Introibo
L’uomo post contemporaneo vive uno smarrimento maggiore rispetto al passato; di continuo sorgono Nuovi Movimenti Religiosi che, in nome di un vago concetto di speranza, tentano di fornire una risposta ai numerosi interrogativi che da sempre attanagliano la coscienza, ossia che senso ha la vita, dove siamo diretti, perché credere. La fede
cristiana fin dagli albori ha dato una risposta a queste istanze mettendo in risalto che la fede è in relazione alla speranza. Quest’ultima è una virtù, quindi una disposizione del soggetto a tendere al bene che, per un cattolico, è Dio che si incarna in Gesù che è la salvezza ultima e definitiva.
L’enciclica Spe Salvi (Salvati nella Speranza) è stata pubblicata da papa Benedetto XVI il 30 novembre 2007 ed è il tentativo di richiamare l’uomo alle origini, quindi al suo creatore che lo ha posto nel mondo per rendere testimonianza a Cristo suprema verità!
Che cos’è la speranza?
San Paolo nella Lettera ai Romani (8, 24) ricorda che siamo salvati nella speranza. L’apostolo delle genti esordisce così:
Io penso che le sofferenze del tempo presente non siano assolutamente paragonabili alla gloria che Dio manifesterà verso di noi. Tutto l’universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato. Vi è però una speranza: anch’esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino a ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio, liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli.
La salvezza quindi si fonda su una solida speranza: Cristo Figlio di Dio! Gli unici che possono gloriarsi di questo dono sono i seguaci di Cristo i quali riconoscono e professano una fede in Dio che nel Figlio si incarna, assume sembianze umane con l’intento di voler salvare l’umanità. Sorge spontanea la domanda, da dove si apprende la speranza cristiana? Anzitutto dai sacramenti, segno visibile dell’unione con Dio e poi mediante il Vangelo strumento attraverso il quale Dio parla agli uomini, ancora una volta San Paolo nella Lettera agli Efesini ricorda che a Dio si giunge solo mediante il Figlio. Chi non ha conosciuto il Figlio non potrà conoscere il Padre. Quindi la speranza della salvezza si sviluppa proprio su questo presupposto, che richiede certamente la partecipazione attiva dell’uomo perché come già più volte affermato senza la volontà di voler essere redenti, Dio non può salvare.
La Speranza nella Chiesa Primitiva
La Chiesa apostolica ha avuto notevoli difficoltà ad insediarsi nel contesto sociale, essa era domestica e gli apostoli così come i primi convertiti in riserbo si riunivano nelle case per celebrare l’Eucaristia, sull’esempio di Gesù durante l’ultima cena. Le difficoltà consistevano anzitutto dall’essere accettati dall’autorità del Tempio che ancora gittava persecuzioni nei confronti dei
seguaci di Cristo e in un secondo momento dall’Impero Romano che reputava la fede cristiana una superstizio, ossia una religione nuova che andava a contrastare le usanze dell’Antica Roma. Un cristiano non poteva accettare di offrire sacrifici agli dei, di partecipare alle festività in onore alle varie divinità ove il fine era la dissolutezza morale. I romani quindi perseguitarono i fedeli in Cristo
perché temevano un sovvertimento sociale ed anche divino. Non riconoscere le numerose divinità significava attirarsi la maledizione divina. Nel tempo però non mancarono le conversioni, anzitutto da parte dei ceti sociali più infimi e poi anche dagli aristocratici, in quanto la speranza nella vita eterna, la presenza di un Dio unico che vuole entrare in relazione con l’uomo erano il motivo per cui in molti iniziarono a convertirsi a Cristo. Si precisa che il Cristianesimo non ha portato una rivoluzione sociale, Gesù non era Spartaco o Barabba, ma bensì il Logos il cui trono era ed è la croce. Gesù in ogni suo gesto, parola e azione ha concesso all’uomo di entrare in contatto con il Signore dei Signori, con il Dio vivente.
