Il destino incerto della sinistra italiana

Gli scettici rimangano pure con le loro perplessità, ma nessuno può negare l’operosità dell’attuale governo, capace, in pochi mesi, di tener fede a molti impegni contratti col proprio elettorato: l’abolizione dell’Ici, la detassazione degli straordinari e la pulizia di Napoli sono solo alcuni tra i molti traguardi tagliati. Risultati un po’ migliori – spero lo si riconosca – di quelli conseguiti dal sempre agonizzante governo Prodi, autore di un risanamento fantasma, di cui proprio nessuno sembra essersi accorto.
Ma torniamo a noi. Mentre il governo Berlusconi procede nel proprio percorso di riforme, Veltroni che fa? Il leader del partito democratico sembra spaesato, senza bussole e riferimenti, per giunta attorniato da colleghi, da Parisi a D’Alema, pronti a fargli la pelle al primo incidente di percorso.
A ben vedere, però, non è tanto Veltroni il punto, quanto la crisi d’identità, vera patologia dell’attuale sinistra italiana, incapace com’è di darsi un progetto, una missione anche piccola, una ragion d’essere. L’idea di creare un governo-ombra, in realtà nasconde un vuoto di idee senza precedenti. E in attesa di una resurrezione, eventuale quanto incerta, della sinistra massimalista, ora esiliata dal Parlamento, la sinistra vagabonda, sospinta ora dal carisma tiepido di Veltroni, ora dal populismo giacobino di Di Pietro.
E’ una sinistra che sopravvive, questa. Una sinistra che in parte ancora patisce la cocente delusione del governo Prodi, e che stenta a ripartire. Il Partito Democratico, nato come la Terra Promessa tanto sospirata, si sta rivelando per quello che è: un contenitore, anche carino, ma vuoto; l’attempata parodia di quello che fu Forza Italia. Con la differenza che Forza Italia, benché raccolga ex socialisti, vecchi democristiani e liberali, a suo tempo fu qualcosa di realmente innovativo, rivoluzionario quasi.
Al contrario, fatichiamo a riconoscere, nel Partito Democratico, un corpo ideologico che non sia dichiaratamente ambiguo. La stessa pretesa di far convivere laici e cattolici, davanti alle sfide della bioetica, non regge.
Come può sperare, Veltroni, di guidare un partito dagli elementi così eterogenei senza naufragare?
Tanto più se si considera, come dicevamo all’inizio, che Berlusconi ora fa sul serio, sapendo di avere la maggioranza degli italiani con lui, per la sinistra si mette davvero male. Se le sparate della premiata ditta Santoro-Travaglio rimangono l’unico vero antidolorifico davanti alla crescita di consensi di Berlusconi, sta finendo un’epoca.
E non esagera chi prevede, per i prossimi anni, un tramonto inesorabile di questa sinistra. Da parte sua, Di Pietro non ha carisma e numeri per cambiare lo stato di cose presente.
L’unica via d’uscita a questo stallo sarebbe decapitare, politicamente parlando, l’attuale dirigenza del Partito Democratico, ancorché non anzianissima, e sperare in un miracolo, in nuove menti e nuove idee. Nel frattempo, personalità serie come Bersani, Letta e Fioroni potrebbero traghettare la sinistra verso una nuova stagione, questa volta per davvero. Ma l’operazione di rinnovamento, se la sinistra ha a cuore il proprio destino, deve iniziare. Da subito.

Uno sconosciuto chiamato Dono

Le analisi dei pensatori contemporanei, a prescindere dall’orizzonte culturale cui fanno riferimento, tendono progressivamente ad assomigliarsi, configurandosi quasi tutte come allarmi verso una realtà presente accusata di deficienza etica. L’antica triade Dio, patria e famiglia, tanto cara ai tradizionalisti, accusa crisi profonde. Non va meglio ai devoti del Progresso, che devono fare i conti con uno sviluppo tecnologico pilotato dalla mera convenienza, sempre pronto a rovesciare il nobile monito kantiano dell’umanità da intendere sempre come fine e mai come mezzo.
