(4) LE DRAMMATIZZAZIONI MORALI MEDIEVALI E RINASCIMENTALI
Le cosiddette ‘Morali’ si sono generate e sviluppate a partire dai ‘Miracoli’ teatrali medievali nel XV e XVI secolo e li hanno affiancati fino a sopravvivere alla loro scomparsa. Si tratta di rappresentazioni teatrali destinate a rafforzare una verità morale, dove gli attori non raffigurano personaggi umani ma vizi e virtù personificate, o anche qualità umane o concetti mentali: la fede, la speranza, la carità, il peccato, la costanza, la ragione, etc. Alcuni attori tuttavia rappresentavano personaggi reali come sacerdoti e dottori, o anche angeli e diavoli, e, specialmente in Inghilterra, il giullare o il buffone.
Lo scopo era sempre religioso: mentre le sacre rappresentazioni raffiguravano i fatti biblici o quelli della vita dei senti, le Morali cercavano di mostrare l’applicazione della fede alle questioni della vita.
Si trattava dunque di una rappresentazione allegorica. L’allegoria (dal greco “ἄλλος”, che significa altro, differente, e “ἀγορεύω”, che significa parlare in assemblea) era una figura retorica cara al Medioevo, in quanto molto usata per l’interpretazione delle Scritture. Il suo uso nel teatro era dunque consono alla mentalità generale, specialmente quella coltivata nelle scuole monastiche e nelle università.
Quattro grandi tematiche si mettono in rilievo nella vasta produzione di drammi morali: il dibattito sulla Grazia divina, la venuta della morte, il conflitto tra vizi e virtù, e il dibattito tra anima e corpo.
Una delle prime Morali era dedicata alla preghiera del Padre nostro e in Inghilterra si ha notizia di una gilda formata apposta a York per garantire la rappresentazione di quest’opera. Un’altra Morale riguardava il Credo.
Una delle prime di cui è rimasto il testo completo, datato intorno al 1430, è quella denominata Il castello della perseveranza: un’opera in 3650 versi che narrano la storia spirituale dell’umanità, personificando i guai che caratterizzano il suo percorso e l’importanza della confessione e del pentimento. I personaggi erano: Umanità (Mankind), Belial, Mondo (World), Angelo Buono, Angelo Malvagio, Sette peccati capitali, Virtù, Morte, le quattro figlie predilette di Dio (Verità, Misericordia, Giustizia, Pace) e Dio. La scena finale rappresenta la discussione tra Verità e Giustizia, che decretano la condanna di Umanità peccatore, e Misericordia e Pace, che invocano il perdono del condannato; non trovando un accordo, esse si recano da Dio stesso per chiedere che emetta il verdetto finale. Il manoscritto è di particolare importanza per la storia del teatro perché contiene un disegno sulla disposizione della scena.
Altre Morali a noi note parlano di Mente, volontà e comprensione, o Il mondo e il fanciullo, o Santa Maria Maddalena, o i Sacramenti.
Col tempo le Morali cambiarono il loro contenuto da quello religioso a quello secolare, in corrispondenza del pensiero rinascimentale. La loro durata fu più breve, gli attori divennero professionisti che lavoravano per le corti dei nobili e dei regnanti, il loro numero si ridusse all’essenziale, a causa dei costi. Il loro nome cambiò in Interludi. Divennero esortazioni moralistiche, come quelle che insegnavano a evitare certi peccati o ad applicarsi nello studio. Influirono molto sulla storia del dramma profano successivo.
Tornando alla natura che questo tipo di dramma aveva nel Medioevo, si deve osservare anzitutto che le sue finalità erano chiaramente didascaliche ed istruttive. Esso tendeva a completare il genere delle Sacre Rappresentazioni, dove sembrava esserci poco spazio per la riflessione sui concetti fondamentali della morale che pure in esse era contenuta. Anche qui dunque si manifesta la tendenza del grande Medioevo dei secoli XII e XIII a sviluppare la riflessione razionale sui contenuti della fede. Dare voce a questi contenuti, mostrarne l’azione e l’efficacia dentro la vita, dare loro per così dire la possibilità di esprimersi, è senza dubbio un punto di forza di questa forma teatrale insolita.
