Il paradosso dei regimi liberali repressivi – Seconda parte

Dopo aver introdotto il tema nel precedente articolo, presentando alcune imbarazzanti sfaccettature del liberalismo del nostro tempo, cercherò di approdare ad un esame del liberalismo nel secolo scorso e ai suoi rapporti con il pensiero cattolico.

Analizzando a fondo alcuni fatti e personaggi storici potremo comprendere meglio gli attuali esiti attuali politici, ideologici e sociali. Ovvero il vero volto del liberalismo.

Il mio mentore in questa esplorazione è il buon Roberto Marchesini al cui saggio ‘Libertà e cattolicesimo’, ed. Sugarco 2018, attingerò abbondantemente.

Questo agile trattato, che vi consiglio caldamente di leggere, contiene un’analisi storica, sociale, economica ed etico-religiosa, condotta soffermandosi su alcuni importantissimi snodi storici. Dal loro sapiente collegamento emerge un quadro, sconosciuto ai più, che svela fino in fondo la sorprendente natura del liberalismo.

Da parte mia, seguirò solo alcuni dei tanti filoni esaminati da Marchesini, attingendo alle sue vivide descrizioni. Mi limiterò dunque ad un’analisi che lascerà fuori (per motivi di sintesi) i pur importantissimi sviluppi del liberalismo nei secoli precedenti, ben illustrati nel libro citato.

Poiché il liberalismo del secolo scorso di cui voglio parlare non nasce dal nulla, pur saltando secoli di storia, devo almeno precisare qualcosa. Dirò solo che le rivoluzioni inglese e francese impressero un salto di qualità ad un brodo di cultura filosofico ed economico espresso nell’arco di varie epoche. Dal Settecento in poi possiamo infatti individuare un liberalismo pragmatico anglo-sassone ed uno continentale (che affonda le radici nella Rivoluzione francese), distinti per vari aspetti ma sostanzialmente manifestazioni di due facce della stessa medaglia. 

Una caratteristica essenziale che accomuna le due scuole di pensiero è l’atteggiamento anticlericale e antireligioso. Ben si capisce quindi che nell’Ottocento i papi, con fermezza e costanza massime, mettessero in guardia dal liberalismo di ogni tipo, appaiandolo nella condanna al comunismo. Meno facile è comprendere l’acuta intuizione del Magistero della Chiesa espressa da Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum del 1891: e cioè che il socialismo è una conseguenza del capitalismo. Il quale ultimo, il liberismo economico, è un ramo che ha preso vigore dalla pianta giacobina e dalle radici della Rivoluzione francese. 

Il socialismo si propone infatti come rimedio ovvero come fase evolutiva del liberalismo capitalista. Secondo il filosofo Juan Donoso Cortes, nel suo Saggio sul cattolicesimo, liberalismo e il socialismo, tale concezione rappresenta il necessario e logico sviluppo delle idee liberali. Essa spinge alle estreme conseguenze ciò che nel liberalismo è in embrione. 

Tali considerazioni non sono solo curiose e affascinanti, bensì di importanza fondamentale anche per comprendere meglio anche la realtà di oggi. Per cui è su questi aspetti che occorre focalizzare. Seguiamo quindi Marchesini che con il suo impareggiabile piglio, leggero ma profondo, spalanca porte e apre finestre su scenari per qualcuno imbarazzanti.  

Molte sono dunque le caratteristiche che legano le due concezioni ideologiche liberale e socialista: la più pericolosa è la pretesa di plasmare l’intera società secondo i principi della ragione o, meglio, secondo i sogni della ragione. Il che porta inevitabilmente ad anteporre la teoria alla realtà. L’utopia precede sempre i fatti e se questi ultimi la contraddicono vanno ignorati o ricondotti ad essa. 

Trova conferma in questo atteggiamento l’interpretazione del celebre motto di Goya ‘el sueño de la razon produce monstruos’. È il sogno della ragione che genera mostri, più che il sonno (in spagnolo la parola sueño contempla entrambi i significati e può dar luogo a malintesi). 

