Gesto d’amore o silenziosa sconfitta?

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Intervista a una giovane schiacciata dal peso della sua stessa vita. “Disincanto”

Lasciare il proprio bambino in un ospedale, dopo averlo dato al mondo, rappresenta l’estremo gesto di un percorso che, a volte, ha radici profonde e tormentate, e il primo passo di un sentiero di ricordi, di dolore, di sollievo, che si presenteranno lungo tutta la vita di una donna.

Non sempre si tratta di una scelta consapevole e, qualunque ne sia la sorgente, lascia cicatrici profonde

nella madre come nel figlio.

A volte la decisione origina da pressioni culturali, altre da circostanze socio-economiche; tuttavia questi fili si intrecciano a formare la trama di ciascun vissuto nel quale si mescolano a caratteristiche emotive e personali che maturano all’interno di una famiglia.

Disincanto

Giornalista: “Sono pronta a raccogliere la sua storia, quella che l’ha portata a lasciare suo figlio in ospedale.”

Giulia: “Mi domando cosa penseranno di me tutte quelle persone, di me e del mio ragazzo. Ogni tanto ci penso, sa? Se provo a immaginare le risposte mi prende una tristezza, quella che conosco bene, quella che mi fa spesso compagnia. E’ brutto sapere che della gente che neanche conosco e che neanche mi conosce dirà di tutto sul mio conto senza che possa rispondere, che mi possa difendere. Lasciare mio figlio non è stato facile, è stato doloroso. La disperazione è una malattia che non guarisce, ti si appiccica alla pelle e non si riesce a levarsela di dosso. Solo quella mi è rimasta, già avevo perso le radici quando ho lasciato una casa dove ero sempre stata un ospite non desiderato, ora il destino si è preso anche i frutti. Sono rimasta io come un tronco secco da buttare nel fuoco.

Da quando è nato il mio bambino piango tutte le notti, mi addormento così, piangendo in silenzio per non svegliare il mio ragazzo di fianco a me. Mi sento come quegli alberi abbattuti dalla furia del vento che vedevo da bambina. Stavo immobile a guardarli; così forti, lì per terra senza vita. Ricordo che un pomeriggio sono tornata a casa con gli occhi di pianto, mia madre ha smesso di lavare i piatti per chiedermi cosa fosse successo. Quando le ho detto che avevo pianto per un albero morto mi ha guardata e mi ha detto: “Sei proprio una stupida!” Mi ero sentita come quell’albero, ma non avevo pianto. Volta dopo volta ho imparato a non piangere e più avevo voglia di farlo più affrontavo le situazioni a muso duro.

Una volta, mi sono persino innamorata. Credevo che da lì in avanti tutto sarebbe cambiato, avrei iniziato una nuova vita, finalmente avevo anch’io qualcuno che mi avrebbe capita. Tutto è finito quando lui ha saputo che aspettavo un bambino. E’ semplicemente sparito. Così.  La scalinata su cui ci trovavamo è diventata di sabbia, mi mancava il terreno sotto i piedi, poi è diventata un torrente in piena e le rapide mi trascinavano via da quell’amore. Mi mancava il respiro, annegavo e morivo e resuscitavo e poi morivo ancora.

Non l’ho fatto nascere quel bambino. Con la sua piccola vita se ne è andata anche la mia perché in quella storia avevo raccolto tutte le poche briciole di fiducia nel futuro che mi erano rimaste. Poi, naturalmente, la vita va avanti, ma non ho più creduto in alcun essere umano.

Ora, non so perché le sto raccontando queste cose, forse per spiegarle il motivo per cui le persone a casa non potrebbero mai immaginare come mi sono sentita e come mi sento sempre: non una foglia secca portata dal vento, ma tutte le foglie secche insieme.

Lei mi vede adesso, il mio sguardo è quello del disincanto, ma quando ero bambina mi piaceva fermarmi a guardare il particolare luccichio tra le foglie piccole del melograno di fronte a casa mia. Lo facevo solo quando nessuno mi vedeva perché erano cose da persona strana. Le altre bambine si riunivano in gruppetti a giocare, ma non mi invitavano. Non so come mai, ma forse avevano ragione mia madre e le maestre quando non perdevano occasione per ricordarmi quanto fossi stupida. Così nel gelo del mio cuore le lacrime si sono cristallizzate ed ho capito che per me non c’era posto tra quelle persone.

Qualche volta l’idea di portare via dall’ospedale, via con me mio figlio l’ho avuta. Ho provato a rivedermi da piccola a vestire una bambola, a cantare una ninna nanna; non ha funzionato, non ero io, era un’altra me. Ho immaginato in tre in questa tenda e ho pensato al pianto inconsolabile di un neonato. Non lo sopporterei, non credo di essere in grado di reggere a questa fatica, voglio allontanare da me qualunque affanno superfluo alla mia lotta per vivere. Sono sempre al limite della stanchezza. A volte sono così stanca che mi raggomitolo e cerco rifugio nel sonno.

Delle volte riesco persino a sognare. Sa qual è il sogno più bello che faccio? Un bosco meraviglioso con alberi grandi e verdissimi. Non ci sono alberi caduti. Arrivo in una radura, al centro c’è un melograno che luccica perché la luce gioca tra i rami e le foglie. Inizio a girare con le braccia aperte e giro, giro, felice fino a cadere sdraiata per terra; sento l’erba sotto la schiena e vedo il cielo che mi passeggia attorno. Chiudo gli occhi e mi sveglio. Quando mi sveglio ho qualche secondo di, si può dire? di felicità e poi tutto mi piomba di nuovo addosso. Sto persino peggio.

