Può l’autodeterminazione diventare una minaccia alla libertà e alla vita?

A questo link è possibile accedere alla registrazione dell’evento del 2 ottobre scorso a Ranica, dal titolo ‘Autodeterminazione: diritto o anticamera dell’eutanasia?’ nel quale è intervenuto come ospite l’avvocato Gianfranco Amato.

Consiglio la fruizione del video, sia per l’importanza delle tematiche trattate (intorno al fine vita) sia per la brillantezza e competenza del relatore.

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Nell’incontro ho presentato la serata e offerto un mio intervento che ripropongo qui sotto, sfrondato da saluti, note introduttive sull’ospite, ringraziamenti e inviti.

… prima di ascoltare il nostro ospite, vorrei proporre una breve introduzione sul tema dell’incontro: Auto-determinazione: diritto o anticamera dell’eutanasia?

Ebbene, l’argomento è talmente vasto che posso solo scegliere pochi spunti, giusto per inquadrarlo e introdurlo.

E allora mi soffermerò su due proposte di riflessione, che in parte avevo già sviluppato in precedenti incontri che avevo tenuto su tematiche riguardanti il fine vita. 

Comincio da considerazioni su DAT, suicidio assistito, eutanasia passiva e attiva: tutti questi sono passaggi di un percorso che si è ormai codificato in molti Paesi. Il filo rosso che li unisce è che sono tutte scelte di morte, appartenenti ad una cultura della morte, che spesso anche ostacola la maternità perché ha l’ossessione che siamo in troppi sul Pianeta, consumiamo troppe risorse (soprattutto i vecchi improduttivi) e vede addirittura l’uomo come una minaccia da limitare.

Queste finalità neomalthusiane non è che vengano tanto nascoste e per promuoverle si spinge molto su questioni di pancia: casi umani, casi limite, situazioni eccezionali. La strategia è quella di autorizzare situazioni eccezionali, magari precedute da decisioni di qualche giudice compiacente e poi accolte da apposite leggi che colmino delle lacune… Inizialmente, definendo tanti paletti che poi vengono inevitabilmente fatti saltare, allargando le eccezioni finché queste diventino regole. Questo succede anche perché chi non rispetta i paletti non viene mai punito.

Altra strategia per far passare tali leggi mortifere, è la manipolazione del linguaggio, cioè dei temini e del loro significato. 

E su questo punto vorrei accennare ad una ipocrisia che va conosciuta e denunciata. 

Si vorrebbero promuovere le DAT, il suicidio assistito e l’eutanasia richiamando la necessità di evitare l’accanimento. Ma che cos’è l’accanimento terapeutico? Guardate che è intorno al significato di singole parole come ‘cura’ ‘terapia’ o ‘accanimento terapeutico’ che si gioca la partita. Stravolgere il significato dei termini è già una vittoria che favorisce chi vuole legalizzare scelte di morte. Prima si uccidono le parole, poi si possono uccidere le persone. 

Prendiamo i concetti di ‘cura e ‘terapia’. Al di là di una definizione precisa codificata per legge o dottrinalmente che non c’è, io suggerisco questa distinzione tradizionale: le terapie sono mezzi straordinari, le cure sono mezzi ordinari (nutrizione, ventilazione, pulizia). Le terapie possono diventare disumane, le cure sono sempre umane. La carezza, il conforto spirituale sono già cure. Forse inutili per la guarigione, ma utili per la dignità della persona. 

Se non è chiara e riconosciuta la distinzione tra cure e terapie, si può arrivare ad applicare le DAT (e un domani l’eutanasia passiva) facendo morire le persone non solo negando terapie ma anche negando cure: idratazione, nutrimento, ventilazione. Oppure sostenendo che la ventilazione con mezzi artificiali o la nutrizione e idratazione endovena e PEG siano tutte terapie, o più obliquamente, facendole rientrare nei ‘trattamenti sanitari che possono essere sospesi’

A smascherare questa distorsione di significato basti fare un paio di esempi: la madre che nutre il neonato con biberon e latte artificiale sta facendo una terapia? Se si accende un ventilatore o un condizionatore in una stanza si sta usufruendo forse di una terapia? Direi proprio di no. Dunque, non è l’artificialità dello strumento che rende l’atto terapeutico. 

Il cavallo di Troia per superare questi intoppi è quello di ragionare subdolamente intorno ad una definizione più ambigua, trattamenti sanitari (ovvero trattamenti di sostegno vitali), e nel far ricomprendere in questa accezione, in questo – chiamiamolo così – ‘contenitore’, sia le cure che le terapie, azzerando una distinzione che sarebbe fondamentale. 

Consolidato questo passaggio di ricomprendere le cure tra i trattamenti sanitari o i trattamenti di sostegno vitali e stabilito che questi possono configurarsi come accanimento terapeutico, ecco che pure le cure diventano assimilabili alle terapie, le quali possono essere interrotte. Basterebbe la definizione stessa però a sconfessare il trucco: ‘accanimento terapeutico’ è evidentemente qualcosa riferito a terapie. Quindi: accanimento terapeutico, trattamenti invasivi… parliamone. Accanimento curativo: non se ne parla, non esiste proprio! 