Un’altra pericolosa sintonia è ravvisabile nei mezzi violenti utilizzati per affermare i propri principi. Sebbene qualcuno distingua la gloriosa rivoluzione anglo-americana e le sue conseguenze (liberali) da quella e quelle riconducibili alla Rivoluzione francese, nel preconcetto che una sia ‘buona’ e l’altra ‘cattiva’, i fatti storici smentiscono tale convinzione. Anche il liberalismo inglese si è imposto nei secoli con violenza (ne sanno qualcosa gli irlandesi). Cito Marchesini[1] ‘la riforma anglicana non ha forse estirpato con la violenza la fede del popolo inglese, distrutto consuetudini secolari, gettato nella fame nella disperazione migliaia di poveri inglesi che vivevano delle opere di carità ecclesiastiche? E il tutto per arricchirsi e liberarsi dai limiti morali imposti dalla Chiesa?’.

E arriviamo, nell’intento di fare chiarezza, a fatti e personaggi concreti ed emblematici del ’900. La domanda che dovremmo porci (perlomeno, che io considero tra le più importanti) è: come è stato possibile che la Chiesa abbia virato nel corso di pochi decenni dalle posizioni intransigenti verso il liberalismo ad una progressiva e supina sua accettazione, soprattutto dei modelli legati all’american way of life?

Marchesini ce lo spiega molto bene prendendo le mosse da una figura oggi sconosciuta: l’influente sacerdote gesuita americano John Courtney Murray.  

Per arrivare a lui è necessaria però una premessa. A partire dai primi anni Quaranta del secolo scorso, il presidente Roosevelt progettò di esportare i modelli di vita e pensiero americani in tutto il mondo. Ogni strategia utile venne impiegata con l’obiettivo di una conquista militare, economica, culturale, politica e ideologica, diffusa il più possibile nel mondo. Uno slancio colonialista ereditato dalla tradizione anglosassone, che permeava e permea profondamente la società statunitense.

Uno strumento importantissimo per esportare questa cultura erano i media: programmi televisivi, film, libri e pubblicazioni periodiche cartacee. Il magnate Henry Luce possedeva un impero nel mondo della stampa: le sue riviste Time, Life, Fortune e Sport Illustrated, dettavano la linea nell’opinione pubblica americana e non solo.

Luce era anche il principale divulgatore sui media dell’agenda governativa e fu coinvolto con la moglie Claire Luce, eletta membro del congresso nel ’42 e poi ambasciatrice a Roma, in un costante e metodico compito di plasmare l’opinione pubblica, in sintonia con gli obiettivi strategici sociali.

L’ostacolo maggiore a questi piani era costituito dai cattolici statunitensi. Essi costituivano un gruppo compatto nella fede, obbediente a Roma e al magistero, perfettamente organizzato in quelle cinghie di trasmissione del cattolicesimo che erano le parrocchie e con una morale divergente da quella liberale, soprattutto in ambito famigliare e sessuale.  

È qui, in questo contesto religioso e sociale, che padre Murray (finalmente ritorniamo a lui!) fu incaricato dall’establishment di operare per ridimensionare la resistenza culturale cattolica.

Padre Murray non fu certo l’unico religioso ad essere assoldato: Marchesini cita in particolare padre Hesburg, rettore dell’università cattolica di Notre Dame a South Bend (Indiana). Costui permise tra il 1963 e il 1967 che l’associazione abortista Planned Parenthood tenesse una serie di seminari segreti a beneficio di docenti e, a cascata, di studenti, sul controllo della popolazione, aborto e contraccezione. In cambio l’Università avrebbe ricevuto 100.000 dollari da Ford Foundation e ben 550.000 dollari da Rockefeller Foundation. Peraltro, John Rockefeller in persona ottenne il 15 luglio 1965 un’udienza privata con Paolo VI per illustrargli i vantaggi dell’applicazione della spirale intrauterina. In cambio dei suoi servigi, padre Hesburgh venne nominato presidente della Rockefeller Foundation[2]’.

