Una felicità …da toccare.

Pronunciare la parola “felicità” pare, allo sguardo disilluso di molti, un’esagerazione. Sì, è uno di quei termini così abusati, che appaiono un po’ generici e quindi svuotati di significato, possono andar bene per quelle massime da bacio Perugina o in discorsi che si fanno, ma a cui, in fondo, non si crede…la vita è ben altro, con le sue quotidiane e, talvolta, complicate urgenze. Certo a 15 anni è tutto o nero o tutto bianco, ma poi rischia di essere ancor peggio e quando qualcuno chiede “ Ma tu sei felice?” “…Mah!? ….sì!” si risponde affermativamente, un po’ per togliersi dall’imbarazzo di non saper bene come argomentare e rispondere. “In cosa consiste la tua felicità?” “Bhè! Su questa domanda sono già più preparato!” e snoccioleremmo, magari, un elenco di beni ed affetti assolutamente indispensabili, per commentare poi con una di quelle frasi, un po’scontate, che cercano di salvare tutto: “d’altra parte la felicità è una tensione…” o “la vera felicità sta nel desiderio…” “L’importante è …” Ma è possibile essere felici?

 Per i greci, alle radici della nostra cultura classica (ne tratta lo storico Erodoto V secolo a.C:), la felicità, eudaimonia, è considerata il bene supremo, essa si realizza soprattutto come buon rapporto con il mondo e può essere valutata solo alla fine della vita di un individuo, invece la ricerca di una felicità unicamente privata, come soddisfazione personale, il senso comune che la parola assume generalmente oggi, è definita una felicità da idioti. Parola di Erodoto! Diverse sono le ricette, oggi, per essere felici: si va dalle convinzioni sul salutismo, secondo cui la felicità si fonda nel promuovere uno stile di vita sano (regolare attività fisica, una sana alimentazione e un approccio mentale positivo), a chi si spinge più in là, ricercando forme di spiritualità più o meno estreme (energia cosmica, della Natura e dell’Universo, lati più o meno oscuri della Forza, ritualismi celtici, sciamanesimo, Damanhur, Reiki), a chi, molto più pragmaticamente, valuta il raggiungimento della felicità in base all’affermazione professionale o calcola i beni e il denaro accumulato. (che cinismo!) E poi c’è chi fugge! Se non sei felice di te stesso, del tuo modo di vivere, delle tue relazioni, del mondo che hai costruito intorno a te o dentro cui ti tocca vivere, vi è sempre il mondo virtuale, che ha avuto in questi ultimi due anni sviluppi inaspettati. Un mondo in cui puoi essere letteralmente un altro: un’altra faccia, un altro corpo, un’altra personalità, un altro lavoro, un altro patner (o più), altra casa, altre relazioni, altra storia passata, svaghi, conto in banca …soprattutto moralità. In una parola Second life, seconda vita, un mondo virtuale tridimensionale, nato nel 2003, in cui chiunque può registrare un proprio avatar (sono già 12 milioni), un nuovo sé e poi vivere in questo spazio virtuale, incontrando altri, godendo di servizi i più disparati e soprattutto spendendo tempo e non solo: ogni opzione o accesso suppletivo costa, poco, ma costa. Un mondo in piena regola con eventi, manifestazioni, feste, aziende (già parecchie aziende italiane sono su second life), università (udite,udite!). E i limiti non si vedono ancora, ad esempio si possono incontrare noti personaggi della cultura, dello spettacolo, persino della politica (Di Pietro è stato il primo politico italiano ad avere un proprio “ufficio” in second life). Non è più così chiaro se questo è un immenso gioco collettivo o se invece è una realtà parallela, dato che avvengono in essa fatti, compra-vendite, affari reali.