Per dare ragione di questo tramonto valoriale, si tirano in ballo spiegazioni tra loro diversissime. C’è chi individua la causa prima di questo svuotamento morale in una carenza di religiosità che sarebbe sotto gli occhi di tutti. All’opposto, non mancano coloro che invece leggono il caos odierno come esito infausto di un ritorno della religione, che si manifesterebbe nella crescita disordinata dei fanatismi. Sia come sia, per meglio decifrare la crisi odierna, crediamo abbia importanza tornare a riflettere su un’arte caduta da tempo in disuso: quella del dono. Fateci caso: non sappiamo più donare. L’idea di dono come offerta spontanea e incondizionata non esiste più, è sepolta dal do ut des, dalla manovra strategica, dalla valutazione preventiva, dal calcolo. L’homo economicus spopola: è il tragico inveramento della razionalità strumentale weberiana, il dilagare dell’egoismo fiero d’esser tale. A queste considerazioni si può obbiettare che in realtà il dono continua ad esistere, per esempio in occasioni delle ricorrenze natalizie. Ma si possono davvero considerare doni quelli che siamo “costretti” a mettere sotto l’albero di Natale? O si tratta, piuttosto, di riti consolidati, di scambi bilaterali ai quali prendiamo parte, consapevoli di donare per ricevere, e quindi di non donare liberamente? Senza nulla togliere alla magia del Natale, c’è da credere più alla seconda ipotesi, confermativa della scomparsa del dono. Ovviamente, ci siamo finora riferiti al dono quale transizione, libera ed inaspettata, di un oggetto, compiuta da un soggetto a beneficio del suo prossimo.
Ma che ne è, invece, del dono più totale che una persona possa fare, ovvero del dono di sé? Ha ancora senso, oggi, parlare di abnegazione? Il sacrificio è una realtà ancora praticabile oppure è materia archeologica?
Purtroppo, a causa di un complesso concorso di variabili che non prenderemo ora in esame, e che vanno dal venerato liberismo ai frutti amari del ’68, la mentalità che va per la maggiore sembra essere quella improntata all’egoismo edonista, che legge le relazioni umane in funzione del profitto che da esse è possibile trarre.
La verità, come dice giustamente Marcello Veneziani, è stata detronizzata dal vantaggio.
Ma in un mondo di devoti del profitto, che posto può avere il nostro compianto dono? Purtroppo nessuno. Se si capisse a beneficiare del dono non è solo colui che lo riceve, bensì anche chi lo elargisce, che ne esce moralmente rigenerato, forse le cose sarebbero diverse; soprattutto se si ricordasse più spesso che Colui che ha cambiato la Storia non è stato un conquistatore, un cavaliere e neppure un ricco imprenditore bensì un uomo morto sulla Croce, un fallito secondo i canoni correnti, probabilmente la tendenza sarebbe diversa. Molto diversa.
Ha scritto il poeta Prasad Mishra:”L’attimo del dono e dell’offerta d’amore è la festa sacra della vita”.

Il figlio (nascosto) di Emma Bonino

Intervistata dal settimanale Di Più, Emma Bonino si lascia andare ad una dichiarazione impegnativa: “Non ho mai avuto il coraggio di prendere un impegno per sempre. E un figlio è l’unica cosa che è davvero per sempre. Ad un certo punto della mia vita però l’ho anche cercato un figlio” (Di Più 1/07/08, p.36). Che la celebre leader radicale non amasse impegni duraturi, potevamo anche immaginarlo, ma per il resto stentiamo a credere alle nostre orecchie, eppure – salvo rimaneggiamenti truffaldini – queste sono proprio le parole della Emma nazionale.
Chissà se pensava al figlio come ad “un impegno per sempre”, Emma Bonino, mentre praticava aborti armeggiando con pompe di bicicletta, spudorata al punto di farsi persino immortalare, al pari di un eroina intenta ad ultimare la propria impresa.
