Di fronte al massiccio fenomeno dell’immigrazione dal continente africano con destinazione Europa, ma in prima battuta Italia per via della collocazione geografica, i fautori (politici, intellettuali, religiosi) della politica dei “ponti” (opposti ai “muri”) e delle porte aperte cercano di addolcire il cuore di un”opinione pubblica non troppo disponibile con l’evocazione delle migrazioni verso terre straniere che nella seconda metà del XIX secolo e nel primo decennio del XX ebbero per protagonisti milioni d’ italiani. Soprattutto, dopo il 1860, delle regioni meridionali, e, dopo il 1866, del Veneto (due date che la dicono lunga su pregi e virtù del sabaudo Regno d’Italia).
D’accordo un popolo di migranti.
Che si potrebbe, in quanto tale, immaginare propenso alla comprensione nei confronti di chi è oggi costretto ad abbandonare la propria terra. In realtà, anche a volere recuperare, a dispetto delle obiezioni degli storici, l’antica nozione della storia “magistra vitae” o comunque a volere trarre qualche insegnamento da vicende passate, è innegabile che le situazioni, per quanto possano possedere caratteri comuni, non si ripresentano mai identiche. Per attenersi ai fenomeni migratori, a tacere d’altro, va tenuto presente che le migrazioni ottocentesche dall’Italia e da altri paesi europei, avevano per meta le Americhe dell’epoca, quindi immensi spazi vuoti ed economie in tumultuosa crescita, caratteristiche oggi totalmente assenti in Italia e in Europa.
Quello migratorio è un fenomeno complesso sicché, a parte le macroscopiche e più evidenti differenze appena indicate, possono osservarsene molte altre a cominciare dai protagonisti e dalle loro motivazioni. Protagonisti che non sono soltanto i migranti, ma, su altri piani, i governi, i partiti politici, le classi dominanti, la grande finanza, i leader religiosi, le Chiese, tanto dei paesi di partenza quanto di quelli di arrivo, che possono sia favorire (oggi mai o quasi mai) che contrastare il fenomeno.
In questa sede ci si limita ad una categoria di protagonisti, certamente collocabile nei livelli bassi del fenomeno, appena un gradino sopra la massa dei migranti. Una categoria di cui oggi poco o per nulla si parla soprattutto per quanto riguarda l’attualità, ma anche per il passato e che tuttavia svolse un ruolo importantissimo, forse determinante quanto meno negli aspetti quantitativi, nell’emigrazionismo italiano fino a inizi novecento.
Il riferimento è ai dimenticati “agenti d’emigrazione”. Lo scrittore veneto Matteo Righetto, inserendoli in una avventurosa trilogia sulle vicende di alcuni migranti delle sue terre a fine ‘800, li definisce “ persone senza scrupoli che facevano affari organizzando partenze e viaggi dei poveri migranti vendendo loro i biglietti del treno per raggiungere Genova e da lì imbarcarsi sul transatlantico che li avrebbe condotti in America”. Li descrive, questi agenti di emigrazione, mentre vanno di borgata in borgata, di paese in paese, facendo balenare agli occhi di contadini soprattutto di montagna e mezza-montagna, il Bengodi delle terre americane, tanto larghi di magnifiche promesse che in alcune zone del Veneto erano stati ribattezzati, appunto, “i promessi”.
Indubbiamente uomini senza scrupoli, ma comunque fautori, i più, della libera impresa (oggi si direbbe “partite iva”), che, avendo annusato le possibilità di lucro offerte dal fenomeno migratorio anche se si trattava solo delle briciole, s’impegnavano a fondo per persuadere il maggior numero possibile di persone a lasciare l’ingrata patria per un luccicante Eldorado transoceanico.
Professionisti dotati di fantasia e di scilinguagnolo, ma anche di agganci, tanto in patria, con le burocrazie di municipi, prefetture e questure, ambasciate e consolati, quanto all’estero, con rappresentanti di governi favorevoli all’immigrazione in particolare europea o di grandi latifondisti e compagnie anonime del settore industriale, tutti abbisognevoli di mano d’opera a basso costo.
