi avete spezzato ogni mio slancio, impedito ogni mio abbandono respingendomi spesso sul terreno molle e insidioso della follia. Adesso la sua condotta e la vostra mi appaiono assurde e inumane – e inesplicabili.

Dopo il 1938, comunque, la vita da scienziato di Cerletti è quella della superstar, tra onorificenze e inviti per convegni e prolusioni in ogni angolo del pianeta. Non mi ci dilungherò sopra: mi limito a richiamare un particolare abbastanza
grottesco e, visto a distanza, anche piuttosto divertente. Ritenendo (senza alcuna prova osservativa diretta) che l’elettroshock stimoli nel cervello la produzione di fantomatiche sostanze benefiche da lui battezzate “acroagonine”, Cerletti predispone una terapia tutta speciale: dopo aver sottoposto a shock alcuni maiali, ne estrae il cervello e ne fa un bel cocktail; inietta infine la brodaglia così ottenuta – ricchissima, naturalmente, di acroagonine – direttamente nei pazienti, aspettandosi un’efficacia tale da rendere superfluo il ricorso in prima persona all’elettroshock. La cavia su cui la nuova procedura viene inizialmente testata è Ugo Cerletti stesso: a seguito dell’iniezione si placano infatti, a suo dire, l’ansia e l’insonnia di cui soffre abitualmente…

Riciclato a sinistra: Cerletti e la politica nel secondo dopoguerra

Alle epocali elezioni politiche del 1948, l’ex fascista Cerletti si candida come indipendente nel Fronte popolare, la coalizione delle forze democratiche e di sinistra. Una contraddizione? Lui assicura di no. D’altra parte, tra il fascista del Ventennio e il “liberale di sinistra” del dopoguerra un minimo comun denominatore esiste: la fissazione anticlericale del frammassone d’alto bordo. Già nel ’46, in occasione delle comunali di Roma, lo scienziato veneto era stato eletto consigliere dopo aver conquistato i voti della “borghesia illuminata e democratica” grazie a volantini di questo tenore: Avanti popolo i cuori saldi / il nostro simbolo è Garibaldi / il Campidoglio sarà romano / non sagrestia del Vaticano / non vogliam ladri ad amministrar / non vogliam principi a governar / non vogliam chierici né pescecan / ma vogliam uomini repubblican.
Nel ’48, dunque, il principale bersaglio polemico di Cerletti è non solo e non tanto la Democrazia Cristiana, quanto piuttosto la Chiesa cattolica stessa. Quella stessa Chiesa a cui il laicissimo psichiatra si era affrettato a rivolgersi, solo quattro anni prima, perché salvasse la vita allo scienziato Ottorino Balduzzi, imprigionato dai tedeschi. Ma quel che è stato è stato: dopo il totalitarismo nazifascista è giunto ora il momento di sgominare il totalitarismo del confessionale. In vista di un comizio, Cerletti stende questo appunto:

Stiamo appena uscendo dalla dittatura fascista: vogliamo di nuovo sprofondare in un assolutismo di marca vaticana? Vogliamo passare dalle mani del duce a quelle del papa, di cui la DC è una naturale estensione?

Certo che no, si risponde. Ai “principi dettati del catechismo” vanno dunque sostituiti gli ideali “di solidarietà umana e di civil convivenza”, di giustizia sociale, di “rispetto dei diritti altrui” e di azione “a favore dei diseredati”. Tutti valori, secondo lo scienziato prestato alla politica, che affondano le loro radici nell’epopea risorgimentale (10). ? giunta anche l’ora, sostiene, di rivendicare con fermezza e rigore l’essenza “laica” dell’autentico messaggio cristiano.
Il programma politico di Cerletti (che al termine della consultazione non risulterà eletto) si concentra su due grandi temi: la sanità e l’istruzione. Quest’ultima in particolare: in vista del progresso culturale, civile, morale della nazione italiana è essenziale comprendere che l’istituzione famigliare è assolutamente insufficiente. Lo Stato deve accollarsi il più possibile ogni funzione educativa e formativa, e questo fin da subito, a partire cioè dalle elementari. In perfetta linea con il “pedagogismo” illuminato di matrice massonica, Cerletti vede proprio nei maestri i necessari protagonisti dell’auspicato cambiamento: vere e proprie “forze vive della democrazia”.

Conclusione

Non vale la pena di occuparsi oltre dell’itinerario biografico del nostro protagonista, che muore a Roma il 25 luglio 1963. Tirando le somme, credo possa risaltare con chiarezza la pericolosità potenziale di una figura di ricercatore simile a quella incarnata da Cerletti. Ciò che mi preme sottolineare, infatti, al di là della pur eccezionale rilevanza storica della vicenda individuale in quanto tale, è il fatto che con Ugo Cerletti non ci troviamo di fronte a un isolato caso-limite, ma ad un rappresentante paradigmatico dello scientismo contemporaneo.
Oso sostenere, insomma, che non ci sia nulla di più nocivo, né di più stolido, di uno scienziato laico. Investito dalla società contemporanea di un’autorità quasi sacerdotale, oggetto di cieca e superstiziosa credulità da parte delle masse, lo scienziato contemporaneo opera in una sorta di “zona franca” dell’etica, dove non vige alcuna norma che non sia il parto opinabile della propria coscienza e dei propri pregiudizi, o il frutto convenzionale degli indirizzi prevalenti nella comunità degli specialisti. A tale vuoto etico fa da pendant, in molti campi, una capacità tecnico-applicativa praticamente illimitata; ed è su questo binomio che vanno ad innestarsi alcune tendenze peccaminose proprie allo scienziato come a qualsiasi altro uomo: orgoglio, vano desiderio di conoscere, volontà di potenza, brama di denaro e anche, spesso, un’ignorante e cocciuta dabbenaggine.
La situazione attuale in molti settori della scienza ci offre conferma di quanto la Chiesa, Mater et Magistra, ripete da gran tempo ai suoi figli: la pratica scientifica non va mai disgiunta dalla morale naturale e dalla Rivelazione biblica; vero scienziato è colui che rispetta nelle realtà materiali le vestigia di un Dio trascendente, riconoscendo la necessità di un ordine morale oggettivo e vincolante e di un’autorità magisteriale che infallibilmente lo tuteli anche rispetto alle applicazioni tecniche. L’uomo, in particolare, deve essere sempre oggetto di assoluta venerazione e tutela.
Se la comunità scientifica non si affretterà a riconoscere queste verità, molte altre ridicole aberrazioni camuffate da “scienza” avranno libero corso nel mondo, causando ingenti danni e rovine.

