LA MADONNA DI CONADOMINI. Il “sacro” dal balcone dell’antropologia

Santo Pietro – Foto originale

Caltagirone è una città del Barocco orientale della Sicilia lambita dal Bosco di Santo Pietro il quale, nel corso dei secoli, ha fornito agli abitanti del paese materiali facilmente reperibili quali sughero e argilla. Grazie all’abbondanza di questi materiali venne sviluppandosi un commercio che faceva della città un luogo relativamente ricco rispetto ai parametri dell’epoca.

Purtroppo, ora non è più così poiché la mano dell’uomo, nel corso del tempo, è riuscita a ridurre notevolmente le

dimensioni del bosco a causa degli incendi dolosi, del pascolo eccessivo, delle prospezioni petrolifere, dell’incuria e dell’impotenza amministrativa.

Nel 1999 è stata istituita la Riserva naturale Bosco Santo Pietro, allo scopo di salvaguardare quel che resta di questa sughereta valorizzata da una macchia mediterranea che ospita esempi importanti di flora e fauna. La riserva include gli ultimi lembi di quello che era il vasto bosco di sughera che si estendeva per circa trentamila ettari. Negli anni l’azione di disboscamento lo ha ridotto a circa duemilacinquecento ettari.

Il territorio racchiude interessanti testimonianze antropiche legate non solo al commercio delle sue materie prime, ma ad una importante agricoltura tradizionale.

All’interno dell’area protetta sono presenti alcune chiese: Santa Maria di Betlemme, di origine medievale, Santa Maria dell’Itria dei primi del Novecento e la più moderna chiesa dei Santi Pietro e Paolo.

SS. Pietro e Paolo a Santo Pietro – Fonte Wikipedìa

Mentre scrivo queste che, per chi legge senza averle vissute, sono solo notizie, la pagina sotto i miei occhi, come una tavolozza, si è riempita di colori che giocano, sfumando gli uni negli altri… perché io, là, c’ero quando i grossi tronchi degli alberi di quercia, liberati dal sughero, emergevano dalla terra rossa di Santo Pietro, come inermi, spogliati della loro corazza. E qua e là, tra le ombrose chiome s’intravedeva un blu di cielo che si nascondeva e riappariva dietro l’argento delle foglie.

Intorno a me, nella stanza, l’aria si è riempita dello stormire delle piante mosse dal vento, dell’incanto del frusciare delle foglie degli eucalipti e il loro inebriante profumo fa sì che l’inchiostro si diverta sul bianco delle pagine vuote.

Il rincorrersi delle immagini mi porta a raccontare “un pezzo” del folklore calatino di questo bosco; non vi ho mai partecipato, ma le parole di mio nonno erano tesoro da custodire. Si tratta di una religiosità semplice, popolare, che rende manifesto come una tradizione tragga la sua linfa dal territorio, dal paesaggio in cui gli abitanti sono immersi e dalle risorse delle quali dispongono.

LA “PARLATA” SICILIANA

La terminologia è originale poiché in queste tradizioni c’è anche l’orgoglio del proprio dialetto.

A sostegno di questa verità anche l’Unesco “sentenzia” che la “parlata” siciliana deve essere considerata più che dialetto: addirittura “Lingua madre”. E Ignazio Buttitta (Bagheria 1899-1997) tra i poeti contemporanei più noti che hanno scritto in dialetto, ci dice nella poesia intitolata Lingua e dialetto (della quale offro un assaggio):

La tradizione della quale vado a raccontare ha luogo nel periodo della festa della Madonna di Conadomini ed è conosciuta come “’A rusedda” (La rosella).

Nel sottobosco di Santo Pietro crescono dei cespugli alti più di un metro che nel mese di maggio fioriscono con fiorellini bianchi particolarmente profumati. Già in tempi lontani, tutte le domeniche di maggio e in special modo l’ultimo giorno del mese, i contadini portavano in omaggio alla Madonna di Conadomini fascine di “rusedda” che, dopo essere state donate in segno di devozione, venivano utilizzate dai ceramisti per scaldare i loro forni in cambio di un’offerta alla Chiesa.

Durante la festa l’immagine della Madonna veniva, e viene tuttora, portata in processione per le stradine del centro storico.

LA SACRA ICONA

Foto originale

Dal punto di vista artistico l’icona è una tempera su tavola che raffigura da un lato la Santissima Vergine, dall’altro Gesù che si innalza dal Sepolcro, con la croce alle spalle.

La datazione si deve far risalire tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo in pieno periodo romanico.

Durante la prima metà del XIII secolo la Sicilia era dominata dall’imperatore svevo Federico II che essendo di parte ghibellina si trovava spesso in conflitto col Papa.

Nel 1224 Papa Gregorio IX scomunicò il sovrano svevo con il pretesto della mancata indizione di una crociata che Federico aveva promesso. In questo quadro storico, nel 1225, la nobile famiglia lucchese dei Campochiaro, custode dell’icona, di dichiarata fede guelfa, decise di abbandonare Lucca per rifugiarsi in Sicilia, a Caltagirone. La preziosa icona fu tenuta dalla famiglia Campochiaro fino agli ultimi anni del XVI secolo, periodo in cui venne donata alla Chiesa Madre dedicata all’Assunta.

L’icona veniva esposta in chiesa dal lato del Cristo e collocata al centro di un polittico detto “cona”, termine dialettale che indica l’Icona (da cui la denominazione Cona Domini). Ogni volta che calamità, siccità, pestilenze, carestie, colpivano la comunità cittadina, l’Icona veniva girata dal lato della Madonna, per venerarla ed implorare la sua misericordia. I miracoli arrivavano e nel luglio 1664 la Madonna di Conadomini fu proclamata dal Senato cittadino, compatrona principale della città di Caltagirone.