Nei giorni più neri, quando sentivo che il peso di me stessa stava per schiacciarmi, dicevo al mio ragazzo di provare a chiedere una mano ai vari centri per poter avere un aiuto. Ci abbiamo anche provato qualche volta. Ricordo alcuni posti, addirittura più squallidi della mia tenda. Facce un po’ annoiate, un po’ seccate, schifate dietro il vetro degli sportelli. Quei vetri poi, così opachi per quanto erano sporchi.

La prima cosa che ci chiedevano erano i documenti, ma i documenti li abbiamo persi. A questo punto iniziavano a mandarci da una via ad un’altra, da un ufficio a un altro da un problema all’altro. Alla fine ci scoraggiavamo. Ecco perché abbiamo smesso di chiedere quell’aiuto del quale tutti parlano.

Ho pensato spesso alla decisione da prendere però, a pensarci bene, è vero che iniziavo a riflettere, ma poi cercavo di scansare velocemente quei pensieri che mi facevano una grande paura e mi concentravo su questioni diverse come trovare da mangiare, per esempio. Le cose si sono svolte così in fretta che in un battibaleno mi sono trovata in sala parto. Qualche volta parlavo col mio ragazzo, ma due derelitti come noi fanno fatica a tracciare una rotta. L’unica via certa era quella che ci portava al sicuro nella nostra tenda.

Ho provato anche a parlare col figlio che portavo dentro. Iniziavo con tutte le buone intenzioni possibili, ma presto mi sentivo una stupida e poi finivo per dare a lui la colpa di questa situazione, quasi si trattasse di un parassita che si fosse insediato in me.

Non ho vissuto da piccola l’amore materno e al solo pensiero sento il cuore che manca un battito. Un salto, un vuoto, abbandono. No, non l’ho vissuto da bambina e non lo riconosco neanche da grande. Quando ero più giovane uno psicologo mi ha detto che non avevo ricevuto la cura che rende capaci di prendersi cura degli altri. Mi ha detto che sarebbe stata dura dal momento che avrei dovuto impararla da sola. Ma io non sono mai stata brava ad imparare e la mia vita ne è una prova.

La cosa che più mi rattrista è che non vedo un futuro. Questo bambino avrà certamente un posto nella mia memoria. Qualche volta salterà fuori dalla scatola dei ricordi, ma sarà una parte di tutto lo schifo che è la mia vita.

Sa, questa vita dura mi ha fornito un biglietto omaggio senza che lo desiderassi. Non ho neanche dovuto chiedere l’autorizzazione.

C’è una cosa che mi fa stare male intanto che parlo con lei. Sono sicura che mentre le sue parole stanno sciupando commenti di vicinanza, il suo pensiero accarezza con sollievo l’idea di non essere come me e si sforza di camuffare l’opinione orrenda che si è fatta e l’orrore suscitato da una madre che ripudia la sua creatura. Parlare. Per chi vive nello sfacelo non c’è racconto; la durezza della strada è realtà, è il freddo, è abbassare gli occhi di fronte agli sguardi disgustati, la tristezza nel vedere una donna che tira più vicino a sé suo figlio quando incrocia la mia strada. Questo è. E non è un racconto. Qui ci sono le mani, i piedi, le orecchie, il cuore che si spaccano dal freddo. Qui c’è uno zaino con una coperta. Tutto qui. Cosa dovrei raccontarle, che quando mi rifugio nella mia tenda penso di tornare nell’utero di mia madre poiché la speranza è quella di non essere mai nata? So di essere sbagliata, ma questo è il destino che mi è toccato. Forse c’è un posto in questo mondo dove non si soffre, ma io non l’ho trovato. Chissà se mio figlio sarà più fortunato.

Non lo so se il mio è stato un gesto d’amore e chissà se lo saprò mai. Penso che quando saranno passati tanti anni, se sarò ancora viva, un giorno svegliandomi immaginerò che quello sia il giorno in cui mio figlio busserà alla mia porta. O in cui sentirò la sua voce al telefono: “Buongiorno, io sono suo figlio.” Non so se sarebbe una doccia fredda o una nube di calore. Chissà quanta strada avrà fatto per arrivare fino a me. Quanti uffici avrà visitato. Impiegati solerti dietro vetri puliti perché lui i documenti li avrà a posto. Forse il mio è stato un gesto d’amore dato che immagino mio figlio come una persona che avrà fortuna; io sono all’angolo, e da qui guarderò nella mia mente la sua vita. Forse però non è stato un gesto d’amore, perché una madre degna di questo nome non abbandona le sue creature. Vede, vado in confusione, oggi penso in un modo, domani chissà.

Di sicuro durante la sua vita si domanderà perché non è stato voluto. Cos’aveva di sbagliato per essere ripudiato da sua madre. Si chiederà se era stato il frutto di una violenza. Se sua madre aveva quindici anni ed è stata costretta a lasciarlo.  “Ma allora perché non mi ha cercato?” si interrogherà.  Forse era troppo povera: “Ma allora perché non ha chiesto aiuto?”  Si domanderà chi era suo padre. “Avrò dei fratelli?” Di sicuro si chiederà tutto questo e non avrà risposte. Se le costruirà da solo e difficilmente corrisponderanno alla realtà. E se un giorno busserà alla mia tenda, lo sguardo che mi riserverà sarà diritto, lungo, terribile, pieno di angoscia: “Perché.”

Giornalista: “Grazie.”

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Autore: Francesca Bronzetti

Insegnante specialista di Religione Cattolica nei licei e di Teologia alla Università Cattolica del sacro Cuore di Milano.

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