(1) La gran parte dei dati biografici da me esposti e tutti i virgolettati riportati nel testo sono tratti, salvo diversa indicazione, da Roberta PASSIONE, Ugo Cerletti. Il romanzo dell’elettroshock, Aliberti, Reggio Emilia 2007. Si tratta di un volume pregevolissimo a livello di documentazione storica, ma totalmente acritico e a tratti persino agiografico nei confronti dello scienziato veneto. Per un ritratto più ficcante e polemico di Cerletti cfr. Hans Magnus ENZENSBERGER, Gli elisir della scienza, Einaudi, Torino 2004, pp. 178 ss.
(2) “La” scienza, infatti, non è che un mito, assunto come reale dall’attuale cultura (alta e bassa) per purissima superstizione. Lo mostra in primo luogo una conoscenza anche superficiale della storia delle innovazioni scientifiche teoriche e pratiche. L’insieme dei paradigmi speculativi e delle prospettive concrete che vengono ricondotte – per conformismo intellettuale e praticità di linguaggio – al termine generale “scienza” si presentano in realtà, il più delle volte, come assolutamente irriducibili tra loro dal punto di vista epistemologico, e questo tanto in prospettiva diacronica (si tengano presenti, tra gli altri aspetti, gli innumerevoli “binari morti” della scienza moderna) che sincronica. Non “la” scienza, dunque e come minimo, ma “le” scienze. In secondo luogo, il termine “scienza” (conoscenza, sapere) implica in se stesso la squalifica di ogni “altra” legittima modalità conoscitiva umana, svalutata in partenza come “non scientifica” e dunque come “non (autentico) sapere”. La degenerazione scientista della scienza contemporanea è contenuta in nuce nella scelta di declinare al singolare e con accezione escludente il termine “scien
za”. Risalta per contrasto, in questa prospettiva, l’infinita saggezza delle scuole tardo-medievali, inflessibili nel perseguire un’istanza conoscitiva unitaria pur nel tentativo di delineare le necessarie distinzioni metodologiche.
(3) Cfr. Arnaldo NOVELLETTO, voce “Cerletti, Ugo”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23 (Cavallucci-Cerrettesi), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1979, pp. 759-763: p. 760.
(4) Per una sintesi cfr. voce “Ugo Cerletti”, in Wikipedia, l’enciclopedia libera (http://it.wikipedia.org).
(5) Cfr. NOVELLETTO, cit., p. 763.
(6) Ivi, p. 761. L’interventismo di Cerletti non stupisce: moltissimi intellettuali di mentalità laica furono a quell’epoca nazionalisti e fautori dell’intervento bellico, quasi a compensare con l’ideale di Patria e con la fantasticata ebbrezza della violenza un abissale vuoto religioso ed esistenziale. La gran parte di loro finirà ammazzata, mutilata o consumata dall’apatia e dalle nevrosi della vita di trincea, in un sordido proliferare di giornaletti pornografici.
(7) Per una descrizione tecnica e una rappresentazione grafica dell’ordigno, che finirà per non essere mai concretamente usato in combattimento, cfr. http://www.ilmio.net/artiglieria/MAI/Volume%20I/Index.html (cliccare su “Spoletta a scoppio differito Cerletti”).
(8) Cfr. PASSIONE, op. cit., pp. 39-40.
(9) Si tenga però presente che la cosiddetta antipsichiatria (i cui esponenti più noti sono Laing, Szasz, il “nostro” Basaglia eccetera) rappresenta una reazione ideologica sul piano teorico e catastrofica sul piano pratico a una serie di problematiche reali. Mi rammarico di non potermi qui dilungare sulle autentiche follie, i cui effetti anche legislativi si patiscono tutt’oggi, propugnate negli anni Sessanta e Settanta da tale corrente.
(10) E valori che, come impietosamente sottolineò Veneziani in un libro di qualche anno fa, hanno accomunato fin dall’Ottocento, in Italia, i più importanti scienziati e intellettuali razzisti e atavisti, da Cesare Lombroso a Enrico Ferri, da Alfredo Niceforo a Giuseppe Sergi: tutti, guardacaso, laici, positivisti e di tendenze politiche socialisteggianti. Cfr. Marcello VENEZIANI, La cultura della destra, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 43-44.

Le idee fondamentali della metafisica cristiana (schema riassuntivo)

Ne Le idee fondamentali della metafisica cristiana, un libretto pubblicato dalle Éditions du Seuil nel 1962 e tradotto in italiano l’anno successivo da Morcelliana (1), il filosofo e teologo Claude Tresmontant (1925-1997) riassume con grande chiarezza e rigore la struttura d’insieme di quella che senza timidezze definisce la filosofia cristiana.
Che una filosofia cristiana effettivamente esista è un annoso argomento di discussione. Alcuni filosofi, come ad esempio Émile Bréhier (1876-1952), lo hanno recisamente negato. Il merito di Tresmontant consiste nell’aver compendiato in maniera icastica quelli che al contrario si presentano come veri e propri contenuti speculativi assolutamente propri al sistema cristiano-cattolico, tali cioè da distinguerlo non solo dalle metafisiche e dalle cosmologie egiziane, orientali, gnostiche, manichee, o ancora cartesiana, spinoziana, kantiana, hegeliana, eccetera, ma anche da molte delle più caratteristiche concezioni filosofiche della Grecia antica (2).
I contenuti filosofici del cristianesimo danno sagoma, secondo Tresmontant, ad un insieme ben definito e coerente, sviluppatosi con continuità nei secoli e ravvisabile non solo nelle concezioni dei singoli Padri o Dottori ortodossi, ma addirittura nel corpus delle definizioni dogmatiche e degli anatemismi dei Concili ecumenici della Chiesa universale.
L’insieme di queste tesi costituisce dunque il minimo comune denominatore di ogni specifica dottrina filosofica che voglia dirsi cattolica.
Di seguito elenco e schematizzo ad uso del lettore gli assunti fondamentali della metafisica cristiana identificati da Tresmontant. Due avvertenze: (a) dal momento che l’insieme delle proposizioni è diviso in aree tematiche, si potranno verificare alcune ripetizioni nel caso di quelle verità che riguardano più di un tema; (b) in alcuni casi porrò tra parentesi quadre alcune verità teologiche, al solo scopo però di chiarire meglio le filosofiche.

1. Dottrina dell’Assoluto

– esiste un unico Assoluto
– l’Assoluto non è il mondo, il mondo non è l’Assoluto
– l’Assoluto è in rapporto di libertà assoluta rispetto al mondo

2. Dottrina della creazione

– la creazione è opera di un Dio unico, non di un demiurgo
– non vi è fabbricazione (perché non esiste una materia informe preesistente), ma creazione ex nihilo
– la creazione è un atto libero e non necessario di Dio (→ Dio non crea per realizzarsi, per compiersi o per inverarsi)
– la creazione è un atto di carità di Dio
– la creazione non è consustanziale a Dio (→ non vi è emanazione né processione né generazione)
– la creazione, in quanto atto e in quanto totalità delle cose create, è buona (→ non esiste un male sostanziale)
– la creazione è contingente e mutabile, segno della sua dipendenza ontologica dall’Assoluto creante
– la creazione manifesta la gloria di Dio, a cui è finalizzata
– la creazione ha un inizio (nel tempo)

3. Sistema del mondo (cosmologia)

– il mondo è «fragile», privo di una consistenza propria
– il mondo è «cosmo», cioè ordine governato da leggi
– la realtà sopralunare non è essenzialmente differente dalla realtà sublunare; è anch’essa creata (→ materiale, non divina) e peritura e obbedisce alle leggi fisiche comuni all’intero universo
– il mondo ha un inizio e una fine
– il tempo è lineare (non ciclico), essendo il mondo orientato teleologicamente ad un compimento perfettivo e trasfigurante

4. L’antropologia

– l’essere umano, ente creato, non preesiste in alcun modo alla propria venuta al mondo, né per l’anima né per il corpo (no metempsicosi)
– l’anima umana è creatura, cioè non è frammento, particella o modalità della sostanza divina
– l’anima umana è spirituale, immortale, dotata di intelligenza e volontà
– l’anima è originariamente creata in una condizione corporea
– il corpo è una realtà naturale buona in sé e nelle sue operazioni
– il peccato non pertiene solo al corpo, ma all’uomo intero
– il sinolo di anima e corpo, che dà luogo alla sostanza umana, è maggiore in perfezione della sola anima separata dal corpo
– l’anima è forma del corpo, e ciò in se stessa e senza intermediari
– l’anima è individuale e separata dalle altre anime (no Intelletto unico universale)
– ogni nuova anima è creata con atto diretto di Dio, a differenza del corpo che è creato da Dio attraverso le cause seconde
– l’uomo non ha, ma è il proprio corpo

5. La natura umana

– la natura umana è grande in valore e dignità; il suo destino e fine è la divinizzazione
– l’uomo è capax Dei, cioè preadattato al suo fine soprannaturale (anche se incapace naturalmente di attingerlo)
– la corporeità e le sue operazioni, tra cui la sessualità, sono qualcosa di buono e positivo nel proprio ordine (→ il matrimonio e la generazione sono santi [e il peccato originale non ha nulla a che fare con la sessualità], anche se la sessualità rischia di essere uno dei luoghi privilegiati del peccato)
– l’ascesi è necessaria solo a causa del peccato [secondo San Tommaso d’Aquino, la continenza non sarebbe stata affatto lodevole nello stato di innocenza]
– l’uomo è ragionevole e dotato di volontà, e dunque libero e responsabile dei suoi atti; ha quindi il dovere di cooperare alla propria divinizzazione, di cui non è oggetto passivo [a ciò nulla toglie la priorità e la necessità assoluta della Grazia]
– l’uomo è per natura destinato alla felicità; non è infelice per costituzione ma per colpa