Tuttavia il teatro allegorico mostra dei limiti intrinseci che indeboliscono la natura stessa dell’azione drammatica: questa infatti è per sua natura rappresentazione di un avvenimento, vissuto da uomini reali e da soggetti soprannaturali reali; è attraverso questi soggetti reali e le loro azioni che divengono visibili anche i vizi e le virtù, non però come persone, perché tali non sono, ma come dimensioni o qualità (debolezze o energie, falsità o verità, mancanze o doni) che riguardano le persone reali. E’ ben vero che in Dio la virtù della carità coincide con una Persona, cioè lo Spirito Santo, e che la Verità pure coincide con una persona, cioè il Verbo, ma proprio per questo non possono essere raffigurate da figure personali ‘impersonali’. In fin dei conti veniva trascurata una grande verità insegnata dal più grande teologo medievale, vale a dire S.Tommaso D’Aquino:
Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet substantia in natura rationalis (persona significa ciò che c’è di più perfetto in tutta la natura, vale a dire una realtà sostanziale in una natura razionale).
E’ dunque dentro l’azione della persona reale che la realtà si rende comprensibile. Le Morali ci insegnano comunque che i grandi concetti della fede e dell’etica vanno insegnati ed esplicitati, perché tutti li possano conoscere; il teatro dei Misteri e dei Miracoli ci insegna che questo dovrebbe passare sempre attraverso la rappresentazione di ciò che accade a delle persone reali. Si può concludere che la preoccupazione del teatro morale richiama il teatro di azione a rendere chiara e percepibile la verità che intende comunicare. Nel teatro greco questa forma di insegnamento era spesso affidata al coro, oltre che a qualche battuta dei personaggi: è un suggerimento da riprendere, senza però perdere di vista l’esigenza suddetta che questo insegnamento sia chiaro e ben percepibile.
(5) W.SHAKESPEARE: “Amleto“
Shakespeare ha la straordinaria capacità di trasformare i pensieri, i sentimenti, l’inconscio e il subconscio dei suoi personaggi in un libro aperto: ciò che nei nostri dialoghi umani di solito è mascherato e invisibile, sebbene in qualche modo percepito da tutti inconsciamente, nei drammi del drammaturgo inglese diventa un gioco a carte scoperte. Egli non si preoccupa di elevare tutta questa sconfinata spiritualità sommersa verso la sua liberazione e il suo compimento, ma si dedica interamente al compito di rivelarla, di metterla a nudo, di farla esprimere, di metterla alla luce del sole. Egli non cerca la salvezza di questa realtà, si ferma prima: cerca di osservarla, di registrarla, di far sapere che c’è e com’è. Non si può cercare in Shakespeare una guida verso la verità, egli non pretende in nessun modo di esserlo; egli si accontenta di svolgere un compito preliminare, cioè di mettere in scena ciò che noi tendiamo a nascondere perché non si scopra ciò che siamo, ciò che sentiamo, ciò di cui siamo colpevoli, ciò di cui abbiamo bisogno.
Tutta la vita ‘borghese’ si basa su questo nascondimento, che oggi è diventato fenomeno cosiddetto di massa: nessuno rivela se stesso, perché solo così ciascuno può far credere a se stesso e agli altri di essere diverso da quello che è, cioè di non essere un problema, un dramma, un abisso, una domanda, un bisogno totale di un Altro.
Shakespeare dunque è educativo, perché smaschera. E’ un’operazione insufficiente, ma necessaria. E’ insufficiente perché ciò che di noi stessi viene smascherato rimane comunque un enigma, che da soli non riusciamo a capire e a comporre. E’ necessaria, perché l’ipocrisia e il nascondimento, che Gesù rinfacciava ai farisei, impedisce in partenza ogni ingresso della salvezza nella nostra casa. Se il problema è scoperto, almeno ci rendiamo conto che c’è e che abbiamo bisogno di un Altro per risolverlo; diversamente viviamo nell’illusione collettiva di un mondo fasullo e crediamo di non avere bisogno di nessuno. All’epoca di Shakespeare si copriva la sporcizia del proprio corpo con abbondanti profumi, rendendo ancora più pietosa la condizione umana: allo stesso modo il mondo borghese cerca di nascondere la sua penosa miseria, ma può ingannare solo chi rinuncia alla sincerità e all’uso della ragione.