Chissà – rimanendo in tema – se la Nostra pensava sempre all’importanza di un figlio quando si batteva per la legalizzazione dell’aborto procurato, concretizzatasi in una Legge, la 194, che totalizza 3323 parole organizzate in 22 articoli, tra le quali, combinazione, manca proprio il termine “figlio”.
A chiarirci l’idee è la diretta interessata. Infatti, sempre nella sopraccitata intervista, Emma Bonino chiarisce:”Un figlio è un rimpianto che non ho”.
Meno male, che spavento ci eravamo presi!

Nessuna pietà per Eluana

La magistratura italiana, ha scritto l’Economist qualche settimana addietro, detiene un potere unico in Occidente. Ebbene, mercoledì i nostri giudici – evidentemente non sazi degli stipendi da capogiro – si sono arrogati, nel pronunciarsi sul caso di Eluana Englaro, un’altra facoltà: quella di decidere quando una vita è degna di esser vissuta.
Ai tre giudici della Prima sezione della Corte d’Appello di Milano sono bastate 61 pagine per sciogliere il rompicapo sul quale, da decenni, studiosi di bioetica da ogni parte del mondo profondono le loro energie; 61 pagine che, in larga parte, riprendono la sentenza n. 21748 ( Relatore A. Giusti) che la Corte di Cassazione ha emesso lo scorso 10 Ottobre. Chi avesse letto quella sentenza, che rappresenta una vera e propria svolta per la nostra giurisprudenza, certo ne ricorderà le contraddizioni, incautamente confermate due giorni fa.
Anzitutto, in quella sentenza la Cassazione ha stabilito, in barba a diversi pronunciamenti del Comitato Nazionale di Bioetica, che alimentazione e idratazione non sono, come il buon senso stesso ci suggerisce, sostegni vitali, bensì soluzioni terapeutiche. Non contenti, i giudici si son spinti fino a definire l’irreversibilità di uno stato vegetativo. Straordinario: così facendo, la magistratura è riuscita dove anche la comunità scientifica, al momento, è incapace. Infatti, come ha giustamente ricordato anche Vincenzo Carpino, presidente dell’Aaroi, acronimo che sta per Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani, “non esistono criteri precisi per accertare con sicurezza uno stato vegetativo permanente. Mancano parametri scientifici e quindi protocolli di riferimento” (Corriere della Sera, 17/10/07, p.3). E’comprensibile che i medici, dopo casi come quello di Jan Gbzebsky, svegliatosi dal coma dopo 19 anni, non se la sentano di definire, per lo stato vegetativo permanente, parametri di irreversibilità. Parametri che invece esistono per definire la morte cerebrale totale, quella che purtroppo definisce l’irreversibilità del coma.
La differenza tra morte cerebrale totale e morte corticale, cioè quella che determina gli stati vegetativi come quello di Eluana, è nota da tempo: la stessa Legge sui trapianti vi fa riferimento. Col pronunciamento della Cassazione, però, questa dicotomia, che i medici conoscono bene, è stata giuridicamente distrutta. Sulla base di queste a dir poco strampalate valutazioni, i magistrati hanno poi stabilito che, poiché vi sarebbero testimonianze convergenti che riferirebbero la contrarietà espressa da Eluana ad essere mantenuta in vita qualora si fosse trovata in stato vegetativo, giustizia vuole che queste volontà vengano rispettate.
I nodi critici, già presenti nelle traballanti premesse della sopraccitata sentenza, esplodono qui in tutta la loro gravità: com’è possibile ricostruire, affidandosi a testimonianze risalenti a decenni fa, la volontà di una persona, per giunta su un argomento spinoso quale è lo stato vegetativo che – lo ricordiamo – è cosa altra da coma irreversibile? Ma soprattutto com’è possibile che le volontà – espresse oralmente in circostanze non meglio precisate – di una persona, possano decretarne il destino?
