Ha suscitato clamori e proteste anche a livello di governi la legge approvata dal Parlamento polacco, che punisce con la reclusione fino a tre anni chiunque definisca “polacchi” i campi di sterminio installati dai nazisti nel territorio della Polonia invasa o (questa la parte più contestata) sostenga la partecipazione di cittadini polacchi al genocidio degli ebrei.
In realtà si riconosce che la Polonia ha tutte le ragioni a pretendere che non vengano definiti “polacchi” campi di sterminio come quelli, tristemente famosi, di Treblinka, Auschwitz-Birkenau, Chelmo, Belzec, Sobibor e Maidanek, installati dai nazisti nel territorio della Polonia invasa. Lo stesso Dipartimento di Stato americano nel pur pressante invito a ritirare la legge ha riconosciuto che si tratta di definizione “fuorviante e offensiva“. Il problema sembrerebbe, quindi, essere rappresentato dall’art. 55, definito da chi in Italia l’ha pubblicato (con un omissis) centrale nella legge.
Ecco il testo: “1. Chiunque sostenga, pubblicamente e contrariamente ai fatti, che la Nazione Polacca o la Repubblica di Polonia sia responsabile o corresponsabile dei crimini nazisti commessi dal Terzo Reich /…/ o di altri reati che costituiscono crimini contro la pace, contro l’umanità o crimini di guerra, o chiunque in altro modo sminuisca gravemente la responsabilità dei veri autori dei suddetti crimini, sarà passibile di una pena pecuniaria o del carcere fino a 3 anni. La sentenza verrà resa pubblica. 2. Se l’atto sopra specificato è commesso preterintenzionalmente, l’autore sarà passibile di una pena pecuniaria o di una restrizione della libertà. 3. Nessun reato è commesso se l’atto criminale specificato nelle clausole 1 e 2 sia commesso nel corso di un’attività artistica o accademica”.
Senza dubbio è azzardato e scientificamente scorretto tentare l’interpretazione di una norma senza conoscere l’ordinamento giuridico in cui si inserisce e nemmeno l’intero testo legislativo che la contiene. Tuttavia, dal momento che non si tratta di farne applicazione in un processo o di dottamente sezionarla in un convegno di giuristi, sembra lecito il tentativo di interpretazione letterale di una norma che, nel testo tradotto, può prestarsi, in parte, a letture diverse.
In particolare per quanto riguarda la condotta incriminata, cioè il sostegno di una determinata tesi “contrariamente ai fatti”. Si tratta di una “contrarietà”, che può essere letta sia nel senso che il legislatore dia per certa e indiscutibile l’esclusione di qualunque coinvolgimento della Nazione e della Repubblica polacche nei crimini elencati (che non sono solo quelli del Terzo Reich), ma anche come elemento costitutivo del reato non aprioristicamente fissato, ma da accertare caso per caso. Se così fosse a integrare il reato non basterebbe l’affermazione di una partecipazione polacca a questo o quel crimine, ma l’accusa dovrebbe dimostrarne la falsità. Si potrebbe anche pensare ad un’inversione dell’onere della prova nel senso che spetterebbe all’accusato provare la corrispondenza ai fatti di quanto afferma. Fin che si vuole opinabile, ma meritevole di discussione.
Comunque la lettura dell’art. 55, in qualsiasi senso lo si interpreti, toglie ogni fondamento alla tesi che la legge da un lato neghi il genocidio ebraico (al contrario il riconoscimento della sua realtà e del suo orrore ne costituisce il presupposto – si tratta di crimini tanto orrendi che la Polonia non vuole averci nulla a che fare -), dall’altro comporti l’incriminazione di “coloro che dicono la verita’ sugli informatori polacchi e sui cittadini polacchi che hanno assassinato i loro vicini ebrei“.
Quanto meno di tutto questo non vi è traccia in un articolo che si limita a vietare (e punire) qualunque affermazione di responsabilità o corresponsabilità della Nazione Polacca o della Repubblica di Polonia, entità ovviamente non identificabili con ogni polacco o anche con ogni gruppo di polacchi che abbiano collaborato, informato, assassinato.
Se qualcuno può trovarci qualcosa da ridire è caso mai la Germania, perché implicitamente la legge presuppone quanto meno la possibilità che la responsabilità del genocidio ebraico possa essere attribuita alla Nazione tedesca e, proprio per questo, proibisce che si faccia altrettanto con la Nazione polacca. Sotto questo aspetto, dal momento che la legge decreta un’assoluzione della Polonia, che vieta di mettere in discussione, può esservi del vero nella critica di chi ritiene che le verità stabilite per legge possono “influenzare la libertà di espressione e il dibattito storico“.
E’ però singolare che tale accusa sia mossa anche da paesi (in prima linea la Francia, ma dal 2016) anche l’Italia), che da prima della Polonia punito con pesanti sanzioni chi nega questo o quel fatto storico. Va anzi detto, a favore della Polonia, che la sua legge si preoccupa di escludere la punibilità dei fatti “commessi nel corso di un’attività artistica o accademica”, tentando di salvare almeno la libertà di espressione artistica e di ricerca storica, al contrario di quanto avviene negli altri paesi, che proprio queste hanno soprattutto nel mirino.
*L’autore dell’articolo è magistrato, già componente del Consiglio superiore della Magistratura (CSM)