Una sconfitta: lo Stato non può dare la morte

di Gaetano Quagliariello, presidente di Idea

È sempre difficile affrontare un tema che attiene così profondamente all’essenza dell’uomo sull’onda di un caso emotivamente straziante. E il disagio aumenta quando la morte di una persona viene accompagnata, nell’opinione pubblica, da un osanna liberatorio il cui messaggio sottinteso,

probabilmente inconsapevole, è che ci siano vite degne e vite che degne non sono e che porre fine a una vita considerata “indegna” sia l’unico modo per restituirle, nell’attimo estremo, la sua dignità. Poiché tuttavia è la legalizzazione dell’omicidio del consenziente, o meglio l’istituzionalizzazione del suicidio assistito somministrato dallo Stato (“eutanasia” suona meglio, ma di questo si tratta) il risultato che dalla battaglia pubblica sul dramma di Fabiano Antoniani si vorrebbe far discendere, allora vi sono considerazioni dalle quali non ci si può esimere.

Quando una persona decide di togliersi la vita, quando si arriva a considerare la morte come unica risposta al dolore umano nonostante si sia circondati d’amore, è sempre una sconfitta. Non solo sua, ma di tutta la comunità alla quale la persona si rapporta come tutto rispetto al tutto. Ciò che è in questione quando si discute di eutanasia è però il rapporto tra la persona e quella particolare comunità giuridicamente e solidalmente organizzata che va sotto il nome di Stato, e il cui ordinamento è in qualche modo lo specchio della società che è chiamato a regolare. Il cittadino può (e deve) rivendicare dalla comunità statuale assistenza nelle proprie condizioni di vita, tutela nelle sue fragilità, cura nelle sue infermità, sostegno nell’esercitare la propria libertà, aiuto nelle difficoltà piccole o grandi, talvolta grandissime, che l’esistenza pone di fronte a ciascuno.

Non si può invece chiedere che lo Stato si faccia dispensatore di morte, non si può confondere la libertà dell’uomo con l’istituzionalizzazione di un diritto esigibile a morire che in quanto tale porrebbe in capo allo Stato il dovere di garantirne il concreto esercizio. In caso contrario – se cioè accettassimo l’idea di uno Stato che dà la morte su richiesta – sigleremmo un drammatico atto di rinuncia a una società orientata alla vita e fondata sul principio di solidarietà. Rifiutare l’eutanasia significa forse comprimere la libertà dell’uomo? Assolutamente no. Esiste una sfera di inalienabile e incomprimibile libertà personale, esiste la libertà di rifiutare una cura, e – se si prescinde dalla morale cristiana e si considera la vita nella propria disponibilità – tecnicamente può esistere persino la libertà di suicidarsi. Tutto questo attiene a un ambito intimo di libertà che appartiene a ciascuno, ed è ciò che, ad esempio, rende incomparabilmente diversi i casi Englaro e Welby ripetutamente evocati in queste ore.

Piergiorgio Welby era affetto da una malattia degenerativa e, in stato di piena coscienza, ha volontariamente rinunciato alle pratiche terapeutiche che gli consentivano di restare in vita. Eluana viveva uno stato vegetativo ed è stata indotta alla morte per fame e per sete, non per interruzione di terapie, presumendo di ottemperare a un’asserita volontà (non certo un consenso informato) ricostruita ex post sulla base di una opinione espressa quasi vent’anni prima, nel pieno del vigore giovanile, di fronte allo shock per l’incidente occorso a un amico finito in coma. Ancora ieri il papà Beppino Englaro ha affermato “Eluana rivendicava un diritto costituzionale”. Con tutto il rispetto, e senza addentrarmi in questa sede nelle testimonianze di chi l’ha amorevolmente curata, se mai nel suo caso si trattasse di un “diritto costituzionale” (e non credo che la morte di Stato per fame e per sete appartenga a questa categoria), è qualcun altro che lo ha deciso per lei.

Nel caso di Fabiano si è trattato di una situazione ancora diversa. Non c’erano in corso terapie somministrate alle quali il dj Fabo potesse rinunciare: c’era una morte da procurare attivamente attraverso sostanze letali. Non c’entra niente dunque la libertà di cura, non c’entra niente neppure la drammatica decisione di un uomo di togliersi la vita. C’entra la rivendicazione di un diritto a morire per mano dello Stato e la conseguente aspettativa che lo Stato possa somministrare attivamente la morte, inconcepibile per una società orientata alla vita.

Un’ultima notazione. In queste ore il dramma di Fabiano e dei suoi cari è stato impropriamente sovrapposto al dibattito in corso alla Camera sulla (brutta) legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico. Si è detto che se quella legge fosse già stata approvata il dj Fabo avrebbe potuto morire in casa sua esercitando i suoi diritti di cittadino. Non è vero, perché le dichiarazioni anticipate riguardano persone in stato di incoscienza, incapaci di intendere e di volere, e non era questo il caso. C’è tuttavia un particolare che mi ha molto colpito. Uno dei punti fondamentali di discussione sul testamento biologico è infatti l’opportunità o meno che le dichiarazioni anticipate, depositate magari anni prima, abbiamo carattere vincolante per il medico o, al contrario, siano un elemento da considerare nell’assumere una decisione che tenga conto di molteplici fattori quali ad esempio il progresso medico-scientifico.

Per un autentico liberale l’idea di dichiarazioni anticipate vincolanti è una aberrazione, perché nega in radice la possibilità che per l’uomo il futuro sia sempre aperto. Per i sostenitori della morte di Stato quel testamento è invece una specie di programmazione inviolabile anche alla luce di dati che dovessero apertamente contraddirlo. Dalla Svizzera, dove si trovava con dj Fabo, Marco Cappato ha riconosciuto, come da protocollo, che Fabiano avrebbe potuto cambiare idea fino all’ultimo istante. Un’ammissione forse involontaria, da parte di un programmatore integralista della vita e della morte, che il futuro dell’uomo non è un piano quinquennale ma l’imprevedibile svolgimento di una vita fatta di sorpresa e di meraviglia. Chissà se ora alla Camera se ne ricorderanno.

(Tratto da Il Dubbio)

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