Amleto è spietato nel compiere questa opera di smascheramento. Il suo dramma è diventato il vero e proprio simbolo dell’epoca moderna, dell’uomo che non sa più chi è, perché è, da dove è, verso dove è:
AMLETO: Essere o non essere, questo è il problema. ? forse più nobile soffrire, nell’intimo del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna, o imbracciar l’armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e, combattendo contro di esse metter loro una fine? Morire, dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! […] Chi s’adatterebbe a portar cariche, a gèmere e sudare sotto il peso d’una vita grama, se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte – quel territorio inesplorato dal cui confine non torna indietro nessun viaggiatore – confonde e rende perplessa la volontà, e ci persuade a sopportare i malanni che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri dei quali ancor non sappiamo nulla. A questo modo, tutti ci rende vili la coscienza, e l’incarnato naturale della risoluzione è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero, e imprese di gran momento e conseguenza, devìano per questo scrupolo le loro correnti, e perdono il nome d’azione.
L’uomo moderno è dominato dal pensiero dell’assurdità del male e della morte. Tenta continuamente di esorcizzarli, sforzandosi di accettarli come elementi naturali inevitabili o di superarli con le proprie forze. Ma il risultato è costantemente un non sapere e un dibattersi nell’assurdo.
E’ dunque il dramma dell’uomo che si credeva autonomo e autosufficiente, e scopre invece l’abisso del proprio male e del proprio nulla, e non riesce a venirne fuori, perché ultimamente non vuole obbedire all’Unico che lo può liberare:
RE: Oh, il mio crimine è lurido, fa salire il suo fetore fino al cielo;
ha su di sé la più antica e primordiale maledizione.
L’assassinio di un fratello!
Non posso pregare, benché il mio desiderio sia acuto quanto la volontà;
la mia colpa è più forte del mio intento e lo sconfigge;
e come un uomo legato ad un duplice interesse,
sto fermo in mezzo, là dove dovrei cominciare, così che entrambi sono negati.
[…]
La mia colpa è compiuta. Ma, oh, quale genere di preghiera può aiutarmi? ‘Perdona il mio turpe assassinio!’: questa non posso farla, perché sono ancora in possesso di quegli effetti per cui ho fatto l’assassinio
– la mia corona, la mia ambizione,e la mia regina.
Può uno essere perdonato e permanere nel crimine?
Nelle vie corrotte di questo mondo la mano dorata del crimine può gettare da parte la giustizia,
e spesso s’è visto che il premio maledetto stesso può comperare la legge, ma non accade così lassù. Là non c’è alcun sotterfugio. Là l’azione rivela la sua vera natura,
e noi siamo costretti,
davanti alle nostre colpe interamente scoperte,
ad arrenderci all’evidenza.
Cosa allora? Cosa rimane da fare?
Provare cosa può il pentimento. Cosa non può fare?
Ma cosa può fare quando uno non può pentirsi?
Oh situazione maledetta! Oh interiorità nera come la morte!
Oh anima coperta di calce, che lottando per essere libera ti rendi sempre più schiava!
Oh angeli, aiutatemi, a fare un tentativo.
Piegatevi, ginocchia testarde; e cuore dalle corde d’acciaio, sii morbido come le membra di un bimbo appena nato!
Tutto può essere bene.
(si inginocchia)
[…] Le mie parole volano verso l’alto, ma i miei pensieri rimangono verso il basso.
Le parole senza i pensieri non vanno mai in cielo.
