Ai primi di aprile Virginia Raggi, sindaca pentastellata di Roma, sollecitata dalle proteste di gran parte del mondo politico e della comunicazione, ha ordinato la rimozione di un manifesto riproducente la foto di un feto all’undicesima settimana di gravidanza con l’indicazione delle funzioni già in essere degli organi essenziali per la vita e la scritta “Tu eri così a 11 settimane. E ora sei qui perché tua mamma non ti ha abortito”. Il manifesto era stato affisso, previa autorizzazione comunale, dall’associazione Pro Vita sulla parete di un palazzo di via Gregorio VI.
Hanno fatto seguito, pochi giorni dopo, il coro di condanna da parte dei maggiori esponenti politici, uscenti ed entranti, vincitori e vinti (unica eccezione Matteo Salvini), del governo di Damasco, accusato di avere utilizzato armi chimiche contro i miliziani di Jaysh al-Islam asseragliati a Douma, e l’approvazione della punizione inflittagli, per ordine del presidente USA Trump, col bombardamento del territorio siriano.
Poco dopo si è appreso che i giudici di Sua Maestà Britannica, dopo avere respinto l’opposizione dei genitori e disposto la soppressione, riservandosi di fissarne il luogo e l’ora, del piccolo Alfie Evans, sofferente di una malattia gravemente invalidante e a probabile esito infausto, hanno negato ai genitori l’autorizzazione a trasferirlo all’ospedale del Bambino Gesù di Roma, dove era stato approntato un progetto di cura, con la motivazione che il viaggio in aereo-ambulanza poteva provocare al condannato in attesa dell’esecuzione uno scompenso dai possibili esiti letali.
In apparenza nessun rapporto fra i tre eventi, diversissimi, ma in realtà uniti dal più stretto dei legami per essere tutti prodotto ed espressione della cultura dominante di una società sempre più simile a quella, uscita dalla tirannia staliniana, che Vaclav Havel nel suo libro “Il potere dei senza potere” definisce “post-totalitaria”. La nostra, quella di un Occidente di cui, purtroppo, l’Europa è parte integrante e costitutiva, potrebbe essere definita “post-democratica” o, a essere ottimisti, molto avanzata sulla strada per diventarlo.
Nel suo libro Havel parla di un erbivendolo, probabilmente praghese, che espone nella vetrina del negozio un cartello, recapitatogli dai superiori, con lo slogan “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Scopo dell’affissione è di inviare ad autorità e concittadini il messaggio: “so che cosa devo fare, mi comporto come ci si aspetta che mi comporti, di me ci si può fidare e non mi si può rimproverare nulla, io sono ubbediente e ho quindi diritto a una vita tranquilla”.
Magari, a differenza che in quella post-totalitaria, nella società post-democratica la parola “ubbidiente” non piace, anzi è opportuno qualificarsi come persona dalla mente aperta, illuminata, libera dalle tenebre del medioevo. Ciò non toglie che sia obbligatoria la libera adesione al pensiero unico, per il quale il bambino concepito è soltanto (per i più rozzi, ligi e e creduloni) un grumo di cellule o (per i più acculturati) una non-persona, i soldati dell’Occidente e della Nato vengono inviati in giro per il mondo a portare pace e democrazia, i bambini afflitti da gravi malattie vengono soppressi nel loro “best interest” per risparmiargli il peso di una “futile” vita.
Nella società post-totalitaria descritta da Havel “la vita è percorsa in tutti i sensi da una rete di ipocrisie e di menzogne; il potere della burocrazia si chiama potere del popolo, la classe operaia viene resa schiava in nome della classe operaia; la totale umiliazione dell’uomo viene contrabbandata come sua definitiva liberazione; l’isolamento delle informazioni viene chiamato divulgazione”. In quella post-democratica la classe operaia è stata sostituita da altre “periferie” ed altri miti, ma resta percorsa da una rete di ipocrisie e menzogne, che non sono meno ipocrite e menzognere per avere cambiato contenuto e rinunciato (solo perché e finché si dispone di mezzi altrettanto efficaci e in apparenza più indolori) ad imporsi con mezzi violenti (il che non toglie che vi sia “violenza”, e tanta, non solo nel lancio di missili sulla Siria, ma anche negli aborti, nella detenzione in ospedale e nella ”terminazione” di bambini malati, nella rimozione di manifesti),
Del resto anche nella società post-totalitaria dagli anni ’70 del secolo scorso in poi la violenza poliziesca propria delle dittature aveva perso d’importanza, quanto meno si era fatta più sottile. Nell’attuale società post-democratica forse il processo non è ancora totalmente concluso, ma fin d’ora sua caratteristica fondamentale è, come dice Havel per la sua, “la vita nella menzogna”. Al contrario, quella che Havel definisce “la vita nella verità” è per entrambe più temibile della peste, tanto che quella pos-totalitaria si è volatilizzata per non essere riuscita a bloccare il diffondersi e l’affermarsi della verità nella coscienza dei sudditi.
La società post-democratica, ammaestrata dall’esempio, ne è consapevole e si adopera per evitare un così mortale pericolo. Nel caso della Siria e di Alfie sono state trasformate in verità due menzogne: l’uso di armi chimiche a Douma da parte del governo di Damasco, e l’identificazione del best interest del piccolo Alfie con la sua soppressione. Il caso romano, in apparenza meno grave, lo è invece di più in quanto qui a essere proibita e condannata è stata la verità in quanto tale. Il manifesto di Pro Vita è stato rimosso perché il suo contenuto (il feto, che ha un cuore e un cervello perfettamente funzionanti e si ciuccia il dito) è stato ritenuto “lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali”, e tale era realmente appunto a causa della sua innegabile verità. Di conseguenza, risultava pericoloso per diritti e libertà che sono tali solo in una società che vive nella menzogna.
A noi, cittadini/sudditi dell’Occidente, come ai compatrioti post-comunisti di Havel, non resta che aggrapparci alla verità: unico potere dei senza potere.