La devozione degli abitanti di Caltagirone è così grande che alla Vergine è stato tributato l’appellativo di “Madonna del pane”.

IL MONDO AGRICOLO

È il mondo agricolo che, tra fede e folklore, rende la festa particolarmente “solenne” con l’offerta dei doni della terra: “profumata” con la “rusedda” e “allegra” perché accompagnata dal suono della brogna. Questo strumento a fiato veniva usato come segnale, ma i ragazzi la suonano, oggi, durante il carnevale.  Scrive l’antropologo Pitrè nel 1883 nella raccolta “Giuochi fanciulleschi”: “Un tempo, come oggi, a tutti era dato avviso dell’entrata del carnevale col suono di trombe, o di corni, o di conche di Tritone (brogna) da giovani e da monelli”.

Si tratta di una grossa conchiglia alla quale viene asportato l’apice, si pratica un foro al quale si adatta un bocchino di latta o di stagno.

“… Massaro Turi gli aveva dato la conchiglia marina col bocchino di stagno, per avvisare i vicini che era l’ora della messa.  E Mommo, dalla terrazza si divertiva a suonare, gonfiando le gote…”  (Capuana, Scurpiddu, 1898).

Invece, stranamente, era di zinco, il bocchino della brogna inviata nel 1914 a Pitrè dallo studioso di tradizioni popolari di Melilli, Sebastiano Crescimanno (“I Siracusani n. 54, p. 57) che si trova ora al Museo Etnografico Siciliano di Palermo.

Il suono che si ricava soffiandoci dentro è roco e rimbombante. I pastori la usavano come richiamo per le greggi e, il suono della brogna, dava a vignaioli e lavoratori della campagna il segnale dell’inizio e della fine del lavoro; quindi cominciava la baldoria con canti e suoni accompagnati dal marranzano, dallo zufolo, dal tamburello, …

A Caltagirone la brogna si suonava per indicare nel bosco il luogo di riunione per far legna.

In questo clima “allegro e profumato” la “rusedda” veniva portata alla Vergine come omaggio di propiziazione anche in vista del grande lavoro di mietitura che sarebbe iniziato nel mese di giugno.  Si confidava nella Santa Madre perché tenesse lontano il vento affinché non piegasse le spighe fino a spezzarle e la pioggia per separare più agilmente il chicco dalla pula. La speranza era di “metter mano” alla falce in “grazia du Signuruzzu”.

LUCIDI CARRETTI E SOCIALE PRESTIGIO

Carretto siciliano – Fonte Virgadavola.jpg Wikipedììa

Come “da copione” erano quasi esclusivamente i “Signorotti” ad approntare i cavalli con pennacchi colorati dopo aver dipinto i carretti fino a farli luccicare in onore della Madonna. La verità è che si trattava di un’occasione per mostrare, attraverso un rito pubblico, la propria   ricchezza, il proprio prestigio sociale e politico.  In queste manifestazioni religiose, i più potenti intravedono spesso l’opportunità di confermare ed ampliare i confini dei territori del loro capitale sociale. Nel XXI secolo questo parrebbe anacronistico, ma, in realtà, è ciò che accade ancora oggi.

Mio nonno Vittorio, dal canto suo, aveva un asino e, un anno, senza averlo ornato con pennacchi di sorta, caricò la sua fascina di “rusedda” e affrontò la stradina del paese che portava alla chiesa dell’ex Matrice, meta di questo pellegrinaggio.

La strada era in salita e la bestia scivolava sul terreno “liscio” rischiando di spezzarsi una zampa. Qualche anno dopo la strada venne modificata con un lastricato più idoneo, che permettesse alle bestie di “far presa” con gli zoccoli e che rendesse la salita più agevole. Così è ancora oggi: naturalmente non ci sono più gli animali a percorrerla se non in occasione dei cortei durante le feste.

Chiesa dell’ex Matrice (Caltagirone) – Foto originale

Mi sarebbe tanto piaciuto conoscere l’esito di questo pellegrinaggio, ma non ho mai saputo se quell’estate portò o meno un buon raccolto nel suo, nel nostro “terreno”. So solo che, ogni sabato sera nel mese di maggio, nei vecchi quartieri si sentiva un grido che era preceduto e seguito dal suono del tamburo:

Si indicava la contrada, che ogni anno cambiava, dove andare a raccogliere la pianta in modo che i cespugli avessero il tempo di ricrescere.

L’ICONA VILIPESA

Da “Squille parrocchiali” del 12 Agosto 1967
Da “Squille parrocchiali”  del 13 Agosto 1967

Nel Dicembre del 1966 la Sacra icona venne deturpata da alcuni vandali. L’atto venne definito “Sacrilego attentato”, ma la cittadinanza non si lasciò scoraggiare e il sindaco Avv. Vincenzo Alba prese la decisione di far sfilare, a maggio, il corteo con l’icona vilipesa affinché questa suscitasse una pubblica protesta di sdegno e una esplosione incontenibile di attaccamento e di amore verso la Protettrice.

Ancora oggi, in occasione della Festa di Conadomini si forma un corteo con macchine agricole cariche di fascine: segno vivo che le tradizioni attraversano il tempo traghettando i popoli di epoca in epoca.

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Autore: Francesca Bronzetti

Insegnante specialista di Religione Cattolica nei licei e di Teologia alla Università Cattolica del sacro Cuore di Milano.

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