Per rendere il Re consapevole del suo delitto, Amleto ricorre allo stratagemma della rappresentazione teatrale del delitto stesso (il cosiddetto teatro nel teatro): è forse questo il centro del dramma, il momento in cui l’uomo è messo di fronte a se stesso e finalmente ‘vede’ se stesso e il proprio male. E la stessa cosa vale per la madre, verso la quale Amleto ha parole terribili:
AMLETO: Andiamo, siediti. Tu non ti muoverai, e non uscirai di qui prima ch’io t’abbia messo davanti uno specchio nel quale potrai vedere la parte più segreta di te stessa. […] cessa di torcerti le mani. Sta’ zitta, siediti! E lascia che sia io, invece, a torcerti il cuore, perché è questo che voglio fare […]. Questo era tuo marito. Vedi, in quest’altra immagine, chi lo seguita! Ecco qui il marito che hai ora, simile ad una spiga di grano imputridita che infetta l’aria salubre. […]
REGINA: O Amleto, non parlare più: tu prendi i miei occhi e li fai rivolgere a guardar dentro la mia stessa anima, e quivi io vedo tali macchie nere e vermiglie che non scoloriranno mai.
E’ ancora il dramma dell’uomo che crede di poter misurare tutto con la propria misura, e invece scopre che l’essere misterioso lo supera continuamente e infinitamente:
AMLETO: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante vengono sognate nelle vostre filosofie.
Il dramma finisce in tragedia: anche se giustizia è fatta, l’uomo è perduto. Amleto si erge davanti ai secoli moderni come una domanda aperta, un grido che attende risposta. E rende evidente che il fondo del problema è la libertà dell’uomo, bloccata in un vicolo cieco, ma desiderosa di una salvezza e di una strada che possono venirle solo dall’alto. L’uomo è colpevole dei suoi misfatti, compiuti liberamente; ma nello stesso tempo è come se non fosse più libero o capace, da solo, di rimettersi in cammino.
(6) W.SHAKESPEARE: “Romeo e Giulietta”
Anzitutto va osservato che la tragedia di Romeo e di Giulietta, benché ambientata nel Medioevo, riflette una cultura e una mentalità che non sono più quelle medievali, ma quelle dell’epoca moderna in cui Shakespeare vive e di cui tratteggia apertamente i lineamenti non sempre visibili. Benchè infatti la vicenda abbia tra i personaggi principali il francescano padre Lorenzo, e benché si accenni spesso al cielo divino e alla vita ultraterrena, Gesù Cristo è completamente assente e anche la figura generica di Dio non occupa mai un posto centrale nella vita di nessun personaggio, frati compresi, ed è anzi ridotto ad una forza oscura simile alla moira greca; l’idea cristiana di Dio come Provvidenza, Presenza e Amore è ridotta ad un vago ricordo:
GIULIETTA: Non c’è pietà lassù tra le nubi, che veda dentro il fondo del mio dolore?
La preghiera non compare praticamente mai, se non in fugaci battute che non hanno nulla di evangelico. La concezione dell’amore è puramente naturalistica, senza alcun riferimento alla caritas cristocentrica di cui tutto il Medioevo è pervaso. Non c’è nessuna citazione della Bibbia. Inoltre si fa ricorso al suicidio con una determinazione che è lontana anni luce dalla cultura medievale e si riconduce direttamente alla visione del mondo della tragedia greca o dello stoicismo di Seneca.
Per tutto questo si può dire che questo celeberrimo dramma shakespeariano documenta in modo evidente il passaggio radicale di mentalità verificatosi tra il Medioevo e l’epoca moderna: da una concezione della vita in cui Dio era l’ideale unificante di tutti gli aspetti dell’esistenza e di tutti gli uomini che lo riconoscevano, ad una visione ‘naturalistica’ della vita, in cui il valore di ogni persona umana è determinato dalla sua riuscita in qualche aspetto dell’esistenza (sentimenti, potere politico, ricchezza, fortuna, fama, etc) senza legami con nessuno se non sentimentali o politici. Tant’è che in caso di disavventura si ricorre al suicidio, per dire che questa vita non merita di essere vissuta senza conseguire l’obiettivo che ci si è proposto.