6. Il destino soprannaturale dell’uomo

– il fine dell’uomo è l’unione soprannaturale con Dio, unione d’amore in cui si realizza la piena unità di tutto
– l’anima non è divina naturalmente, ma è chiamata a divenirlo al termine di un processo [in cui interviene la Grazia]
– l’uomo ha un desiderio naturale ma inefficace di vedere Dio
– la relazione d’amore tra Dio e l’uomo è personale e libera

7. La dottrina della conoscenza (il cristianesimo e la ragione)

– la creazione manifesta il pensiero (logos) di Dio
– la ragione umana è proporzionata ad indagare il logos divino nelle sue vestigia naturali: essa è (in linea di principio, anche se non sempre di fatto) capace di elevarsi naturalmente a partire dalla creazione fino alla conoscenza di Dio nella Sua esistenza e in alcune delle Sue caratteristiche
– la ragione è dunque eccellente nel suo ordine, ma non è la misura di tutto (no razionalismo) perché non si identifica con la ragione divina, essendo limitata e incapace di intuizione immediata
– la fede è fondata razionalmente (è rationabile obsequium), anche se Dio e la stessa Rivelazione eccedono enormemente le capacità della ragione
– vi sono dunque due fonti di conoscenza: la creazione (rivelazione naturale → esperienza più ragionamento = ragione) e la Rivelazione (→ fede)
– dalla natura delle cose e dalla natura umana è razionalmente deducibi
le la legge morale naturale oggettiva e universalmente vincolante

Concludo avvertendo che, prescindendo dai miei limiti di sunteggiatore, lo stesso Tresmontant non ha preteso di fornire con la sua operetta un elenco necessariamente completo delle idee metafisiche del cristianesimo. Molto altro, rimanendo sempre sul piano filosofico, si potrebbe affermare come proprio della filosofia cristiana. Personalmente ho trovato comunque molto utile il lavoro svolto dallo studioso francese, e spero sia questa l’impressione anche di chi è giunto fin qui con la lettura.

(1) C. TRESMONTANT, Les idées maîtresses de la métaphysique chrétienne – Esquisse, Éditions du Seuil, Paris 1962 (Le idee fondamentali della metafisica cristiana, trad. it. di Paolo Inghilesi, Morcelliana, Brescia 1963).
(2) Tresmontant, infatti, ridimensiona l’opinione diffusa per cui il cristianesimo avrebbe assunto la quasi totalità delle proprie categorie metafisiche e concettuali dalla preesistente filosofia greca: «il pensiero cristiano», al contrario, «ha respinto le tesi più originali e più costanti della filosofia greca» (trad. it. cit., p. 13). Accanto alla ricezione del pensiero ellenico – ricezione che fu in realtà estremamente critica e selettiva – l’autore francese valorizza il patrimonio di verità metafisiche presenti nell’Antico Testamento allo stadio pre-filosofico ed in seguito esplicitate, fatte proprie e sviluppate dal pensiero cristiano.

Media cattolici e media anticattolici. Intervista al massmediologo Francesco Spada

“Un giornalista cattolico che avesse tra le mani un certo fatto di cronaca dovrebbe chiedersi: Quale pezzo stenderebbe Gesù? Come lo tratterebbe Gesù questo fatto?”. Il giornalismo come vera e propria vocazione del cristiano nel mondo contemporaneo: è la visione propugnata dal bolognese Francesco Spada [che è stato ospite sabato al Meeting del Movimento per la Vita], a sua volta operante in un gruppo televisivo locale e apprezzato conferenziere. Libertà e Persona lo ha incontrato per i lettori.

Dottor Spada, Don Giacomo Alberione sosteneva che se San Paolo fosse nato nel Ventesimo secolo avrebbe svolto la professione di giornalista…

Infatti. Che piaccia o no, che sia giusto o no, oggi i mezzi di comunicazione di massa sono in qualunque Paese la principale fonte di cultura. Essi formano, o deformano, le coscienze dei nostri giovani, ma anche dei nostri adulti e dei nostri anziani. Sembrerà cinico, ma chi non detiene i mezzi di comunicazione oggi non conta nulla. ? assolutamente decisivo che i cristiani agiscano di conseguenza. Occorre scoprire, o riscoprire, una dimensione di autentica militanza ecclesiale all’interno dei grandi organi di comunicazione di massa.

Il mondo dell’informazione, non solo in Italia, è però dominato da gruppi dichiaratamente “laici”: che quindi, sulla carta, rivendicano l’assenza di una visione del mondo globale. Mass-media che si vorrebbero il più possibile neutrali, “imparziali”. Eppure è ben ravvisabile in essi una sorta di filosofia implicita, dotata di precise coordinate a livello di valori e antropologia di riferimento. Qual è, se esiste, la Weltanschauung comune ai media laici?

Le parole “media” e “imparzialità” non vanno assolutamente d’accordo. Un mezzo di comunicazione oggi non è uno strumento neutro, ma un’arma potentissima utilizzata dagli editori (coadiuvati da altre figure, dagli autori in giù, ognuna portatrice di una determinata soggettività, di una formazione, di obbiettivi…) per veicolare ben precisi contenuti. Ed è giusto così: certo, poi tutto dipende appunto dal contenuto, dal messaggio. Il problema è che l’idea di chi sta dietro ai grandi media “laici” è molto chiara: per governare le coscienze delle persone, ottenendo su di loro un potere molto forte, è necessario abbattere tutti quelli che sono i riferimenti, tutto ciò che può rendere le persone libere e responsabili: la famiglia, il mondo scolastico libero (quello che sorge dalla società civile), i valori morali e religiosi… Se ad esempio si agisce nella sfera dell’amore e del sentimento dequalificando il matrimonio, come ogni altro legame stabile e duraturo, i singoli diventano delle banderuole in balia di tutte le correnti, vittime di una sostanziale solitudine esistenziale. A questo punto diventano manipolabili a piacimento dai “padroni del vapore”: ecco l’obbiettivo. Si cerca di smontare tutti i riferimenti certi, perché il telespettatore o l’ascoltatore veda in te, Grande Comunicatore, l’unica guida. Da qui il ruolo e l’appeal quasi da guru di tutti i falsi maestri, opinionisti, divi, presentatori televisivi… La gente guarda la TV nei momenti di svago, senza rendersi conto del fatto che serata dopo serata assorbe messaggi impliciti e ben calibrati che vanno tutti nella medesima direzione.

Alla base di tutto ciò sono presenti e attive le scorie tossiche delle ideologie che si sono susseguite negli ultimi secoli, e il cui fallimento ha generato il dominio dell’utile, la ricerca del puro potere…

Coloro che nel mondo sono installati nei posti chiave dell’informazione sono in stragrande maggioranza formati a una cultura di tipo illuminista o marxista, ultimamente nichilista. Una cultura che certamente non mette al primo posto la persona, perché vede nell’uomo un numero, una merce, un pezzo di materia, un valore economico, una scimmia un po’ più evoluta, eccetera. Chiunque abbia a cuore la persona vuole fornire alla gente gli strumenti necessari per diventare libera e responsabile, per decidere autonomamente e con la propria testa. Perchè la Chiesa viene tanto attaccata? Proprio perchè svolge quest’opera formativa, costruttiva. La Chiesa non viene attaccata tanto per motivi direttamente religiosi, ma perché oggi è rimasta l’unica istituzione, l’unica grande agenzia educativa che spinge l’uomo a porsi le domande importanti, a cercare un senso per la vita che vada oltre l’effimero, il contingente. Da dove vieni? Vieni dal nulla? Se non vieni dal nulla, significa che c’è Qualcuno più grande di te che ti ha pensato, e se ti ha pensato significa che hai un senso, uno scopo, dunque anche un compito. Così l’uomo comprende di essere persona, di avere una libertà, e di doversi assumere di conseguenza anche una responsabilità. Ai grandi magnati della finanza e della comunicazione non dà fastidio una Chiesa che esecra la guerra o la fame nel mondo (sacrosanta esecrazione, peraltro), ma una Chiesa che richiama l’uomo alla sua responsabilità, in definitiva alla sua dignità. Mentre costoro vorrebbero ridurlo a un burattino nelle loro mani, vorrebbero condizionarlo in tutto, dal cosa comprare al come vivere al cosa pensare. La Chiesa vuole forgiare uomini liberi, mentre la logica dei grandi media porta all’esatto contrario.