Interpretazione della Speranza secondo il Sommo Pontefice Benedetto XVI
Papa Benedetto XVI interpretando la virtù della speranza e per meglio far comprendere a quale fine l’uomo è destinato cita la vita di Giuseppina Bakhita donna africana più volte deportata e schiavizzata. Pur soffrendo e vivendo il dolore a causa della violenza dell’uomo ha sempre riposto la speranza sul vero amore che è Dio. Essa non tanto attendeva un padrone meno crudele, ma piuttosto il momento futuro dell’incontro con Cristo. Questo esempio di vita virtuosa rimanda proprio agli albori del Cristianesimo. Come già citato prima, per la fede in Cristo i primi cristiani sia dall’autorità del Tempio che dall’Impero Romano vennero perseguitati, ma nonostante le innumerevoli sofferenze, essi pur rispettando le norme sociali(si pensi al tributo che si doveva all’Impero) attendevano l’intervento divino affinché venissero liberati dal dolore presente che era garanzia della vita eterna. In virtù di questa speranza che ha forgiato e forgia ancora oggi ogni battezzato papa Benedetto XVI cita la Lettera di San Paolo a Filemone; egli essendo in carcere gli raccomanda Onesimo schiavo fuggitivo. Paolo rammenta a Filemone di non trattare Onesimo come schiavo, ma bensì come fratello in quanto in virtù del Battesimo entrambi sono stati rigenerati dal sacrificio di Cristo. Certo le condizioni sociali non mutano, ma la speranza in Cristo concede di condurre un’esistenza meno sofferta in quanto in Lui ogni dolore è riscattato. La società terrena seppur fondamentale e non da demonizzare, in quanto Cristo ha vissuto in un contesto sociale non è il fine ultimo del cristiano. Esso spera sempre nella Parusia, in quel ritorno glorioso di Cristo ove il bene sarà separato dal male. Papa Ratzinger chiosando sempre su suddetto tema mette in risalto che la venuta di Cristo rivelatore del Padre ha posto l’umanità in una prospettiva nuova. Anzitutto ribadisce che il mondo non è il risultato di forze cosmiche, ma bensì di un atto libero e volontario di Dio, che amando l’uomo, elemento principale della creazione non lo abbandona, anzi fin dalle origini si relazione con lui. In maniera ultima e definitiva in Gesù, per liberarlo dal giogo dell’antica schiavitù: il peccato! Si evince che la vita non è un costrutto materiale e nemmeno un derivato di leggi fisiche. Essa è l’incontro con un “tu”: Cristo che rivela il volto di Dio Padre il quale per azione dello Spirito Santo mediante la madre Chiesa richiama l’uomo alla sua primaria vocazione, ove la morte non fa da padrona, ma è solo un passaggio. In riferimento alla questione della morte e quindi della speranza, Joseph Ratzinger riprendendo il dialogo tra filosofia antica e teologia pone una precisazione circa la figura di Cristo sempre su suddetto evento. Agli albori del cristianesimo per un influsso platonico, da alcuni Cristo veniva comparato ad un filosofo. Il motivo? Il filosofo era colui il quale aveva il compito di insegnare l’arte essenziale, quindi l’arte dell’essere uomo retto, l’arte di vivere e morire in modo virtuoso. Cristo però rammenta papa Benedetto XVI non era un filosofo, ma la rivelazione, Egli era il nuovo pastore, la guida valida. Egli con la morte sulla croce ha vinto la morte eterna, ove quella fisica è un passaggio che Lui stesso ha vissuto proprio per essere in tutto in unione con l’uomo, il cui fine non il nulla, ma bensì il regno dei promessi, degli eletti. Eletti non nell’ottica di una doppia predestinazione ove pochi si salvano e molti si dannano, ma nella dimensione della coscienza, che se si indirizza al bene, deve ovviamente farlo principalmente verso il Sommo Bene.
Come cita il Salmo 23:
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Gesù è quindi è il buon pastore che nella persona dei suoi ministri conduce tutti alla salvezza. Il vincastro che è poi il pastorale del Vescovo è il simbolo per eccellenza di questa guida. I primi cristiani quindi avevano fondato la loro vita su questa consapevolezza. La valle della morte, quindi quella oscura non doveva più destare timore, perché in Cristo redenta. In riferimento sempre a
suddetta tematica, l’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei si rintraccia una definizione di fede in stretta relazione alla speranza. Ma che cos’è la fede? La fede è l’hypostasis delle cose che si sperano; è prova di quelle che non si vedono. L’hypostasis per i Padri della Chiesa e i teologi medievali è la substantia, che tradotta in italiano sta a indicare la sostanza delle cose che si sperano,
le prove delle cose che non si vedono. Gesù non lo si vede, ma la prova della sua esistenza è l’Eucaristia farmaco dell’immortalità, speranza massima dell’uomo che gli apre la porta al Paradiso.
Per meglio esplicitare il concetto si può affermare quanto già san Tommaso d’Aquino che la fede è un habitus, quindi la disposizione dell’animo grazie alla quale la vita eterna ha inizio e mediante anche l’ausilio della ragione si giunge alla comprensione del divino. Si può quindi affermare che in ogni vivente c’è la facoltà di anelare a Dio ed anche con l’aiuto della razionalità bisogna scoprire
tale facoltà, il cui scopo è il ritrovarsi in tutt’uno con il creatore.
(link alla seconda parte e alla terza parte)