L’obiettivo sempre più importante di Padre Murray (nonché dell’ambasciatrice Claire Luce, alla quale le porte degli uffici del Vaticano venivano facilmente aperte) diventò quello di infiltrarsi nella Chiesa per promuovere l’ideologia americana: in tal modo, agganciando un bacino potenziale di quasi un miliardo di persone, sarebbe stato più facile esportarla in tutto il mondo. Trovo interessante l’annotazione che il coordinamento dell’operazione, per i risvolti militari e di intelligence, spettò al generale C.D. Jackson, agente dell’OSS e poi della CIA nonché (sorpresa!) tra i principali artefici del gruppo Bilderberg. 

L’americanismo propugnato da Padre Murray era ‘una forma di liberalismo, la quale sostiene che la Chiesa, per ottenere un maggior numero di conversioni, si sarebbe dovuta adattare anche dottrinalmente alla cultura contemporanea, lasciare maggiore libertà di coscienza e non intromettersi nelle questioni morali[3]’.

Le argomentazioni sulla libertà religiosa erano uno strumento per imbavagliare i cattolici, negando loro la convinzione che ci fosse una verità e una morale universale.

Murray fu stipendiato lautamente da Henry Luce, ebbe come cassa di risonanza per i suoi articoli le riviste più prestigiose e divenne anche direttore spirituale della moglie Claire (probabilmente, i rapporti tra i due furono ambigui. Tra le altre cose, annota Marchesini, Claire iniziò padre Murray all’LSD[4]).  

Ma padre Murray, nonostante i precedenti reiterati richiami del cardinale Ottaviani del Sant’Uffizio per gli errori dottrinali, ebbe un’occasione eccezionale di esercitare la propria influenza addirittura nel Concilio Vaticano II. Riuscì infatti ad essere accreditato in quel consesso in qualità di perito del cardinale americano Spellman. Ebbe così modo di redigere schemi e testi preparatori. Un tentativo andato in parte a buon fine di apportare un salto dottrinale fu costituito dai suoi contributi confluiti nel documento conciliare Dignitatis humanae. Fu uno dei testi più controversi, che riguardava il tema della libertà religiosa.

Aspramente contestata dall’ala tradizionalista perché, minando l’oggettività della verità, ammetteva un diritto a professare l’errore, tale dichiarazione fu votata da una grande maggioranza di padri conciliari solo dopo varie correzioni allo schema originario (qualcosa però di quella impostazione ‘liberale’ rimase). In particolare, fu tenuto fermo un punto, che così recita nella dichiarazione Dignitatis humanae: ‘…Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: “Andate dunque, istruite tutte le genti battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” … E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità’.

Non era questo il concetto di libertà religiosa che Murray aveva in mente e che voleva promuovere, cioè una sorta di indifferentismo religioso, funzionale alla promozione del modello american way of life. L’affermazione invece che l’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica vanificò tutto il lavoro dell’americanista[5]

Ma a quel punto fu fondamentale l’intuizione furbesca di Michael Novak. Costui era un ex sacerdote che abbandonò la tonaca nel 1960 pochi giorni dopo l’ordinazione. Nella sua formazione teologica, completata con risultati brillanti, spiccavano studi filosofici e una laurea in teologia alla Università Gregoriana di Roma. Nel 1963-64 lo ritroviamo a Roma dove segue e commenta i lavori conciliari per varie testate americane, tra le quali ‘Time’ (nella quale rivista era ospite fisso Hans Kung oltre al citato padre Murray). 

La geniale idea di Novak che ribaltò mediaticamente le sconfitte dei progressisti in vittorie fu quella di far passare il concetto che non era tanto importante la lettera dei documenti del Concilio quanto piuttosto ‘lo spirito del Concilio’. Cioè la falsa interpretazione data dalla stampa controllata da Henry Luce. Come annota Marchesini, “questa espressione, diventata esiziale, comparve per la prima volta su Time il 23 ottobre 1964 in un articolo di Novak intitolato ‘Roman Catholics: Cum Magno Dolore’. Da allora in poi ‘lo spirito del Concilio’ divenne la chiave per interpretare in senso americanista l’evento e i documenti del concilio Vaticano II[6]”.