Si capisce che l’escamotage di far diventare le cure come accanimento è utile per favorire la morte quando questa tarda ad arrivare. Con il pretesto di non attivare o di sospendere trattamenti sanitari sproporzionati si arriva a negare cure ordinarie.

Rimaniamo sul concetto di accanimento terapeutico, cavallo di Troia per poter meglio eliminare persone sofferenti, tirato in ballo sia per le DAT, che per promuovere il suicidio assistito e l’eutanasia. Ora, tutti siamo d’accordo nel ritenere che sia una cosa buona evitare l’accanimento terapeutico quando, genericamente, si può considerare come un un’insistenza ostinata inutile e crudele. Non c’è nessuno che dica ‘Viva l’accanimento terapeutico’. Ma la questione delicata è stabilire quando sussiste un accanimento terapeutico. 

Se uno va dal dottore e questo, riscontrandogli un tumore, gli assegna una prognosi infausta con uno o due anni di vita, ogni terapia da quel momento va considerata un accanimento, visto che il male è inguaribile e ogni trattamento arreca sofferenza? Meglio far morire subito il malato? 

Diversa è la situazione in cui la morte è imminente, cioè è questione di ore o pochi giorni e allungare artificialmente la vita con aggravio di pena e mezzi sproporzionati rispetto ai risultati sperati diventa una tortura inutile. Ecco che qui la parola accanimento rivela ciò che esprime il suo etimo: accanimento da ‘ad canem’ cioè ‘trattamento alla stregua di un cane’. Ma se, con il pretesto di evitare accanimenti, ad una persona che, seppure con difficoltà, potrebbe vivere molti mesi o anni, si tolgono oltre a trattamenti vitali anche le cure basilari che succede? Posto che per cure mi riferisco ad acqua, cibo e aria, succede ciò che è successo ad Eluana Englaro o qualche tempo prima a Terry Schiavo. A persone che già hanno tanti problemi e sofferenze gli si aggiunge la tortura di morire di fame e di sete o per lenta asfissia.

E allora chiediamoci: dov’è l’accanimento? È disumano assicurare aria e nutrimento a una persona oppure è disumano toglierli?

C’è poi un’altra riflessione che vorrei proporre sul tema di stasera dell’auto-determinazione. Quando si sono introdotte le DAT in Italia si è sbandierato come pretesto il diritto all’autodeterminazione nella scelta dei trattamenti sanitari. In realtà, pretendere che una persona sia inchiodata, direi anche condannata, a quanto pensava magari molti anni prima, quando non era malata o quando aveva una prospettiva diversa della vita, non rispetta la libertà che uno ha di cambiare idea, non è garanzia di libertà. Nel nome della libertà si costruisce una gabbia intorno ad una scelta che può essere sbagliata. 

La volontà di compiere un atto così importante come è quello di rifiutare delle terapie (che pure è un diritto da rispettare, se non è un capriccio e salvo eccezioni come per l’anoressia) va manifestata in quel momento o in prossimità di quel momento, se la persona non è più in grado di intendere e volere. Cioè, il più possibile, appena prima che si verifichi la perdita della capacità di autodeterminarsi. 

L’ineccepibilità giuridica delle DAT viene incontro ad una esigenza formale e di ‘tracciabilità’ di una decisione ma non è di per sé garanzia della piena consapevolezza nel momento in cui viene utilizzata; soprattutto quando la persona ha sottoscritto la dichiarazione quando era sana e l’evento prospettato si è verificato dopo molto tempo. Perché le persone maturano e l’età che avanza o la malattia stessa fanno cambiare le prospettive. Il vecchietto in carrozzella che guarda il tramonto oppure osserva gli operai che lavorano in cantiere, non è detto che apprezzi la vita meno di un giovane pieno di energia ma mortalmente annoiato perché non sa come impiegarla bene e non ha interessi. 

E per finire, un’altra importante precisazione sul preteso diritto di autodeterminazione: quanto più si afferma una cultura di morte, tanto più l’autodeterminazione a compiere una scelta di morte diventa, più che un diritto, un dovere a compiere quella scelta, instillato anche a chi sta attorno a chi è malato o ha problemi. È una conseguenza dell’etica utilitarista: se sei inutile o sei un peso è meglio che ti tolga di mezzo.

(slide proiettata prima dell’intervento dell’ospite)

Prima vennero ad uccidere i feti malati

E io non dissi niente, perché ero già nato.

Poi vennero ad uccidere i malati ‘inutili’

E io non dissi niente, perché non ero inutile.

Infine, vennero ad uccidere i malati e basta.

E io non dissi niente, perché non ero malato.

Non ancora.

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Autore: Roberto Allieri

Nato a Pavia nel 1962, sposato e padre di quattro figli, risiede in provincia di Bergamo. Una formazione di stampo razionalista: liceo scientifico, laurea in giurisprudenza all’Università di Pavia e impiego per oltre trent’anni in primario istituto bancario. L’assidua frequentazione di templi del pensiero pragmatico e utilitarista ha favorito l’esigenza di porre la ragione al servizio della ragionevolezza e della verità. Da qui sono seguite esperienze nel volontariato pro-life, promozione di opere di culto, studi di materie in ambito bioetico, con numerose testimonianze e incontri per divulgare una cultura aperta alla vita, ancorata alla fede e alla famiglia. Collabora al Blog Oltre il giardino QUI Vedi tutti gli articoli di Roberto Allieri