E chissà se si costituirà un governo o ci sarà una rivoluzione. Intanto c’è chi in second life si è sposato e ha figli (costano meno e anche la responsabilità è più tollerabile). Un mondo virtuale, ma anche così reale che la criminalità ha preso subito la palla al balzo e così anche voi, senza saperlo, pagate agenti della Guardia di Finanza, che davanti al loro pc, sono in servizio, sotto copertura, in second life: riciclaggio, pornografia a vari livelli e tutte le variegate possibilità della delinquenza e del raggiro. Un affare globalmente da quasi 1 miliardo di dollari, con già 500.000 lavoratori per lo più cinesi ed indonesiani sfruttati, che per 15-18 ore al giorno lavorano davanti allo schermo per consentire ai più o meno ricchi occidentali di “giocare” in second life. Ma esistono anche veri giochi di ruolo in rete altrettanto popolati e remunerativi per i loro creatori: tra i tanti World Warcraft, 9 milioni e mezzo di giocatori che spendono in media dai 50 ai 100 dollari l’anno per acquisire opzioni, poteri, armi, vite…tutto virtuale ovviamente. Sono nate anche cliniche (U.S.A., Giappone ed Olanda) in cui vengono curate “le sindromi da virtualità” di giocatori che giungono sino a 12-15 ore di dipendenza, togliendo tempo alla famiglia, agli amici, al tempo libero, allo sport, al cibo e, in fondo, a se stessi. Fino al ripiegamento su di sé più radicale e all’isolamento: è il caso sei cosiddetti kikomari, giovani giapponesi che si chiudono in stanze o appartamenti e non ne escono più, si ritirano, escono dal mondo. E il fenomeno potrebbe essere archiviato tra le stranezze del paese del Sol Levante o di alcuni “balordi” se non coinvolgesse già 1 milione di adolescenti e giovani giapponesi. Tutti all’inseguimento della felicità. Ma quale felicità? Una delle più spietate rappresentazioni di quella che il mondo contemporaneo, chiama felicità è stata data da Samuel Beckett nell’opera Giorni Felici.

I due protagonisti sono conficcati nella terra: lei fino alla vita, lui vegeta in un buco come un verme. Winnie è tutta concentrata sulla cura del suo corpo (pettinarsi, truccarsi, essere sempre in ordine) e in un continuo chiacchiericcio da salotto. E Willie è il marito perfetto per questa situazione: borbotta, sopporta con fatica la petulanza della moglie, legge il giornale (una coppia come tante insomma, dice Beckett). La felicità di Winnie è la chiave dell’opera. Winnie non vuole ammettere che si trova in una situazione infernale, anzi pare non accorgersene. Lei si proclama felice, la sua è una vita felice. Cosa può desiderare di più? Ha la sua borsetta con la spazzola, lo specchio (e una piccola pistola con la quale potrebbe velocemente farla finita, ma significherebbe ammettere la sconfitta della sua esistenza). Ha un marito che può tormentare col suo continuo parlare. E’ una vita meravigliosa. E i suoi giorni, che trascorrono tra l’assordante campanello del risveglio e l’altrettanto assordante campanello del sonno, sono giorni felici. E anche quando, nel secondo atto, lei è sepolta fino alla testa continua a proclamarsi felice. Caustica metafora e terribile critica ad un mondo, il nostro, che ha ridotto la felicità ad un ammasso di oggetti e beni da riciclare. Che cosa ci può dissotterrare dalle nostre illusioni di felicità, donando una speranza vera? Che cosa o chi può vincere la morte, che lentamente incorpora, farci passare da uno stato di morte, sempre meno apparente, e rigenerare il tempo e l’esistenza? Chi può liberarci dalla morte e rendere la vita non necessariamente semplice, ma degna di essere vissuta e densa da toccare ed assaporare? Chi può rendere le contingenze della nostra esistenza non ostacoli da rimuovere, ma appuntamenti d’amore e significato? Accettiamo idee e proposte, ma un’ipotesi ce l’abbiamo già.

“Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro”. Umberto Saba.

Nel 2007 è passato per lo più inosservato, eccetto che tra piccole cerchie di appassionati e di “addetti ai lavori”, il cinquantesimo anniversario della morte di uno dei più grandi poeti italiani, noto alle generazioni di studenti per alcune poesie, sempre quelle, presenti in tutte le antologie. Chi non ricorda La capra e un’altra sua lirica, dedicata all’amatissima moglie Lina, nella quale, per altro, l’autore la paragona, in modo piuttosto singolare, ad una serie di animali domestici: una gravida giovenca (…e passi…), una lunga cagna (…e si rimane perplessi…) e una bianca pollastra (e questo pare, per lo meno, un po’ offensivo). Ma forse nessuno ci ha aiutato ad entrare veramente nel mondo di Umberto Saba, pseudonimo che significa in ebraico “pane” per il vero cognome Poli, nato a Trieste (1883) e appartenente a quella straordinaria generazione di poeti italiani della fine dell’800, tutti degli anni ’80, Gozzano, Ungaretti, Sbarbaro, Corazzini, Papini, Prezzolini, che animarono e fecero la cultura dell’inizio del XX secolo e che attraversarono, non senza conseguenze, la Grande Guerra. La conoscenza della sua ampia produzione, raccolta da lui stesso nel Canzoniere, è ridotta a pochi versi. Sembra sia stato preso alla lettera, quanto lasciò scritto nell’opera Epigrafe:“parlavo vivo ad un popolo di morti. Morto allora rifiuto e chiedo oblio.”