Ma per comprendere più a fondo la contiguità e la stretta connessione del socialismo e del liberismo, che, come detto, era già stata profeticamente svelata e via via ribadita dai papi sin dall’Ottocento, occorre dire qualcosa di più seguendo l’analisi di Marchesini anche su un altro filone di ricerca[7]. In sostanza, ai suddetti pontefici balzava subito all’occhio una evidenza anticattolica e antireligiosa che accomunava le due ideologie: da una parte i liberali affermavano vagamente l’esistenza di Dio privandolo però dei suoi attributi e mantenendolo il più lontano possibile dalla nostra realtà e dal nostro interesse; dall’altro i socialisti ne negavano l’esistenza punto e basta (in ciò erano più coerenti e meno fumosi). Eliminato Dio dall’orizzonte, socialisti e liberisti vedevano l’origine del male nelle istituzioni del passato che quindi dovevano essere distrutte. Stessa analisi, stessa soluzione sovversiva.

Lev Trockij

Ma c’è di più nei collegamenti tra capitalismo e socialismo. C’è un’identità di vedute e di interessi che ha portato i due schieramenti ideologici a posizioni tutt’altro che antitetiche. Potremmo definirle addirittura di simbiosi e integrazione.

E qui, più che le parole, parlano i fatti. 13 gennaio 1917 il rivoluzionario Trockij arrivò a New York con la famiglia. Il buon Marchesini precisa che ‘pur non conoscendo una parola di inglese, visse agiatamente in quella città per tre mesi e si spostava in una limousine con autista. Il 27 marzo 1917 lasciò New York in una nave zeppa di rivoluzionari diretta in Norvegia. Venne intercettato dalla marina britannica in Canada e gli trovarono addosso 10.000 dollari. Fu arrestato e interrogato come spia tedesca. Improvvisamente, partì una serie di telegrammi e telefonate. L’esito fu che il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson fece arrivare a Trockij e ai suoi compagni di viaggio passaporti statunitensi per la Russia… Wilson non conosceva Trockij: agiva su impulso di un suo consigliere, il colonnello Mandell House, il quale a sua volta era la cinghia di trasmissione tra il potere politico e la grande finanza statunitense[8]’.

Alla missione di Trockij, foraggiata dal governo USA, se ne aggiunse un’altra nell’agosto 1917 della Croce Rossa statunitense, finanziata dalla Federal Reserve Bank, composta da ventinove membri. Questa commissione fece pervenire ai bolscevichi una donazione di un milione di dollari. Altre strane donazioni e contributi partirono poco dopo dagli Stati Uniti con destinazione Russia. Una delle più importanti società finanziarie newyorkesi, la Kuhn Loeb and Company, banca di riferimento del governo bolscevico, risultò poi partecipare al finanziamento del primo piano quinquennale (il che la dice lunga…).

E su questi fatti dovrebbero aprirsi gli occhi in merito alle motivazioni di tanta filantropia illuminando una evidente realtà: il capitalismo americano cercò di favorire la rivoluzione bolscevica, anche se non certo per simpatia ideologica al comunismo. Al di là di altri concomitanti motivi, quello principale era questo (seguiamo ancora Marchesini): ‘la rivoluzione e la finanza internazionale non sono affatto in contrasto se il risultato della rivoluzione è stabilire un’autorità più centralizzata. La finanza internazionale preferisce trattare con i governi centrali. L’ultima cosa che la comunità bancaria desidera è il potere decentralizzato’. Oltretutto c’era una immensa torta da spartire tra i capitalisti occidentali: ‘Quando i bolscevichi presero il potere in Russia entrarono in possesso di una ricchezza sesquipedale: tutto il tesoro dei Romanov, quello di moltissime famiglie nobili e l’enorme numero di arredi sacri della Chiesa ortodossa. Per qualche anno i sovietici utilizzarono questo enorme patrimonio per acquistare beni che la Russia non riusciva più a produrre. Il tutto fu pagato (molto più del valore reale) con tonnellate di lingotti d’oro con il marchio degli zar[9]’. 