L’obbiettivo dei grandi finanziatori dell’industria dei media non è dunque il guadagno…

Certo che no. L’obbiettivo non è quello di fare i soldi. Tutti i grandi quotidiani, tutti i grandi networks televisivi lavorano in perdita, in deficit, chi più chi meno. Una semplice occhiata ai bilanci lo dimostrerebbe. Se noti, infatti, di solito si sente parlare di “aumento di fatturato”, quasi mai di “aumento di utile”. Ci sono, è vero, quotidiani “in utile”, ma in utile solo grazie ai contributi a fondo perduto dello Stato… Oppure in attivo in una data annata, ma in perdita sul lungo periodo. Bisogna tenere ben presente che chi investe nei media parte già mettendo in conto una perdita economica di qualche entità. Dunque l’obbiettivo non è affatto il guadagno, ma il potere: il potere di condizionamento che si acquisisce sulle persone. Un potere che è enorme. Io, grande imprenditore dei media, posso dettare la moda, formare le coscienze, fare la cultura. Chiaro che poi, con la pubblicità, inviterò la gente anche ad orientarsi verso l’acquisto di determinati prodotti, ma questo è nulla rispetto alla capacità più ampia di condizionarla in tutti i campi, scientificamente.

Mi sovviene, ascoltandola, un motto latino ben noto agli studiosi di cose massoniche: “solve et coagula“. Tradotto: strappa le persone dai legami forti, dalle convinzioni salde e definitive (il sociologo Bauman parla della nostra come di una società “liquida”), e allora potrai reindirizzarle, riamalgamarle a tuo piacimento secondo le forme desiderate… La domanda che sorge naturale è questa: c’è un piano preordinato e globale dietro a tutto ciò? Che peso ha, per l’appunto, l’azione massonica all’interno mass-media?

Guarda, sinceramente non ti so rispondere. Ci sono certamente alcuni dati su cui riflettere… ? un fatto, ad esempio, che il 90% dei produttori cinematografici siano ebrei. Il 90% dei kolossals cinematografici prodotti nel mondo sono prodotti da ebrei… Senza fare troppi nomi o troppi titoli, è ovvio che ci si domandi: in che misura la produzione, cioè “chi paga”, influisce sul prodotto finito, sia esso un film, un documentario, un serial televisivo? In campo italiano, prendiamo il caso della Lux Vide, casa di produzione nata dall’esperienza di un grande direttore RAI come Bernabei. Produzioni anche molto grosse, come Jesus o Paolo, sono state realizzate con fondi di grandi magnati internazionali, tutti ebrei. ? naturale, e del resto assolutamente legittimo, che questi abbiano in qualche misura esercitato un potere di condizionamento sui contenuti delle produzioni, sui copioni eccetera. Ci inoltriamo però in un discorso delicato. La Massoneria? Non serve addentrarsi in particolari per rimarcare il fatto che da tre secoli essa esiste ed agisce nella ben nota direzione, che certo non collima con i valori cristiani… I media sono per chiunque il mezzo privilegiato per dispiegare un’opera di influenza sulle masse, positiva o negativa che essa sia.

Si ha a volte l’impressione che, a livello mediatico, il pensiero cristiano non riesca ad emergere, che non ci sia una risposta altrettanto forte dei credenti all’offensiva culturale laicista. Perché? C’è forse un’incompatibilità strutturale tra i mezzi di comunicazione di massa e un messaggio di tipo religioso, cattolico?

Paolo VI disse una volta che se la Chiesa non avesse deciso di investire in modo deciso sui mezzi di comunicazione sociale sarebbe stata “colpevole di fronte al suo Signore”. Il mondo cattolico ha scontato finora alcune ben precise problematiche. La prima è un grave ritardo: nel momento in cui si sarebbe dovuta finalmente realizzare la televisione in grande, ci si è lasciati bruciare sul tempo da Berlusconi e dai suoi nani e ballerine. Sulla piazza, oltre alla RAI, c’era solo lui. E non è necessario rimarcare il fatto che, sul piano culturale e morale, la TV-spazzatura di Mediaset ha avuto ed ha effetti disastrosi. La Chiesa, in senso lato, ha dunque mancato questo appuntamento, forse il primo per importanza. L’appuntamento della carta stampata ha invece goduto di un tempismo leggermente migliore, con il quotidiano della CEI Avvenire. Resta però, anche qui, un problema: quando un mezzo di comunicazione come Avvenire viene presentato come l’organo più o meno ufficiale della Chiesa italiana, scattano dei meccanismi che ne limitano l’efficacia. ? come se ciò che viene detto su Avvenire divenisse scontato. Bisogna scegliere: o si realizza il classico house-organ, che esternamente rischia di apparire come una sorta di bollettino parrocchiale in grande, o si sceglie di competere sullo stesso piano dei grandi organi di stampa laici, di massa, alla pari con loro. C’è poi un aspetto che non va sottovalutato: l’entità dell’impegno economico richiesto dal settore dell’informazione, specialmente dal mezzo televisivo. Vedasi l’esperienza che la CEI ha voluto fare, di recente, con SAT2000, il canale satellitare: un’operazione che costa una follia, mentre è tutto da verificare quanto sia visto, in Italia, il satellite… Nel settore del satellitare, comunque, la Chiesa si è effettivamente inserita senza ritardi. Rimane il problema di cui parlavo con riferimento ad Avvenire: cosa propone SAT2000? Prodotti che possono competere con la normale offerta televisiva o prodotti da house-organ? Così come esiste, per dire, l’house-organ del Milan o della Juventus…

Come affrontare questo problema?

Sono convinto che la vera strada da percorrere sia quella della competizione alla pari, in un’ottica laica e persino commerciale, con i grandi media “generalisti”. Occorre immettere sul mercato nuovi media di questo tipo (o magari rilevarne di già esistenti) per poi svolgere in essi, dietro le quinte, un lavoro giornalistico, informativo, ricreativo che sia, certo, “cristianamente ispirato”, ma che non sia il lavoro scontato dell’house-organ. ? importante capire che si può usare la notizia, cioè il fatto di cronaca nudo e crudo, per veicolare un messaggio, “filtrando” la notizia attraverso la propria peculiare ottica… Un piccolo esempio, anche se negativo, è il seguente: avrai notato che sempre più spesso, in caso di incidente stradale, lo speaker fornisce, accanto al numero dei morti “umani”, un ragguaglio sulla sorte degli animali domestici eventualmente presenti nelle vetture. Forzando un po’: il conducente è morto, ma state tranquilli perché il cane è rimasto illeso… Si porta avanti così, in modo surrettizio, l’idea balzana della pari dignità di uomo e animale. E di esempi se ne possono fare mille altri: dobbiamo a questi impercettibili trucchetti dei media laici il fatto che oggi gli esperimenti sugli animali siano certamente più riprovati dalla pubblica opinione di una pratica come l’aborto. Un altro esempio: la terminologia tecnico-giuridica per designare le scuole libere, cioè non di proprietà dello Stato, è “scuola paritaria pubblica non statale”. Peccato che nel linguaggio giornalistico esse diventino sistematicamente scuole “private”…

“Private di tutto”, dice qualcuno…

Ecco, sarebbe più esatto! Comunque, il concetto è che con questi mezzucci anche linguistici si può condizionare in modo enorme la percezione che il grande pubblico riceve di una data realtà.