In secondo luogo va osservato che Shakespeare, come si è detto sopra, mette allo scoperto l’animo dei suoi personaggi in modo straordinario, facendo vedere allo spettatore ciò che normalmente rimane ben celato o inosservato nelle conversazioni quotidiane. In tal modo, rappresentando di fatto l’uomo moderno, ne mette in luce le miserie, i sotterfugi, le contraddizioni, le aspirazioni, le angosce, mostrando quindi quanto sia ridicola la pretesa borghese di costruire l’uomo libero, perfetto, sciolto dai lacci del passato e proteso verso un futuro radioso costruito con le sue mani. Lo stesso padre Lorenzo, pur essendo cristiano e francescano, è in realtà un uomo moderno, che cerca di risolvere il problema con la saggezza e la scaltrezza umana e non conosce né affidamento alla preghiera né alla grandezza della Chiesa cui pure appartiene.
In terzo luogo il grande scrittore inglese ci offre osservazioni molto efficaci per cogliere la forza impressionante, anche solo a livello naturale, di realtà misteriose che si presentano come dati di fatto poderosi nell’esperienza umana: si tratta in questo caso dell’amore, che costituisce il tema vero e proprio della tragedia. Shakespeare, che non è filosofo, non si addentra nel tentativo di spiegare l’amore, ma, essendo grande poeta, lo descrive nella sua ineludibile realtà, presenza e forza. Come si è detto, non giunge a scrutare l’amore cristiano, ma si sofferma sul livello naturale del suo apparire. Ne registra l’energia, il mistero, il fascino, lo struggimento, la luce, il calore, la volontà che suscita nell’esistenza, in descrizioni in cui gli aspetti vitalistici ed emozionali si mescolano con quelli trascendenti e spirituali:
ROMEO: L’amore è un fumo salito con il vapore dei sospiri; quando viene purificato, è un fuoco che risplende negli occhi degli amanti; quando viene vessato è un mare nutrito dalle lacrime degli amanti; che altro ancora? Una pazzia, la più discreta, un’amarezza che soffoca, è una dolcezza che preserva. Addio, mio cugino!
MERCUZIO: Tu sei un amante; prendi a prestito le ali di Cupido e alzati in volo sopra un comune legame.
ROMEO: Io sono troppo trafitto dal suo dardo per alzarmi in volo con le sue leggere piume, e così legato, non posso superare la mia dura pena: sotto il grande peso dell’amore io affondo.
NUTRICE: Il suo nome è Romeo, e un Montecchi, il figlio unico del vostro grande nemico.
GIULIETTA: Il mio unico amore sorto dal mio unico odio! Troppo presto l’ho visto come sconosciuto, e troppo tardi come conosciuto. Prodigiosa nascita d’amore è per me, che io debba amare un lurido nemico.
GIULIETTA: Soltanto il tuo nome mi è nemico; tu sei te stesso, anche se non Montecchi. […] Romeo, rigetta il tuo nome, e per quel nome che non è parte di te prendi me stessa.
ROMEO: Ti prendo in parola: non chiamarmi che amore, e io sarò battezzato di nuovo; cosicchè non sarò mai più Romeo.
GIULIETTA: Che uomo sei tu che così mescolato con la notte irrompi nel mio spirito?
ROMEO: Con un nome io non so come dirti chi io sono: il mio nome, mia cara santa, è odioso a me stesso, perché è un nemico per te; se l’avessi scritto, lo taglierei a pezzi.
ROMEO: Con le ali leggere dell’amore ho superato queste mura; perché limiti di pietra non possono tener fuori l’amore; e ciò che l’amore può fare, osa tentarlo, perciò il tuo casato non mi ostacola.
GIULIETTA: Se ti vedono, ti uccideranno.
ROMEO: Ohimè, si trova più pericolo nei tuoi occhi che in venti loro spade: guardami, ma dolcemente, e darò prova di me contro la loro inimicizia.
GIULIETTA: Per tutto il mondo non vorrei che ti vedessero qui.