Ma perché interessarsi a Saba, oggi? Già pare impopolare proporre di leggere “la poesia”, …meglio una bella fiction o uno di quei fantasy da 600-700 pagine (tutti figli di Harry Potter), di cui tracimano librerie e supermercati. Perchè gravarsi della fatica di muovere i passi per il sentiero stretto di un linguaggio, quello lirico, che sempre più ci appare lontano dalle urgenze della realtà? Per di più di un autore che è definito, da molti, un uomo triste? Non ne abbiamo a sufficienza dei nostri privati guai quotidiani? La peculiarità di Saba sta nell’aver intessuto un dialogo tenero ed affettuoso con la realtà e il mondo, in aperta polemica con le tendenze dominanti della cultura italiana, che cercavano l’arte nell’estetismo e nella celebrazione e che avevano, secondo lui, infettato la lingua e la parola di menzogna. Partì per un viaggio alla ricerca della parola che desse voce alla vita, che potesse in modo diretto, naturale, “onesto” farsi più vicina alle cose, agli oggetti, ai visi e ai respiri, che sapesse far risorgere, come dal nulla, paesaggi e gesti precisi, attraverso termini non manipolati, ridondanti o carichi di sovrasensi metaforici, ma semplici nella loro ovvietà e perciò familiari e comuni: Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Solo così l’artigiano del quotidiano”, come il poeta si definì, sarebbe stato in grado di indagare quel mondo che si apriva dentro di sé, portandone in superficie il prezioso segreto: Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Nasce, attraverso questa purificazione, che è a un tempo visiva e linguistica, un linguaggio maggiormente evocativo e catartico: parole, dove il cuore dell’uomo si specchiava – nudo e sorpreso – alle origini.

Semplice fu la vita di Umberto Saba (la mia vita pensosa e schiva), dopo studi irregolari ed un periodo prima a Firenze e poi a Bologna, rientrò a Trieste, dove si dedicò all’apertura di una libreria antiquaria, pur essendo in contatto con grandi uomini della cultura italiana (particolare fu il rapporto di amicizia con E. Montale), rimase abbastanza lontano dai clamori della fama, che gli fu riconosciuta solo dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale la sua origine ebraica lo costrinse a fuggire prima in Francia, poi a Roma e Firenze. Gli argomenti, e personaggi, della sua poesia sono tre, come spiega nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere (esempio unico di un poeta che spiega tutta la propria raccolta): la donna, la venerata Lina, la città di Trieste con i suoi paesaggi di mare, le vie e viuzze in salita, con il suo cielo azzurro come il primo cielo che Dio inarca sulla terra nuova, e infine il poeta stesso. Trieste,come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore, è lo sfondo e il luogo della consapevolezza. Il poeta sperimenta della vita l’asciutta e cruda pasta, affonda le dita nella terra arida dell’inadeguatezza e dell’impotenza: Parla a lungo con me la mia compagna Di cose tristi, gravi, che sul cuore Pesano come una pietra; viluppo Di mali inestricabile, che alcuna mano, e la mia, non può sciogliere. Mai, però, ne rifiuta la pena secreta o il dolore d’uomo giunto a un confine: alla certezza di non poter soccorrere chi s’ama (Confine). Pare che lui intraveda o solo speri che esista in un attimo un sol che brilla. Ma sa riconoscere che Tutto è bello;/ anche l’uomo e il suo male, anche in me quello/ che m’addolora (Il poeta in Preludi e canzonette), così che, rivolgendosi al proprio cuore dal dolore serrato in una morsa, lo interpella:” Quale angoscia non hai viva abbracciata, vivo restando? ” (Cuore) Si respira nei suoi versi una certezza che rasserena, pur nel patimento, che ritrova la pace coi nemici vinti anche in se stessi: La mia vita è tutta così: così me la dipingo, e lieto per l’aperta finestra guardo l’ora – come dentro una bolla di sapone – ricreare gli alberi le case Costruisce un mondo, anzi ricostruisce un luogo, in cui, in un contesto che appare disperato, è ancora possibile rivendicare uno spazio di bellezza, amore, liberazione dall’angoscia ed oppressione del vivere, in cui, senza negare al fondo un dolore, sia possibile risalire alla creaturalità originale, non il morbido ed ovattato rifugio nella nostalgia dell’età perduta, ma l’aspirazione ad una concreta felicità, che nulla censura.