Per completare il discorso dei media “cristianamente ispirati”, ma che non siano degli house-organ

Ti faccio l’esempio del gruppo televisivo in cui lavoro, E-Tv, che oggi conta 150 dipendenti ed è attivo in Emilia-Romagna e nelle Marche anche con radio e quotidiani. La nostra realtà fa la sua gara (a livello locale, ma il discorso non cambia) sullo stesso terreno dei suoi competitors laici, cioè sul giornalismo, sulle inchieste, sull’intrattenimento: con alla base un orientamento che rimane cristiano. In questo modo si riesce a catturare ogni fascia di pubblico, senza preclusioni: e la nostra televisione, che è una televisione fatta da cattolici, con un messaggio cattolico, è giunta ad essere la prima realtà televisiva in regione, incontrastata. Per fare invece un esempio relativo alle radio, io credo che sia un bene che una Radio Maria esista: ma proprio perché già esiste (e funziona benissimo) non occorra farne altre. Occorre invece realizzare una radio che possa competere con le varie Radio DeeJay o Radio Capital, che vada sul “loro” terreno e realizzi una forma di intrattenimento e di informazione che, conservando un’ispirazione positiva, sia potenzialmente appetibile da tutti. La grande sfida oggi è questa.

Tra parentesi: Radio DeeJay e Radio Capital appartengono, con Radio m2o, al Gruppo L’Espresso. E non per caso…

C’è ovviamente una strategia ben precisa dietro. Queste tre radio vanno a colpire altrettante fasce di pubblico diverse: tre grandi targets, differenti per età e interessi. Radio DeeJay punta ai giovani, Radio Capital a un pubblico più adulto, eccetera. Ma ad ispirare i contenuti che vengono propinati tra una canzoncina e l’altra c’è la stessa visione di fondo, quella laicista e secolarizzatrice tipica del Gruppo L’Espresso. In effetti, il potere di persuasione delle grandi concentrazioni mediatiche è enorme. Pensiamo a una famiglia in cui il padre tutte le mattine legge Repubblica [Gruppo L’Espresso, ndr], il figlio di diciotto anni ascolta Radio DeeJay in cameretta mentre studia e la madre in automobile ascolta Radio Capital perché manda la musica anni Settanta-Ottanta che lei ascoltava da ragazza: queste tre persone si ritrovano a cena a discutere di notizie provenienti in realtà da un’unica fonte, presentate secondo la medesima ottica. Ma non lo sanno, e il ragionamento diventa: lo dicono tutti, quindi è vero…

All’origine di tutte le notizie che leggiamo o ascoltiamo ci sono le agenzie di stampa, di norma anch’esse facenti capo ai grandi magnati della finanza internazionale. In quale misura l’opera di selezione e ideologizzazione delle notizie avviene già nella fase del lancio di agenzia?

Le agenzie di stampa hanno oggi in pratica lo stesso ruolo che hanno in televisione gli autori dei programmi: sullo schermo vedi il tal famoso anchor-man, ma la maggior parte delle battute gliele ha messo in bocca l’autore del copione, che non appare. Tieni presente che oggi un grande quotidiano italiano come il Corriere della Sera è confezionato al 70% in copia-incolla dalle agenzie di stampa. A volte, se si confrontano i vari quotidiani, persino i titoli coincidono: anch’essi sono presi di peso dai lanci di agenzia! Quindi il potere di influenza di chi lavora all’interno delle agenzie di stampa è enorme. Detto en passant, spesso i contenuti dei quotidiani sono simili anche per via di un certo giro di telefonate che avviene – in serata – tra i direttori delle grandi testate giornalistiche del Paese. La priorità da dare agli eventi è spesso decisa collettivamente da quel potentissimo “cartello” che in Italia è la coppia dei direttori di Repubblica e Corriere…

Tornando a noi. C’è chi solleva un problema di “riconoscibilità” del messaggio che viene diffuso negli organi di informazione cattolici, cartacei e non. A volte leggendo qualche mensile o settimanale, per non dire lo stesso quotidiano della CEI, vien fatto di pensare a una famosa frase dello stesso Paolo VI: “all’interno del cattolicesimo sembra predominare un pensiero di tipo non-cattolico…”.

Mah, caso per caso non saprei dire… Certo non sempre i media cattolici pongono al primo posto le famose “questioni non negoziabili”: vita, famiglia, istruzione. Ma il problema è più ampio e non vorrei addentrarmici. Bisogna però specificare che un “medium laico cristianamente ispirato”, a differenza dell’house-organ della CEI, potrà permettersi di ospitare anche un pensiero “altro” da quello cattolico, purché debitamente contestualizzato: un’intervista, un dibattito cui partecipino esponenti di visioni opposte… Un’azione illuminata dei cattolici nel mondo della comunicazione non dovrebbe avere preclusioni “clericali”, ferma restando l’ispirazione di fondo.

L’insignificanza dei media di tipo house-organ emerge forse anche da vicende come la seguente. Per trent’anni i cattolici hanno denunciato la pratica dell’aborto, senza indurre alcuna seria riflessione nel mondo laico; nel 2008 arriva un ex comunista come Ferrara, il quale ripete le stesse (o quasi…) argomentazioni “nostre” su un giornale guasconeggiante letto da 15.000 persone: come d’incanto, l’aborto diventa una delle questioni calde nell’agenda politica del nostro Paese…

Il fatto che hai citato è una dimostrazione di quello che dicevo: i cattolici devono valorizzare i media laici accanto ai media clericali. Il nostro è un Paese governato dall’ideologia e dal pregiudizio. Se certe cose le dice il Cardinale Arcivescovo di Bologna la gente fa spallucce: “è un prete, l’avrà letto nel Vangelo…”. Se le stesse cose vengono dette da un “laicone” spregiudicato come Ferrara, invece, molti si fermano ad ascoltare. ? un paradosso, ma è così. E la responsabilità è anche un po’ degli stessi cattolici. In una certa fase storica i nostri padri o nonni hanno mandato all’esterno questo messaggio: la fede è un fatto privato, priva di rilevanza nelle scelte pubbliche. ? l’idea che incentivò le defezioni clericali in occasione dei referendum sul divorzio e, appunto, sull’aborto: “io non lo farò mai, ma non posso impedire a te di farlo”. Così si è fatta passare l’idea che la valorizzazione della vita umana nascente, della famiglia, dell’istruzione libera derivasse da una sorta di fideismo privo di possibile giustificazione razionale: persino a molti credenti, oggi, non è chiaro il fatto che le posizioni della Chiesa circa questi temi sono difendibili e argomentabili sulla base della sola ragione, rettamente intesa, e che quindi devono essere esposte senza cedimenti anche nel dibattito pubblico, politico. ? cruciale che si torni a far presente con forza e convinzione che la libertà di aborto, per esempio, non può essere tollerata, in quanto (laicamente e scientificamente parlando) si autorizza in tal modo la soppressione di persone umane innocenti. Questo non lo dice la fede, lo dice la ragione. ? ovvio che per affermare queste cose si deve essere poi disposti a fronteggiare l’irrisione e la contestazione del “mondo”: e infatti la scelta intimista e privatista di quei cattolici che una volta si chiamavano “del dissenso” è stata anche, va pur detto, una scelta di comodo, di quieto vivere.

