“Condanniamo il giusto a una morte infamante”

Fra Bartolomeo, Giobbe, 1515 ca., Firenze, Galleria dell’Accademia

Commento artistico-spirituale alla Prima Lettura della XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B – 22 Settembre 2024

Di don Tarcisio Tironi, Direttore M.A.C.S. (Museo di Arte e Cultura Sacra) di Romano di Lombardia-Bg
Liturgia della Parola in LIS, sottotitolazione e audio a cura della CEI,
Conferenza Episcopale Italiana


«[Dissero gli empi:] Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà» (Dal libro della Sapienza 2,12.17-20).

Il termine «empio» è composto di «in», negativo e «pio», colui che non è pio, chi non ha una vera devozione, è senza pietà, non è un timorato di Dio. All’opposto, il giusto rende credibile con le sue scelte sapienti un modo di vivere che crea negli empi reazioni, a volte così feroci, da indurli alla decisione di farlo tacere. Un esempio di uomo giusto, tratto dall’Antico Testamento, è quello di Giobbe che, nonostante una terribile malattia, lo scherno della moglie e l’abbandono degli amici, si mantiene fedele a Dio e alla fine visse una lunga vita di prosperità, in una famiglia numerosa. Per questo è tuttora riconosciuto e proposto da tutti come esempio di fede, di rettitudine e di pazienza.

«Giobbe» è un dipinto a olio su tavola realizzato da Fra Bartolomeo nel 1515 circa e oggi conservato nella Galleria dell’Accademia, Firenze. La figura del patriarca, il cui nome si legge sul gradino, in basso, campeggia su un semplice scranno, con un ampio rotolo tra le mani, dove sta scritto: «IPSE ERIT SALVATOR MEVS» (Giobbe 13,16) che in latino significa «Egli sarà la mia salvezza», proprio in riferimento alla visione del Salvatore. Il pannello di Giobbe, profeta della risurrezione, fu realizzato con colori brillanti e cangianti, su commissione del mercante fiorentino Salvatore Billi, per la cappella omonima nella chiesa della Santissima Annunziata a Firenze, dove era appeso a destra della tavola centrale con il «Salvator Mundi», in riferimento al nome del committente e collocato sotto l’organo. A sinistra c’era il ritratto di Isaia con l’annuncio della venuta di Cristo.

Nella lirica «Frasi e incisi di un canto salutare» (1990), Mario Luzi, esprime la domanda di dialogo e l’invocazione di chiarimento di Giobbe nel momento della prova:

«Prova, prova umana/ che talora eccedi/ ed offendi l’umanità dell’uomo/ dilaniato dal suo male/ e per poco non la uccidi […]/ non guardarci, ti prego,/ con lo sguardo perduto e impenetrabile/ della tua necessità, ma parlaci,/ parlaci ancora e sempre/ come già/ dalla bocca dei tuoi santi/ e dal gemito/ della crocifissa incarnazione».

don Tarcisio Tironi
direttore M.A.C.S.

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Autore: Libertà e Persona

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