Una parte della critica ha interpretato come chiavi di lettura della sua opera e della sua vita, il ricordo della fanciullezza non felice e la rievocazione della dimensione infantile, accentuando una sofferenza psichica, che Saba visse, e la successiva scoperta della psicanalisi. In realtà la sua nevrosi tocca il punto vivo dell’autenticità, il nervo scoperto di chi è indagatore del vero, smascherando finzioni e artifici della realtà, restituendola nuda, densa e silenziosa. Questa pacificata accettazione della vita con le sue durezze i suoi pendii e le improvvise svolte non può non interrogare il lettore, che scopre, lungo la strada di Saba, non solo passi autobiografici e personali dell’autore, ma scorge anche scorci della propria esistenza. Sembra che il poeta sia sceso così profondamente in sé, da ritrovare le sensazioni, gli umori, le passioni e i sentimenti dell’uomo in quanto tale. E il verso che scivola così fluido e pieno della vita che racconta, lentamente, ma inesorabilmente attrae con la sua disarmante semplicità e concretezza. Lui stesso ce lo svela nella prima lirica (Lavoro) della raccolta, che intitola, visto il passare del tempo, Ultimissime: Un tempo la mia vita era facile. La terra mi dava fiori frutta in abbondanza. Or dissodo un terreno secco e duro. La vanga urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro. Il coraggio di questa ricerca, “l’avidità di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza”(così gli scriverà in una lettera personale Primo Levi), è la peculiarità del suo paziente e silenzioso osservare e riflettere, un inesausto lavoro ed amore alla vita. È la ricerca del vero tra le pieghe dei fatti quotidiani, i contrattempi e le pause, i silenzi e gli incontri, fino, come scrive in una delle sue innumerevoli prose, al cuore delle cose.

 Non stupisce allora ritrovare proprio nelle lettere, che Saba si scambiò con l’amico Giovanni Fallani, vescovo e noto studioso di Dante, una ricerca spirituale sofferta. Sono gli anni in cui il poeta perde la venerata moglie e viene colpito dalla malattia. In questo epistolario (1952 – 1957 fino ad un mese prima della morte) emerge tutta la sua passione per ciò che è umano, la sua solitudine, ma anche la sua aspirazione al divino: sia quando, dichiarando ormai invivibile il mondo, esplicita il desiderio, se fosse possibile, di ritirarsi in un convento, sia quando confida di aver invitato la moglie malata, prossima alla morte a “baciarsi in Gesù” e di aver recitato alle esequie della moglie, lui ebreo, il Padre Nostro, con lo scandalo dei presenti, oppure quando dice di figurarsi il mondo come una montagna sulla cui cima si erge la Croce. Manifestò all’amico vescovo anche la volontà di ricevere il battesimo, pur nella consapevolezza di non avere una fede ancora matura sulla divinità di Cristo. A chi ama l’opera poetica di Saba non pare inatteso un epilogo della sua vita segnato dal desiderio della Verità che giace al fondo. Non è difficile immaginarsi il vecchio Saba, che passeggia per le vie della sua amata Trieste, in una di quelle limpidissime mattine ventose, in cui la forza dell’aria spazza via tutto ciò che essenziale non è, lasciando più puro lo sguardo, più autentico il passo successivo. Sul tardi/ l’aria si affina e i passi si fanno / leggeri/ Oggi è il meglio di ieri,/ se non è ancora felicità.