Ma agli insaziabili finanzieri anglo-americani non bastava: compagnie petrolifere come la Standard Oil di Rockefeller si accaparrarono a prezzo di realizzo il petrolio del Caspio. Terminato l’oro e dilapidato il patrimonio degli zar ecco che la cooperazione tra socialismo sovietico e capitalismo assunse nuove forme: le imprese occidentali impiantavano industrie oltre cortina fornendo brevetti e macchinari, mentre la Russia forniva manodopera a costi irrisori. Gli operai del Comecon oltre a costare fino a dieci volte di meno, erano molto graditi ai capitalisti occidentali perché non avevano protezioni sindacali ed erano privati del diritto di sciopero. Come dice lapidariamente Marchesini, è l’alba della delocalizzazione della produzione, con pratiche disoneste di dumping e concorrenza sleale che oltretutto mettevano fuori gioco le aziende non ammanicate e provocavano conseguente disoccupazione nei Paesi occidentali.

Dunque, socialismo e capitalismo liberista erano complementari e affini, come ben sapeva Lenin, al di là dei proclami propagandistici (del resto, il Manifesto del Partito Comunista non per caso fu pubblicato a Londra e non per caso Marx fu sostenuto e finanziato dal capitalista Engels). L’impero sovietico diventò un enorme laboratorio. La pianificazione centralizzata di tutte le attività economiche da parte dello Stato, governato da un unico partito autoritario e dogmatico, fu un esperimento funzionale ai progetti occidentali.

Alla luce di questi ultimi spunti (moltissimi altri ne troverete nel libro ‘Liberalismo e cattolicesimo’) spero sia evidente quanto capitalismo liberale e socialismo vadano a braccetto. Politicamente, lo vediamo, sono ancor oggi alleati o allineati sui temi cruciali in pressoché tutti i Paesi occidentali, sebbene si affrontino in una falsa alternanza per il potere (che non trova riscontro, di fatto, in grandi variazioni). Se il regime asfissiante e repressivo cinese rappresenta un modello rispettato dai capitalisti e da imitare quando ci sono emergenze (vedi misure per il Covid)  e se il sistema di ‘social card’ adottato in Cina è uno strumento che piace molto ai governanti dell’Unione europea e di molti Paesi europei, ora sappiamo perché.   

Mi auguro quindi che questa analisi storica possa essere utile per comprendere il distopico presente e l’ancor più disumano futuro che le ideologie liberali e socialiste, sempre più saldate, hanno in serbo nelle loro agende per il futuro dell’umanità.

La repressione liberale alla quale siamo soggiogati sempre più non rappresenta dunque una degenerazione del liberalismo ma il suo pieno compimento. Nonché conseguenza di un falso e distorto concetto di libertà.  


[1] Liberalismo e cattolicesimo, ed. Sugarco 2021, pag. 121

[2] Op. cit. pag. 124

[3] Op. cit. pag. 126

[4] Op. cit. pag. 126

[5] Op. cit. pag. 131

[6] Op. cit. pag. 131

[7] Op. cit. pag. 138 ss

[8] Op. cit. pag. 140

[9] Op. cit. pag. 142-3

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Autore: Roberto Allieri

Nato a Pavia nel 1962, sposato e padre di quattro figli, risiede in provincia di Bergamo. Una formazione di stampo razionalista: liceo scientifico, laurea in giurisprudenza all’Università di Pavia e impiego per oltre trent’anni in primario istituto bancario. L’assidua frequentazione di templi del pensiero pragmatico e utilitarista ha favorito l’esigenza di porre la ragione al servizio della ragionevolezza e della verità. Da qui sono seguite esperienze nel volontariato pro-life, promozione di opere di culto, studi di materie in ambito bioetico, con numerose testimonianze e incontri per divulgare una cultura aperta alla vita, ancorata alla fede e alla famiglia. Collabora al Blog Oltre il giardino QUI Vedi tutti gli articoli di Roberto Allieri