Quali sono le responsabilità della Democrazia Cristiana nel campo dei media? ? noto che la DC non riuscì a fondare un solo grande quotidiano, e che sul piano della comunicazione e della cultura risultò assolutamente inadeguata a fronteggiare il gramscismo magistralmente attuato dal PC. Nel 1948, inoltre, con il patto pre-elettorale De Gasperi-Mattioli, si stabilì che “se avessero perso i comunisti, ai cattolici sarebbe andata la guida della politica, mentre ai laici [cioè alle grandi holding bancarie rappresentate da Mattioli, ndr] sarebbe andato il controllo della finanza, dell’industria, dell’informazione”…

Va sempre ricordato che la Democrazia Cristiana ha, in generale, almeno due grandissimi meriti: l’aver letteralmente ricostruito un Paese dopo la guerra e l’aver impedito l’ascesa al potere dei comunisti. Questi sono fatti oggettivi e incontestabili. Ma quello che dici è senz’altro vero: in cinquant’anni di potere economico, politico, gestionale la DC non è riuscita a diffondere un’informazione, una cultura cattolica degna di questo nome. Mentre dall’altra parte c’erano una cultura laica e una cultura marxista che hanno concentrato tesori di intelligenza e di energia sul piano accademico, propagandistico, dell’intrattenimento, eccetera. Ancor oggi quasi tutti coloro che lavorano nei media, siano essi presentatori, opinionisti, comici, sceneggiatori, autori teatrali, risultano formati a una visione che rimonta, lo dicevo prima, al marxismo e all’illuminismo. Non è priva di una sua verità la storiella che si racconta a volte: quando in Italia arrivarono i soldi del Piano Marshall, i preti li usarono per costruire bellissimi teatri e cinema parrocchiali. Ma nel frattempo i comunisti, a differenza dei preti, aprirono scuole di recitazione e formarono dei registi. E fu così che nei teatri e nei cinema cattolici non si ebbe altro da mettere in scena che gli spettacoli dei comunisti…
Va anche precisato, purtroppo, che non solo nell’ambito culturale e mediatico l’azione del partito che si voleva “cristiano” è stata deficitaria: che dire dell’ambito familiare e scolastico? Proprio nei due settori sui quali un Paese si fonda e si regge la DC ci ha lasciati in una situazione disastrosa. Abbiamo una legislazione di tutela e promozione della famiglia che è la più debole al mondo; abbiamo un sistema scolastico completamente in mano allo Stato, in pratica senza controllo possibile sui programmi e sui testi da parte delle famiglie (laddove la Costituzione parla chiaro sul diritto nativo dei genitori di istruire ed educare i figli); abbiamo una legge sull’aborto che porta in calce solo firme democristiane…

Un Papa “all’antica” come Pio XII aveva ben chiara l’importanza della battaglia culturale nel contesto a lui contemporaneo. Padre Riccardo Lombardi, il gesuita suo portavoce che fu noto negli anni Quaranta e Cinquanta con il soprannome di “microfono di Dio”, spronava i cattolici a una “mobilitazione generale”, a una diffusa presenza “in ogni luogo di potere, nei partiti, nei sindacati, nei giornali, nella radio, nel cinema, nell’università”… Sembra che questa consapevolezza sia venuta meno, paradossalmente, proprio dopo quel Concilio Vaticano II che si è voluto “pastorale” e “attento alle istanze del mondo moderno”.

Sarebbe un discorso lungo e complesso… Ribadisco: il vero problema è quello dell'”unità di vita”. Un cattolico non deve smettere di essere tale quando entra in una redazione o in Parlamento. Negli ultimi decenni ci si è troppo camuffati di fronte al “mondo” e si è persa di vista questa esigenza dell’unità di vita, che è fondamentale.

Come si può, attraverso un medium necessariamente impersonale, annunciare la Persona che è Gesù Cristo? Il laico vuole comunicare un’ideologia, uno schema di pensiero. Il cristiano vuole comunicare un incontro…

Attenzione: attraverso i media non si fa propriamente apostolato, non si mira a “convertire”. La conversione, come hai detto, risulta di norma solo da un incontro personale, concreto. Attraverso i media si realizzerà, più modestamente, quella che Giovanni Paolo II chiamava “inculturazione della fede”. Si porterà nella cultura (nel telegiornale, nel talk-show, nel libro, nella canzone…) la visione del mondo cattolica, la dottrina sociale della Chiesa, eccetera. Si introdurranno princìpi, come quello della sussidiarietà o quello della centralità della famiglia nella società, per esporre i quali non è necessario citare la Bibbia. Anche se certamente, in seconda battuta, un lavoro di questo tipo non potrà non propiziare nelle persone un confronto fruttuoso con il vero e proprio evento che è Gesù Cristo.

“Ho un buon rapporto con il Padreterno”. La fede cattolica di Fabio Capello

Da Studi cattolici n? 567, maggio 2008. “Chiariamo subito che non sono un bigotto”. Parte all’attacco Fabio Capello. Che notoriamente non scherza coi fanti, lascia stare i santi e mantiene le distanze da giornalisti e giocatori. Ma già essere qui a parlare di una faccenda maledettamente privata come la religione con l’allenatore italiano che siede sulla panchina (dopo avere trionfato con Milan, Juventus, Roma e Real Madrid) della Nazionale che ha addirittura inventato il gioco del calcio, l’Inghilterra, ha del miracoloso. Carattere chiuso, di poche parole dette con l’accento della sua terra, il Friuli, dove è nato a Pieris 62 anni fa, Capello è diventato il bersaglio preferito dai caricaturisti e dai comici in crisi di astinenza creativa per via del mascellone alla Ridge e la camminata frenetica con braccia alzate al cielo e imprecazioni via satellite a bordo campo. Essenziale nelle risposte come lo era in campo con i passaggi smarcanti, diventa addirittura ermetico se le domande non gli piacciono e liquida l’argomento col tono sbrigativo delle conferenze stampa quando deve annunciare la formazione o spiegare i motivi di una sconfitta che vadano al di là del fatto incontrovertibile che “gli altri hanno segnato un gol più di noi”.

Abituato a giocare in difesa quando si parla della sua vita privata (sposato giovanissimo con Laura Ghisi, ha due figli Pier Filippo, avvocato ed Edoardo, commercialista ed è nonno di due bellissimi nipotini) ha mandato tutti in fuorigioco mediatico rivelando al quotidiano inglese The Guardian di essere molto religioso, cattolico praticante in un Paese che si è ribellato all’autorità del Pontefice romano provocando lo scisma anglicano e di andare a Messa tutte le domeniche. “Ma proprio tutte?”, gli chiediamo in italiano perché come diceva Villaggio “io no spik inglisc”. “Se gli impegni me lo permettono, non perdo la Messa, la domenica. Mai”.

Fa anche la comunione?
Quando mi sento pronto. E dopo essermi confessato.

Ci può confessare che cosa dicono i Suoi colleghi inglesi nel vederLa andare a Messa, la domenica?
Niente. Non ascolto mai i giudizi della gente. Faccio quello che ritengo giusto. Seguo solo la mia coscienza.

Quando allenava in Spagna, Paese ancora abbastanza cattolico, poteva santificare la domenica senza creare scalpore, come invece succede a Londra.
In Spagna andavo a Messa tranquillamente. Come faccio qui a Londra. Ho molti amici di altre religioni con cui vado d’accordo. Ciascuno professa il proprio credo. Senza condizionare gli altri o, ancora peggio, senza avere dei problemi.

Un cattolico praticante dovrebbe dare anche il buon esempio, indicare agli altri la via della verità, come raggiungere la salvezza, che non è solo quella dalla retrocessione in serie B. Parlare magari di ritiri, non solo quelli pre-partita, ma anche spirituali.
Il mio esempio è il lavoro serio. Scrupoloso. Onesto. Se poi gli altri abbinano la mia rettitudine professionale al fatto di essere cattolico, non mi riguarda. Io resto quello che sono. E cerco, a fatica, di mettere in pratica gli insegnamenti della Chiesa.

Sembra che l’insegnamento più difficile da mettere in pratica in questo periodo sia l’indissolubilità del matrimonio.
Da cattolico praticante seguo gli insegnamenti della Chiesa.

Però i Suoi due figli, Edoardo e Pier Filippo non sono sposati, ma convivono: per Lei è un calvario?
Preferirei che si sposassero. Mi hanno promesso che lo faranno presto. Soprattutto Edoardo che è papà di due bambini.

Lei è molto legato a Sua moglie, che l’ha sempre seguita ovunque, anche nei lunghi trasferimenti all’estero.
Credo che la buona riuscita di un matrimonio si basi sulla vicinanza, spirituale e fisica, tra moglie e marito. A me, piace sentire l’atmosfera di casa anche all’estero. Mia moglie la sa ricreare. Perfettamente. E mi tranquillizza.

Chi è più religioso, Lei o Sua moglie?
Mia moglie Laura.

Lei che ama sempre primeggiare, in questo caso ammette senza problemi di essere secondo a qualcuno.
Non si tratta di “qualcuno” ma di mia moglie. E nei suoi confronti, nella vita privata, sono contento di essere al secondo posto. Anche se, nella fede, non ci sono graduatorie.