ROMEO: Ho il mantello della notte per nascondermi alla loro vista; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: sarebbe meglio che la mia vita finisse per il loro odio, che la mia morte ritardasse senza il tuo amore.
GIULIETTA: Per quale strada hai scoperto questo luogo?
ROMEO: Per amore, che per primo mi ha spinto a cercare; egli mi ha prestato il suo consiglio e io gli ho prestato gli occhi. Io non sono pilota: ma se tu fossi lontana da me quanto la grande spiaggia bagnata dal mare più lontano, io mi avventurerei per una tale traversata.
GIULIETTA: […] La mia generosità è sconfinata come il mare, il mio amore egualmente profondo; più ne do a te e più ne possiedo, poiché entrambi sono infiniti.
GIULIETTA: […]I messaggeri dell’amore dovrebbero essere pensieri, che volano dici volte più veloci dei raggi del sole, che cacciano via le ombre sopra le confuse colline.
ROMEO: [a padre Lorenzo] Amen, amen! Venga qual pena può venire, essa non può valere quanto la gioia che un solo breve minuto alla sua vista mi dà: unisci soltanto le nostre mani con le tue sante parole, poi la morte divoratrice d’amore faccia ciò che osa; a me basta di poter dire che lei è mia.
Ma il punto di forza maggiore di tutto il testo shakespeariano sta in quei passaggi in cui emerge la stessa intuizione che Leopardi – come si è visto nei capitoli precedenti – scriverà due secoli dopo nelle sue poesie Aspasia e Alla sua donna, vale a dire la scoperta della donna e della vita come segno, cioè come bellezza che rimanda ad una bellezza infinita che sola compie il desiderio:
ROMEO: Oh, ella insegna alle torce a brillare! Sembra che ella penda sulle guance della notte come un gioiello prezioso nell’orecchio di un’etiope: bellezza troppo ricca sda usare, troppo cara per la terra! Così appare una candida colomba in mezzo a delle cornacchie, come la giovane fanciulla al di sopra delle sue compagne. Finita la danza, guarderò il luogo dove si metterà, e renderò benedetta la mia rude mano toccando la sua. Ha mai amato il mio cuore prima d’ora? Smascheralo, vista mia! Poiché io non ho mai visto vera bellezza prima di questa notte.
ROMEO: Due delle più belle stelle di tutto il cielo, avendo qualche interesse, entrano nei suoi occhi per brillare nelle loro sfere finchè ritornano. E se i suoi occhi fossero lassù, ed esse nella sua testa? Lo splendore della sua guancia farebbe vergognare quelle stelle, come la luce giorno quella di una lampada; i suoi occhi in cielo passerebbero attraverso le regioni celesti così brillanti che gli uccelli canterebbero e penserebbero che non sia più notte.
ROMEO: […] Ho sognato che la mia donna arrivava e mi trovava morto – Strano sogno, che dà ad un morto la possibilità di pensare! – e infondeva una tale vita con i suoi baci sulle mie labbra, che io rivivevo ed ero un imperatore. Ahimè! Come è dolce l’amore posseduto, quando anche solo le ombre dell’amore sono così ricche di gioia!
BENVOLIO: Dammi retta, smetti di pensare a lei.
ROMEO: Oh, insegnami come dovrei smettere di pensarci.
BENVOLIO: Ridando la libertà ai tuoi occhi: osserva altre bellezze.
ROMEO: Questo è il modo per chiamare in campo ancor più quella sua squisita. […] chi è colpito dalla cecità non può dimenticare il prezioso tesoro della vista perduta. Mostrami una amante di superiore bellezza, a cosa serve la sua bellezza, se non come una nota dove io posso leggere chi supera quella bellezza? Addio: tu non puoi insegnarmi a dimenticare.
Chi è entrato in questa consapevolezza del reale non vorrebbe più tornare indietro; per questo Romeo si rifiuta di tornare ai discorsi vuoti di sempre:
ROMEO: Zitto, zitto, Mercuzio, zitto! Tu parli di niente.