Insomma anche a questo livello il fenomeno era soprattutto economico e, dal momento che questi agenti sembravano passarsela bene, è ragionevole pensare che, se non tutti, molti di loro non si accontentassero dei piccoli spiccioli che potevano strappare alle saccocce dei migranti, scarse di contanti (i protagonisti dei libri di Righetto, non del tutto miserabili ma comunque forzatamente avvezzi all’economia del baratto, pagavano con mini-lingotti di argento o rame, frutto del contrabbando – oltre la frontiera austriaca – delle foglie di tabacco, sottratte al pur occhiuto controllo dei funzionari del Regio Monopolio).
E’ quindi verosimile che, direttamente o indirettamente, avessero qualche potente alle spalle, addirittura, anche se non proprio in prima persona, i governi dei paesi di partenza o di arrivo o di entrambi. Alcuni erano veri e propri emissari di società e di governi esteri. Fra questi, particolarmente agevolati nella loro opera d’arruolamento gli agenti connessi col Brasile, perché quel governo offriva il viaggio gratuito dal punto di partenza alla “fazenda” di destinazione. Comunque, in via generale gli agenti potevano contare, più che sulla neutralità o l’indifferenza, sulla benevolenza del governo sabaudo, che per qualche decennio utilizzò l’emigrazione come discarica di persone inutili e potenzialmente pericolose (l’emigrazione come autentica “risorsa” per l’Italia).
Prima Torino e Firenze poi Roma, se anche, a differenza del Brasile, non sovvenivano direttamente gli agenti di emigrazione, certamente non ostacolavano l’opera di questi benemeriti patrioti, che potevano procurarsi con incredibile (ancora oggi) celerità passaporti, visti e passaggi per i loro assistiti. All’emigrazione oltremare, quella numericamente più consistente e anche più redditizia sotto tutti i punti di vista (il governo poteva contare di non rivedere mai più questi suoi esuli figlioli), erano interessate anche le grandi compagnie di navigazione, italiane e straniere, sicché accanto ai liberi professionisti dell’emigrazione operava anche la speciale categoria dei dipendenti di tali compagnie. Costoro anzi, pur senza mai assicurarsi l’esclusiva, ad a un certo punto presero il sopravvento per effetto di provvedimenti del governo di Roma, che, dopo averla a lungo favorita, cominciava a vedere i lati negativi di una emigrazione tanto massiccia che alcuni territori di media montagna erano rimasti pressoché spopolati.
Tutto così ufficiale e così conforme alle leggi della politica e del mercato che alcuni agenti non esitarono ad aprire nelle zone d’emigrazione vere e proprie pubbliche agenzie. L’ultima di queste sopravviveva ancora, sotto l’insegna “Rappresentante Emigrazione”, negli anni’ 70 del secolo scorso in una strada di Serra San Bruno, collegata con compagnie non solo di navigazione, ma anche, mutati i tempi, di trasporto aereo.
Sembra invece che l’attuale fenomeno migratorio dall’Africa e da altri paesi, oltre a non avere sponsor riconosciuti, non conosca nemmeno questa figura, di cui nessuno parla nonostante che le luci e i flash del “villaggio globale” illuminino gli angoli più oscuri del mondo. Difatti, a meno che non si tratti di una grave degenerazione (per altro conforme al clima del nostro tempo), gli antichi agenti di emigrazione non vanno confusi con gli “scafisti”, non semplici “persone senza scrupoli”, ma autentici criminali.
Del resto, secondo la narrazione corrente dei mass-media, gli scafisti intervengono lungo il viaggio e in particolare al momento finale, quello che gli agenti lasciavano alle compagnie.
La stessa vulgata non fa invece menzione dell’esistenza, a monte degli scafisti, di personaggi che battano città e villaggi per convincere i miseri e gli sprovveduti che l’Europa e l’Italia li attendono a braccia aperte. Tuttavia riesce difficile credere che centinaia di migliaia forse milioni di persone improvvisamente decidano di lasciare la propria terra, affrontando lunghi viaggi dall’esito incerto (non ci sono né contratti né “fazende”ad aspettarli) senza che qualcuno li abbia sollecitati ed abbagliati con promesse e informazioni fuorvianti. Sorge il dubbio che si preferisca non parlarne, perché la loro esistenza e il loro intervento porrebbe, in assenza di Stati interessati come un tempo il Brasile, l’ineludibile domanda dalla risposta difficile: chi li paga? Davvero si può credere che il loro compenso esca tutto dalle magre saccocce dei migranti? Oppure prestare fede alla pia leggenda di interi villaggi che tassano la propria miseria per spedire in Europa i più baldi giovanotti della comunità?