Chi Le ha insegnato a pregare, ad andare a Messa la domenica, a rispettare il prossimo?
Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa. Mia madre mi ha insegnato le prime preghiere.

La stampa inglese l’ha presa un po’ in giro scrivendo che Mister Fab chiama la mamma ogni giorno: è vero?
Mia madre ha 85 anni e vive nel mio paese natale Pieris. Le fa piacere sentirmi tutti i giorni.

Ha chiesto aiuto alla fede nei momenti difficili?
Quando ho avuto, come succede a tutti, delle crisi ho pregato. E le ho superate.

Crisi religiose, private o di lavoro?
Con la preghiera si risolve ogni tipo di crisi.

Lei prega molto?
Ho un buon rapporto con il Padreterno.

Ha mai chiesto aiuto lassù per vincere una partita decisiva?
La fede è un fatto serio.

Ma anche il calcio, per Lei, è un fatto serio: dicono che non si faccia dare del tu dai calciatori per mantenere le distanze.
Vero. Altrimenti si perde il rispetto. E in campo non obbediscono, specialmente al momento delle sostituzioni.

Un’eccezione l’ha fatta: con Antonio Cassano, il figliol prodigo che non rispetta mai l’epilogo della parabola, Lei è stato molto più di un Mister, ha fatto il buon samaritano, quasi un padre spirituale.
? un fuoriclasse che ha bisogno di una guida. Ho tentato.

Quando giocava nel Milan avrà incontrato il capostipite dei padri spirituali, il famoso Padre Eligio, fondatore di Mondo X, confessore di Gianni Rivera e di altri vip dello spettacolo?
L’avevo incontrato, Ma non siamo entrati in confidenza.

Lei era amico di Gianni Rivera, altro calciatore cattolico praticante: è rimasto ancora fedele alla Chiesa?
Sono ancora amico di Rivera. Se sia tutt’ora praticante, dovete chiederlo a lui.

In questo momento sono tutti pazzi per Padre Pio: anche Lei tifa per il santo delle stigmate?
Non ho santi a cui mi rivolgo particolarmente. Anche nella vita professionale, sono andato avanti senza avere santi in Paradiso. Ho una devozione particolare, come tutti gli abitanti del mio paese, per la Madonna di Barbana. ? un santuario che si trova sull’isola di Barbana di fronte a Grado, in provincia di Gorizia, dove la prima domenica di luglio si festeggia il “pardon di Barbana” con una processione di barche. Una tradizione che risale al 1327.

Parliamo di Papi: ha incontrato Benedetto XVI?
Non sono riuscito finora a incontrarlo. Ma spero di avere udienza al più presto. Ne ho incontrati quattro, l’ultimo è stato Giovanni Paolo II.

Anche Lei è stato conquistato dalla personalità magnetica e carismatica del Papa-santo-subito?
Non ho preferenze. Sono un cattolico. E per me il Santo Padre è il Vicario di Cristo sulla terra. Chiunque sia.

I Papi difendono la vita, sotto ogni forma: Lei che cosa ne pensa?
Sono perfettamente in linea con i Pontefici.

Lei ha detto di avere un buon rapporto con il Padreterno: per questo va molto d’accordo con Silvio Berlusconi?
Tempo scaduto.

Neanche un minuto di recupero?
Neanche.

La prego.
Le preghiere vanno rivolte molto in alto.

Appunto.

Claudio Pollastri

T. Scandroglio, “La legge naturale” (Fede & Cultura)

La Chiesa italiana richiama sempre più spesso i politici cattolici, ma anche i semplici fedeli come tutti noi, al dovere di promuovere comportamenti e provvedimenti pubblici improntati al rispetto della “legge naturale”. In quanto inscritta nel cuore di ogni uomo e derivabile dalla sua stessa natura razionale, la legge naturale non costituisce affatto un dogma di fede: si tratta, al contrario, di un’istanza riconoscibile con la sola ragione, e dunque strettamente vincolante anche per i non cattolici. Di qui l’invito pressante, anzi l’obbligo formulato dalle gerarchie ecclesiastiche, di valorizzarla e sostenerla con forza anche a livello di discorso pubblico. Si pone, però, un problema: quanti, tra gli stessi cattolici, sono a conoscenza del processo di fondazione razionale che conduce alla specificazione dei vari obblighi inerenti alla legge naturale? ? lecito pensare che siano molto pochi. Per porre rimedio a questa situazione, un giovane studioso di filosofia del diritto come Tommaso Scandroglio ha recentemente pubblicato un agilissimo volumetto dal titolo La legge naturale. Un ritratto (Fede & Cultura). In esso si espone in modo molto semplice e con dovizia di esempi la dottrina tradizionale classico-cristiana sul diritto naturale, rifacendosi in particolare alle cristalline argomentazioni del doctor communis, San Tommaso d’Aquino. Scandroglio semplifica e chiarisce ad uso di chiunque i concetti di “legge eterna” (di cui la legge naturale è “partecipazione nella creatura razionale”), “coscienza”, “precetto morale”, “diritto positivo” e molti altri ancora, fornendo uno strumento utilissimo alla battaglia culturale in cui ogni cattolico si trova oggi impegnato. In assenza di una fondazione complessiva, infatti, le singole argomentazioni morali (circa l’aborto o l’omosessualità, ma anche l’obbligo o meno di pagare le tasse…) rischiano di cadere nel vuoto di presupposti non condivisi, o intravisti solo a stento dai nostri interlocutori e persino da noi stessi. ? dunque altamente consigliabile la lettura di questo libricino, il cui merito principale è forse quello di ricordarci che lo scopo della morale non è quello di “tarpare le ali” all’uomo, ma quello di condurlo alla plenitudo essendi, alla piena realizzazione della sua natura: in altre parole, alla felicità. Prefazione di Mario Palmaro.

Cfr. http://www.fedecultura.com/2007/10/la-legge-naturale-tommaso-scandroglio.html

Assaggi n. 44: Impulso alla ricerca

“A un certo punto ci si trova come avvolti in un senso profondo di vuoto e di nulla; ma, proprio nello stesso momento in cui questo senso ci è dato, si avverte che questo vuoto, che questo nulla sono popolatissimi, e che proprio questo, proprio questo chiede di essere capito. Dopo aver rifiutato tutti i sensi possibili, proprio allora ci troviamo a chiederci i motivi di questo proliferare, e nasce prepotente l’impulso alla ricerca”.

“Di ciò di cui sembra non si possa parlare giova, invece, continuare a parlare finché non si possa veramente parlarne”.

Luciano Anceschi

Assaggi n. 42: Il Cavallo Rosso

…[Michele] sentì nascere anche dentro di sé un’improvvisa voglia d’amore fisico, voglia ch’è sempre pronta a insorgere nei giovani, anche in lui – nonostante la sua severità morale – dotato com’era di esuberante vitalità e di fantasia. Gli venne in mente la ragazza dell’isba… la incontrava più volte al giorno.
“Ehi, un momento” s’impose subito; quella ragazza non era per lui, era destinata a un altro. E lui non doveva partecipare in nessun modo al disordine: “Perché comincia proprio da qui il guasto che si estende poi a tutto il creato e lo trasforma in una bolgia… Proprio da qui comincia.”
Era anche una questione di correttezza verso la propria futura moglie. Già. Chissà dov’era in questo momento – cerco di prospettarsi, sempre passeggiando davanti all’isba – la donna che sarebbe stata la compagna della sua vita. Chissà che viso aveva… Con ogni probabilità doveva essere molto giovane, quasi certamente lui non l’aveva mai vista. A meno che… Gli venne a un tratto incontro nella fantasia la figura acerba e stranamente sorridente di Almina, la sorella quindicenne di Ambrogio.