Altro che testamento biologico, qui siamo alla barbarie: d’ora in poi, se l’obbrobrio posto in essere dalla Corte d’Appello di Milano dovesse essere confermato, ciascuna delle 1500 persone che in Italia vivono la stessa condizione di Eluana è da considerarsi in pericolo; basterebbe infatti che un loro congiunto si facesse avanti rammentando – a nome dell’interessato in stato vegetativo – un presunto interesse di quest’ultimo a rifiutare tale condizione, e il malcapitato sarebbe lasciato morire, proprio come toccherà alla povera Eluana, di fame e di sete, in una straziante agonia.
Il paradosso è che quanti vedono in questo infausto pronunciamento della magistratura un successo, hanno pure il coraggio di evocare espressioni strappalacrime come “morte dignitosa”, evidentemente inconsapevoli di quanto atroce possa essere un travaglio quale sarà quello di Eluana qualora il padre, forte del nullaosta della magistratura, decidesse di procedere con la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione.
A intristire, se possibile, ancor più questa dolorosa vicenda, ci si è messa pure la macchina mediatica, sempre pronta a sacrificare il dolore altrui sull’altare della notizia; per giunta, l’informazione di stampa e telegiornali ha tratteggiato la vicenda di Eluana, travisandola, come uno scontro tra la magistratura italiana – quella sì Sacra e Indipendente – e il sempre pugnace “Vaticano”.
Chi lo spiega ai giornalisti che il Vaticano è uno Stato e che non sono solo “le gerarchie ecclesiastiche” a propugnare ragioni – peraltro sostenibilissime sul piano razionale – di indisponibilità della vita umana? La storia della crociata tra laici e cattolici, francamente, ha fatto il suo tempo.
Meglio concentrarsi sulla realtà delle cose e pregare per l’unica vera vittima di questa triste storia, lei che, mentre il mondo si affanna a programmarle il destino, respira immobile in un letto, abbracciata ogni giorno di più dall’Amore del Padre.

Un albero contro i “verdi”

Poveri ambientalisti, la natura che tanto venerano sembra averli presi proprio di mira, sbugiardando una ad una tutte le loro tesi.
Loro predicano lo scioglimento delle calotte polari e, mentre il Polo Nord rimane al suo posto, l’Antartide fa registrare un aumento dei ghiacci del 10%.
Loro predicano la desertificazione e s’è vista – almeno in Italia – una delle primavere più piovose degli ultimi decenni.
Loro predicano il disastro ambientale e, dati alla mano, cala il numero delle vittime del clima.
Come se non bastasse, a sconfessare l’allarme principe degli ambientalisti, quello del global warming, ci si è messo pure un albero. Ma sì, avete letto bene: c’è un albero, per la precisione un abete, che contraddice in pieno Al Gore, Pecoraro Scanio e via dicendo.
Com’è possibile? Semplice: questo abete, situato sulle pendici del Monte Zulu, in Svezia, ha la bellezza di 9500 anni di età. E’ l’essere vivente più vecchio della Terra. Ma non è tanto questo il punto: il fatto è che, come sostiene Leif Kullman, insegnante di Geografia fisica all’Università di Umea, nonché scopritore del prodigioso abete, quell’albero non dovrebbe trovarsi lì. Le condizioni meteorologiche – sostiene Kullman – sono troppo rigide e quindi non si spiega, se non ipotizzando che 9500 anni fa vi fosse più caldo che adesso, la presenza di questo albero plurimillenario. Ma com’è possibile che 9500 anni fa, senza fabbriche, auto, petrolio e altri agenti inquinanti, le temperature fossero più calde di quelle odierne? I catastrofisti dell’ambiente sono pregati di rispondere. Noi aspettiamo, l’abete svedese pure.

Diritti umani al primate, ma quali diritti all’uomo?