In conclusione si può considerare quest’opera di Shakespeare come un testo polivalente: un intreccio di tematiche storiche complesse, di forti osservazioni poetiche, di intuizioni potenti. L’attenzione non dovrebbe fermarsi alla trama, poco entusiasmante, ma alle parole più chiare dei suoi protagonisti. E’ richiesto dunque un lavoro serio sul testo più che la sua rappresentazione scenica.
(7) W.SHAKESPEARE: “Re Lear”
Quanto detto sopra a riguardo dello smascheramento dei cuori umani, si ripropone con forza in questa ulteriore tragedia shakespeariana: il mondo è presentato come un palcoscenico sul quale i soggetti umani manifestano una varietà inesauribile di sentimenti, di desideri, di illusioni, di intrighi, di malvagità, di crimini, di tradimenti, di speranze, di sacrifici, di eroismi, di amori, di odi, di pentimenti, di disperazioni…
RE LEAR: Quando veniamo al mondo, noi piangiamo, perché siamo arrivati su questo grande palcoscenico di pazzi […].
L’anziano re, dopo aver diviso il suo regno tra le figlie, pensa di godersi una riverita vecchiaia, ma si trova subito oggetto di emarginazione, disprezzo e complotti di potere di cui le sue stesse figlie sono le protagoniste, eccetto quella che lui ingiustamente aveva allontanato come indegna. Si mette in evidenza la misteriosa libertà degli uomini, che cambia e travolge anche le situazioni più prevedibili. E’ una eruzione continua, che oltrepassa ogni aspettativa dello spettatore. L’ennesimo monito al mondo moderno affinché non si faccia illusioni: il mistero uomo eccede ogni tentativo di misura, di inquadramento, di programmazione.
RE LEAR: I grandi iddii, che mantengono sul nostro capo questa paurosa tempesta, possano subito scovare i loro nemici. Trema, o sciagurato, che in fondo alla coscienza hai delitti ancora non divulgati, e che ancora attendono d’essere frustati dalla giustizia. Nascondimi tu, o mano insanguinata; e anche tu, che hai violato un giramento; e anche tu, che simulando d’esser virtuoso, vivi nell’incesto. E trema fino a cadere in pezzi, tu, che sotto l’apparenza, sotto la maschera dell’onestà, hai insidiato, bensì, la vita dell’uomo. Lacerate i veli di cui pur v’ammantate, o delitti impenetrabili all’occhio, e chiedete pietà con alte grida a questi paurosi sergenti della giustizia. Sono un uomo contro il quale s’è più peccato di quant’io non peccassi! (Atto III, scena II BUR p.174)
Lo sguardo sulla realtà è ostinatamente tragico e non conosce lieto fine. Alla morte di crepacuore del re così esclama il fedele Kent:
KENT: Non affliggete più lo spirito suo. Lasciate che se ne muoia in pace. Ah, che l’odia colui che lo volesse disteso ancora più a lungo sulla ruota di tortura di questo mondo spietato!
Ci si può chiedere se questa visione tragica della vita sia frutto solo della volontà di far rivivere lo spirito della tragedia greca o se non si rifletta in essa un giudizio sull’esistenza in quanto tale. Indubbiamente quando Shakespeare scrive, il sole radioso della speranza cristiana non brilla più sul cielo d’Europa, coperto dalle nubi dense del razionalismo, del nazionalismo, del culto della natura e della fortuna, che costringono l’uomo cinque-seicentesco a riporre in se stesso ogni fiducia per il presente e per l’avvenire. La morte così si delinea come la grande protagonista della storia: con la sua assurdità invincibile rende assurda ogni aspettativa umana. Shakespeare dunque, pur presentando vicende che hanno indubbiamente in certe azioni degli eccessi pessimistici, non esagera sostanzialmente la tragicità della vita reale nei suoi testi. Il vero problema sta nel fatto che manca l’esperienza della resurrezione, che è la risposta cristiana alla tragicità della vita. Cristo muore in croce, e questa è se vogliamo la tragicità suprema della vita, essendo egli il Figlio di Dio; ma Cristo risorge, e questo è l’avvenimento che cambia radicalmente tutta la visione dell’esistenza. Shakespeare credeva in questo avvenimento, ma la cultura del suo tempo, così come la nostra, rendeva molto difficile capire che esso era ed è oggetto di una esperienza già in questo mondo ed è perciò capace di determinare un volto nuovo a tutto il cammino storico dell’uomo. Un’intuizione tenue di questa verità fa però capolino nel prossimo dramma del grande scrittore inglese.