Eugenio Corti, Il Cavallo Rosso

L’esodo dei giuliano-dalmati dopo la II Guerra Mondiale

(ci scrive lo storico Marco Ceschi) In questi giorni, come accade da 3 o 4 anni (2004, istituzione della Giornata del Ricordo – 10 Febbraio), torna d’attualità il dramma delle Foibe e dell’Esodo che coinvolse migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
Gli argomenti da trattare, approfondire e chiarire sarebbero ancor oggi numerosissimi: in pochi conoscono l’esatto svolgimento dei fatti, la loro contestualizzazione, la loro conclusione ed i risvolti politico-storiografici che per più di cinquant’anni hanno determinato un quasi totale silenzio sui tragici accadimenti del nostro Confine Orientale.
Affrontare in sintesi tali vicende nella loro totalità e complessità non credo sia umanamente possibile: si rischierebbe infatti di fare più danno che altro alla storia ed alla memoria di chi quei fatti li ha vissuti e ne conserva a tutt’oggi un doloroso ricordo, gli Esuli.
Per questo tratterò molto brevemente del destino che toccò a più di 300.000 persone costrette a lasciare la propria terra, le proprie radici, i propri beni per aver scelto di restare Italiani – scelta che non avrebbero mai potuto vivere nel contesto statuale della Nuova Jugoslavia di Tito – e dell”accoglienza’ loro riservata in Italia.
Già dal 1947 il governo italiano aveva allestito dei veri e propri Centri di Raccolta Profughi (la Risiera di San Sabba a Trieste era tra questi) gestiti dall’Opera Assistenza Profughi ed inizialmente sovvenzionati dal Ministero per l’assistenza post -bellica, che non saranno chiusi prima degli anni Settanta ma che in alcuni casi continueranno ad ospitare diversi nuclei familiari di origine istriano-dalmata sino ai primi anni Ottanta.
L’Opera Assistenza Profughi Giuliani e Dalmati, che tramite l’apparato prefettizio e comunale gestiva gli aiuti e l’assistenza dei Centri Raccolta Profughi, era emanazione diretta del Comitato Nazionale Rifugiati Italiani, patrocinato tra gli altri da Alcide De Gasperi, Ferruccio Parri, Ivanoe Bonomi, personaggi questi appartenenti a schieramenti politici diversi ma mossi dagli stessi valori civili, religiosi, di carità e solidarietà e che speravano di coinvolgere il maggior numero possibile di cittadini, in quanto lo Stato da solo non sembrava in grado di affrontare l’emergenza.
Parallelamente a quella statale si sviluppò anche una solidarietà che traeva linfa dalla Pontificia Opera di Assistenza, da donazioni di grossi industriali che fornivano ciò che producevano e dai comitati locali sorti in diverse città.
In diversi casi però le attenzioni e le risorse riservate ai profughi non erano accolte volentieri dagli autoctoni; soprattutto nel caso triestino dove gli abitanti della città non potevano non vedere i profughi come “gente di passaggio”, colpevole in quel periodo di aggravare la già non facile situazione che la capitale giuliana si trovava ad affrontare, divisa com’era tra governo Alleato, presenza italiana e minaccia jugoslava.
Quando la “provvisorietà” immaginata dai triestini iniziò ad assumere la forma più definitiva di “stanzialità”, l’astio e la diffidenza verso gli esuli aumentarono sensibilmente fino a provocare quello che è stato poi ribattezzato “l’esodo triestino verso l’Australia”.
Anche nelle altre regioni d’Italia gli Esuli erano spesso visti di cattivo occhio in quanto, oltre ad aggravare le difficoltà economiche post-belliche, erano presi di mira dalla propaganda del Partito Comunista che li accusava di fascismo e li attaccava in quanto avevano abbandonato la Jugoslavia Titina che appariva agli occhi dei compagni italiani come una sorta di paradiso in terra.
Una volta giunti in Italia, alcuni Esuli rinunciarono agli aiuti offerti dalle organizzazioni statali preferendo andare alla ricerca di amici o parenti disposti ad ospitarli. Chi invece si affidava alle opere di pubblica assistenza era sottoposto ad accurati interrogatori da parte degli ufficiali statali per la sicurezza, durante i quali il profugo poteva portare ogni tipo di testimonianza circa la sua origine, per ottenere infine un documento con cui presentarsi nei centri profughi che fornivano vitto e alloggio temporaneo.
Dopo un periodo più o meno lungo in questi centri di smistamento, interi nuclei familiari o singoli individui erano indirizzati nei veri e propri Centri Raccolta Profughi dove venivano dotati di un posto letto o di un “box” abitativo; in entrambi i casi le condizioni di vita per l’esule risultavano molto precarie.
Ancora nel 1956, il questore di Trieste segnalava in una nota al Commissario generale del governo che il freddo intenso dell’inverno aveva colpito drammaticamente i campi per esuli di Padriciano, Villa Opicina e Prosecco.
La situazione economica italiana alla fine degli anni ’50 spinse il governo a tentare di rendere meno precaria la posizione dei profughi: vennero così proposti corsi specialistici per elettricisti, agricoltori o allevatori, al fine di favorire l’occupazione e una progressiva indipendenza economica degli ospiti dei campi.
Altre iniziative prevedevano invece l’insegnamento dell’inglese, cui seguiva la visita di personale diplomatico straniero (canadese e australiano soprattutto) allo scopo d’incentivare e favorire la possibile emigrazione.
Rimasero però ancora molto scarse le condizioni igieniche a causa delle difficoltà nello smaltimento dei rifiuti, specie nella stagione estiva. Per porre rimedio a ciò si pensò di dotare tutti i campi di personale medico permanente.
Condizioni igieniche scarse, sovraffollamento, promiscuità degli alloggi, erano i principali motivi, assieme al sussidio garantito per sei mesi a chi lasciasse il campo, che facevano dell’abbandono dei campi e del trasferimento in un’abitazione vera la principale attrattiva di ogni profugo.
Vero è che, perché questo si potesse realizzare, era necessario che uno o più componenti del nucleo familiare trovassero un’occupazione fissa per potersi poi permettere le spese d’affitto, luce, gas e riscaldamento che il trasferimento fuori dai campi comportava.
In questa ricerca di stabilità e indipendenza gli ospiti erano aiutati da diversi enti (E.C.A di Trieste – G.M.A) che promossero la costruzione di quartieri e case popolari da destinare, a condizioni molto favorevoli, proprio agli esuli dei campi profughi.
Furono proprio le politiche di questi enti a indicare anche ai governi la nuova via da seguire nella questione Centri Raccolta Profughi, ossia l’abbandono di una strategia assistenzialistica a vantaggio di progetti finalizzati al reinserimento nel tessuto sociale di singoli e famiglie.
L’Opera Assistenza Profughi diventando interlocutrice principale dello stato progettò e realizzò dal nulla “Quartieri Istriani” nei quali si trovavano scuole materne ed elementari, convitti femminili o per orfani, abitazioni popolari e i servizi principali.
Molti profughi infine, viste le difficoltà d’inserimento nella realtà italiana e le attrattive d’Oltreoceano, preferirono la strada dell’emigrazione. Viaggi interminabili che avevano come meta paesi diversi per lingua, tradizioni e costumi, ma che potevano offrire stabilità, tranquillità economiche e soprattutto la possibilità di ricominciare una nuova vita senza portarsi addosso le “colpe” dell’esodo.
Ancora oggi in Australia, Sud Africa, Argentina e Canada esistono comunità molto numerose di esuli giuliano-dalmati che, pur avendo rinunciato a tutto non accettano ancora di rinunciare alla memoria e al ricordo dei fatti che li coinvolsero in maniera così drammatica più di cinquant’anni fa.
Marco Ceschi

Assaggi n. 34: Eliot e i Magi

…Considerate
questo: ci trascinammo per tutta quella strada
per una Nascita o per una Morte? Vi fu una Nascita, certo,
ne avemmo prova e non avemmo dubbio. Avevo visto nascita e morte,
ma le avevo pensate differenti; per noi questa Nascita fu
come un’aspra ed amara sofferenza, la nostra morte.
Tornammo ai nostri luoghi, ai nostri regni,
ma ormai non più tranquilli, nelle antiche leggi,
fra un popolo straniero ch’è rimasto aggrappato ai propri idoli.

T.S. Eliot, Il viaggio dei Magi