L’approvazione avvenuta ieri, ad opera del Parlamento spagnolo, che prevede l’estensione della tutela dei “diritti umani” ai grandi primati , oranghi, gorilla e scimpanzé, deve essere guardata con preoccupazione, perché rappresenta l’ennesima conferma ad una tendenza culturale pericolosa, e cioè quella dell’equiparazione tra l’uomo e l’animale. Poco importano, in questo senso, le parentele biologiche – reali o presunte – tra l’uomo e il primate: la decisione di approvare il progetto Gran Simios costituisce, comunque la si pensi su Darwin ed evoluzionismo, un regresso della civiltà, perché nega un fatto di per sè evidente: gli esseri umani sono diversi, ma soprattutto sono ontologicamente superiori al mondo animale, anche alle sue espressioni più evolute.
Oggi anche epistemologi come John Searle ci spiegano e di dimostrano, in modo del tutto “laico” – per usare un aggettivo in voga – come la ragione costituisca patrimonio esclusivo degli esseri umani (Cfr. J. Searle, La razionalità dell’azione, Raffaello Cortina), che non a caso occupano il vertice, quanto a importanza, della piramide dei viventi. Ciononostante, la tendenza ad estendere al mondo animale diritti per antonomasia riservati alle persone, sembra non conoscere battute d’arresto.
Non solo. Accade di peggio: mentre l’ombrello della tutela giuridica si amplia in favore degli animali, sono gli esseri umani ad esserne progressivamente esclusi. Pensiamo all’aborto. Le stime planetarie più caute parlano, rifacendosi a dati del 2003, di 41.6 milioni di aborti annui ( Cfr. Lancet 10/2007, 370:1338-1345): un genocidio di proporzioni tremende, superiore ad ogni altro. E l’Occidente, forte delle proprie conquiste economiche e tecnologiche, che fa? Si adopera per contrastare questa strage? Manco per sogno.
Si serve delle proprie istituzioni più autorevoli – Onu e Ue in testa – per finanziare politiche abortiste ai danni del Terzo Mondo, e nel frattempo pensa a come meglio tutelare gli animali. Capiamoci: è senza dubbio importante coltivare un rapporto armonioso col mondo animale evitando, se possibile, abusi e violenze.
E’ lo stesso Dio, nell’Antico Testamento, a vietare ad esempio l’uccisione degli animali per soffocamento e a ordinare che animali così violentemente uccisi non vengano mangiati. Gli fa eco San Tommaso quando scrive che è dovere dell’uomo e della sua ragionevolezza uccidere, quando necessario, gli animali nel modo più rapido ed indolore (Cfr. S. Th. , I-II, q. 102, aa. 6 – 8). Il problema è che oggi accade l’esatto contrario: gli esseri umani – specie coloro che dovrebbero essere più tutelati perché più giovani e innocenti – subiscono, nell’indifferenza generale, atrocità di ogni genere: dall’aborto allo sfruttamento minorile, dalla pedofilia (che qualche “illuminato” ha proposto di legalizzare) a veri e propri commerci, mentre agli animali vengono elargiti diritti dei quali nessuno, nemmeno loro, sente in bisogno. Quale logica soggiace a queste paradossali manovre? E’ un caso che a ideare severe normative a protezione degli animali sia stato, a suo tempo, il governo presieduto da Adolf Hitler?