(8) W.SHAKESPEARE: “Enrico V”
Classificato come ‘dramma storico’, narra la vicenda del Re Enrico V d’Inghilterra, conquistatore della Francia nella battaglia di Azincourt (1415) durante la Guerra dei Cent’Anni (1337-1453). Si tratta di una lettura in chiave decisamente patriottica di una delle fasi della guerra più favorevoli alla corona inglese. La Chiesa inglese appare qui dedita alla custodia dei propri benefici e agli interessi della propria nazione più che a quelli dell’intera cristianità, come è logico aspettarsi in un dramma scritto dopo la separazione della Chiesa Anglicana da quella di Roma. Tuttavia, nonostante questi evidenti intenti nazionalistici, nel testo shakespeariano emerge la figura nobile di Enrico V, totalmente dedito al compito a cui è stato chiamato e determinato da una forte coscienza ideale cristiana; così risponde agli ambasciatori francesi che cercano di provocarlo:
ENRICO V: Noi non siamo un tiranno, ma un re cristiano, in cui la grazia mantiene soggette le passioni, così come nelle nostre carceri i criminali sono legati ai loro ceppi.
Quando deve giudicare alcuni traditori che hanno cercato di vendere la sua vita e quella della nazione al nemico, ed è costretto ad emettere la sentenza capitale, lo fa con queste significative parole:
ENRICO V: Per ciò che riguarda la nostra persona, noi non cerchiamo vendetta; ma noi dobbiamo tendere alla salvezza del nostro regno, la cui rovina voi avete cercato, così che noi vi consegniamo alle sue leggi. Andate perciò, poveri e miserabili criminali, alla vostra morte; il cui sapore Dio vi dia la pazienza di sopportare, e vi dia vero pentimento di tutte le vostre pesanti colpe! Conduceteli via.
E prima della battaglia decisiva, fa diramare questa disposizione tra le truppe:
ENRICO V: […] proclama, Westmoreland, tra le mie schiere, che colui che non ha stomaco per questa battaglia se ne può partire; il suo lasciapassare sarà fatto e delle corone per il viaggio saranno messe nelle sua borsa. Noi non vogliamo morire in compagnia di chi ha paura di morire con noi. […] ed i santi Crispino e Crispiniano, da questo giorno fino alla fine del mondo, non saranno in questo giorno ricordati senza di noi; noi pochi, noi pochi felici, noi banda di fratelli; perché colui che oggi versa il suo sangue con me sarà mio fratello; sia egli di vile condizione, questo giorno lo nobiliterà e lo annovererà tra i gentiluomini di Inghilterra […].
Lo spirito cristiano di questo orizzonte ideale compare continuamente, in modo particolare quando dopo la battaglia viene intonato il celebre inno Non nobis Domine, sed nomini tuo da gloriam.
In questo spirito eroico e religioso si riscatta dunque, in una certa misura, la tragicità sopra descritta in cui la modernità sembra rinchiudere l’orizzonte dell’esistenza umana. In questo continuo oscillare shakespeariano tra la visione tragica e quella cristiana della vita si può vedere il destino di tutta l’epoca moderna, che dopo gli anni del grande drammaturgo inglese tenterà in più riprese di costruire una concezione del mondo senza il Dio fatto Uomo, sostituito dall’uomo fatto dio, ma nello stesso tempo farà sempre più crescere lo smarrimento dell’uomo e il suo desiderio di ritrovare il vero volto dell’Infinito per cui è fatto, cioè Cristo.
Estratto da La notizia dell’Essere – La comunicazione e il cristianesimo