GLOBAL WARMING, LA GRANDE BUGIA

I più accaniti tra gli ambientalisti non perdono occasione per ricordarci che dobbiamo ravvederci, e al più presto. Altrimenti – ci viene detto – tra pochi anni, al massimo tra qualche decennio, la Terra vivrà una vera e propria apocalisse: l’inarrestabile aumento delle temperature porterà, in tempi rapidissimi, ad un innalzamento del livello dei mari che costerà la vita ad un gran numero di esseri umani; alla Conferenza sul clima tenutasi a Bali qualche mese fa, si è addirittura stimato che da qui al 2070 sarebbero 150 milioni le persone minacciate dall’innalzamento dei mari. Tutto questo a causa della nostra sciagurata condotta di vita: è colpa delle nostre automobili e del nostro inquinamento, denunciano gli amanti dell’ecologia, se il clima terrestre sta cambiando, e in peggio. Per la convinzione con la quale queste tesi vengono portate avanti, e per come vengono puntualmente sposate da giornali e televisioni, verrebbe davvero voglia di crederci. E molti, difatti, ci credono. Peccato che quella del riscaldamento globale di matrice antropica, provocato cioè dall’uomo, sia una bufala grande come una casa. Se questo fosse vero, sarebbero di questi anni le temperature record. Invece, se si da una sbirciatina a quello che dicono i dati, si scopre che la realtà è un’altra. La temperatura più alta mai rilevata in gradi Celsius, stando alle rilevazioni dal 1880 al 2005, risale addirittura agli anni ‘20: precisamente al 13 settembre 1922, quando, ad Al’azizyah, in Libia, la colonnina di mercurio segnò 58 gradi (Cfr. Battaglia – Ricci, Verdi fuori rossi dentro, Free Foundation 2007). Anche la temperatura dell’intero pianeta non ha toccato gli apici di recente. Come ha dovuto ammettere persino James Hansen, direttore dell’Istituto Goddard della NASA, nonchè una delle fonti preferite di Al Gore, i dati della temperatura globale indicano che il decennio più caldo da qui a centinaia di anni, sono stati gli anni ‘30 e non gli anni ’90. E, piaccia o meno alla propaganda ambientalista, l’anno più caldo per la Terra è stato il lontano 1934. Stiamo parlando di anni nei quali circolavano molto meno di un millesimo delle automobili che circolano ora, anni nei quali non esistevano un centesimo delle industrie di oggi, eppure la temperatura era più alta: com’è possibile, se davvero il riscaldamento è causato dell’uomo? I teorici del global warming, devono fare i conti anche con un’altra rilevazione al quanto problematica per chi asserisce che siano le emissioni antropiche a riscaldare il pianeta: tra il 1940 e il 1975, durante cioè il periodo del boom economico che seguì la seconda Guerra Mondiale, la Terra si è raffreddata. Nessuno può negare che, in quei trentacinque anni, l’esplosione demografica e industriale abbia prodotto inquinamento a dismisura, eppure il pianeta anziché riscaldarsi si raffreddava. Altro dato che smentisce la vulgata catastrofista è l’aumento, sulla Terra, della copertura verde: dall’82 al ’99, dicono le rilevazioni satellitari, il verde planetario è cresciuto del 6%! Purtroppo, a smentire l’idea che la terra si stia surriscaldando, ci sono anche delle vittime: nel maggio 2007, a Buenos Aires (dove non nevicava dal 1918), sono morte di freddo 34 persone.
Sarebbe bello sapere cos’ha da dire al riguardo il simpatico Al Gore che da sei anni a questa parte, con la storiella del riscaldamento globale, ha intascato la bellezza di 80 milioni di euro. Una somma di denaro sufficiente a farci dubitare dell’assoluta genuinità delle sue prese di posizione che, come vedremo tra breve, di scientifico hanno ben poco. Beninteso: Al Gore fa benissimo a ricordare al pubblico delle proprie conferenze che il pianeta va rispettato, ci mancherebbe. I proclami dell’ex rivale di Bush sono però meno condivisibili laddove essi, come si vede tra l’altro nel suo film An Inconvenient Truth, tirano in ballo un’unanimità della comunità scientifica sui cambiamenti climatici che è ben lungi dall’essere raggiunta. Ma Al Gore non è certo uno sprovveduto, e sa benissimo di poter contare sul consenso dell’Ipcc, acronimo che sta per Intergovernmental Panel on Climate Change. Trattasi di un organo consultivo dell’Onu istituito nel 1988 appositamente per studiare i mutamenti climatici. Il punto è proprio questo: l’Ipcc, contrariamente a ciò che molti credono, non è un comitato scientifico, non vi si accede cioè per aver firmato studi e pubblicazioni di qualità. Chi avesse tempo e voglia di sfogliarsi i curricula dei membri dell’Ipcc scoprirebbe, con non poca sorpresa, che molti non sono nemmeno scienziati. E comunque, tra gli stessi scienziati che collaborano con l’Ipcc, tutto c’è fuorché accordo unanime, specie per quanto concerne le cause e le conseguenze del riscaldamento globale. Il professor John R. Christy, per esempio, direttore dell’Earth System Science Center dell’Università dell’Alabama e membro dell’Ipcc sostiene, testualmente, che “il pianeta non si sta riscaldando”. Sempre Christy lamenta: “In un recente reportage della Cnn sul “pianeta in pericolo” non si fa altro che parlare dello scioglimento dei ghiacci artici. Non si dice nulla, però, di quelli dell’Antartico, dove il mese scorso è stato raggiunto il massimo storico di congelamento dei mari” (Il Giornale 4/11/2007). Lo scioglimento dei ghiacci, lo ricordiamo, viene interpretato da Al Gore e dagli ambientalisti come diretta conseguenza delle emissioni antropiche di CO2. Il professor Syun-ichi Akasofu, direttore dell’International arctic research center con sede in Alaska, il maggior centro di ricerche artiche del mondo, però non la pensa affatto così, e afferma che quello scioglimento dei ghiacci è un fenomeno che sarebbe incauto ascrivere alle attività umane; sembra dargli ragione una ricerca recentemente pubblicata su Geophysical Journal International, nella quale si è scoperto che lo scioglimento dei ghiacci, in realtà, avviene a un ritmo tre volte inferiore a quello pronosticato dai catastrofismi (Cfr. Panorama 1/11/2007). Di atteggiamento estremamente cauto rispetto al fenomeno dello scioglimento delle calotte polari, che i più credono causato dalle attività umane, è sempre stato anche il professor Antonino Zichichi, presidente della World federation of scientists. Ma torniamo all’Ipcc e ricordiamo che, oltre lo scioglimento dei ghiacci, questo comitato addebita all’attività umana anche il manifestarsi di precipitazioni e uragani, che sarebbero in aumento. Non la pensano così due eminenti figure come Richard Lindzen, professore di Scienze Atmosferiche al MIT di Boston e Christopher Landsea del National oceanic and atmospheric administration, uno dei massimi esperti mondiali di uragani tropicali. Costoro, proprio per il loro aperto dissenso dalle conclusioni riportate nei rapporti dell’Ipcc, hanno preferito dimettersi. Landsea, quando lasciò l’Ipcc, il 17 gennaio 2005, parlò persino di manipolazioni di dati scientifici da lui elaborati. Anche il noto climatologo australiano John Zillman si è dimesso dall’Ipcc denunciandone una deriva ideologica. Secondo Yves Lenoir, ricercatore presso l’Ecole nazionale supérieure des mines de Paris nonché militante in un’associazione ecologista francese, l’Ipcc altro non è che una “tecnocrazia nel senso cl
assico del termine
”, impegnata solo a inventare “un discorso che le da ragione” e a imbastire “progetti scientifici a lungo termine destinati innanzitutto a ottenere finanziamenti” (Cfr. Cascioli – Gaspari, Le bugie degli ambientalisti, Piemme 2004). Anche noti due geologi italiani, Franco Ortolani dell’Università Federico II e Uberto Crescenti, ex presidente della Società Italiana di Geologia, hanno apertamente denunciato l’inconsistenza scientifica dei rapporti dell’Ipcc. Di queste nette prese di posizione degli studiosi del clima, che molto dicono sull’attendibilità scientifica del global warming, nessuno parla. Gore, nel suo film, arriva addirittura ad affermare che le pubblicazioni in materia di cambiamenti climatici denunciano all’unanimità come le attività umane ne siano la cagione. Incuriosito da questa sottolineatura, il dottor Klaus-Martin Schlte ha deciso di andare a controllare. Sapete cos’ha scoperto? Negli ultimi tre anni, dei 539 trattati sul cambiamento climatico, appena il 7% appoggia esplicitamente la teoria del riscaldamento globale di origine antropica. Da buon politico, anche in questo caso Al Gore l’ha sparata grossa; del resto, per comprendere quanto sia credibile l’ex vicepresidente degli States, è sufficiente riportare quanto ha scritto su di lui Mario Giordano: “Usa Today, il più famoso quotidiano d’america,va a verificare e scopre che pure Al Gore non fa abbastanza per l’ambiente. Le sue due megaville, per esempio, una di 10 mila metri quadrati, 20 stanze e 8 bagni a Nashville e una di 1500 metri quadrati ad Arlington sono tutt’altro che ecofriendly: consumano più energia di una centrale. E sulle sue proprietà c’è addirittura una miniera di Zinco, la Pasminco Zinc, che gli versa 20 mila dollari di royalties l’anno per poter scaricare indisturbata grandi quantità di sostanze tossiche nei fiumi […] Un gruppo del Tennesse gli ha persino assegnato l’Oscar all’ipocrisia 2007. E’ la verità. O, meglio, come direbbe lui, una scomoda verità” (M. Giordano, Senti chi parla, Mondadori 2006).
Fortunatamente, anche molti organi di stampa europei stanno cominciando a muoversi per sbugiardare la bufala del riscaldamento globale: in Germania, sia il popolare Bild, sia il Frankfurter Allgemeine Zeitung, da tempo dubitano delle tesi di Al Gore, e così il Telegraaf in Olanda e il De Morgen in Belgio. In Italia, come al solito, le notizie filtrano a fatica, anche se qualche voce fuori dal coro inizia coraggiosamente ad alzarsi; non tutte le bugie, ahinoi, hanno le gambe corte. La responsabilità di questo, occorre dirlo, è in buona parte da ascrivere alle stesse riviste scientifiche:sia il dottor Benny Peiser, docente presso la facoltà scientifica dell’Università John Moores di Liverpool, sia Dennis Bray, un climatologo tedesco, quando hanno tentato di pubblicare studi nei quali veniva dimostrato come è solo una sparuta minoranza della comunità scientifica quella che crede al global warming descritto da Gore, si sono visti sbattere la porta in faccia. Roy Spencer dell’Università dell’Alabama, un’autorità nel campo delle misurazioni satellitari del clima, è giunto a denunciare apertamente Science, bibbia della scienza mondiale, che, a detta sua, da tempo pubblicherebbe esclusivamente studi favorevoli alla teoria del riscaldamento globale di matrice antropica, ignorando tutti gli altri (Cfr. T. Bethell, Le balle di newton, Rubettino 2007). Ma perché mai fior di scienziati e riviste scientifiche, si starebbero facendo promotori di una teoria, quella del riscaldamento globale, alla fin fine minoritaria e dalle dubbie basi scientifiche? Chi e cosa ci guadagna da queste menzogne? Una risposta sembra arrivarci da Fred Singer, celebre fisico dell’atmosfera nonché scienziato “ribelle” dell’IPCC: “Il fatto è che la questione ambientale è diventata remunerativa […] L’amministrazione americana spende ogni anno due miliardi di dollari per le questioni climatiche […] Ci sono agenzie, associazioni che vivono di questa emergenza. E molti giovani scienziati americani e stranieri hanno paura di esporsi perché finirebbero per perdere i fondi del governo” (Il Giornale 19/06/08). Un colossale giro d’affari che vive della paura della gente e che non ha basi scientifiche, ecco cos’è in sostanza il riscaldamento globale. Viene da chiedersi se non vi siano, oltre a quelli meramente economici, anche altri interessi, nella diffusione di questo catastrofismo ambientalista.