9) MALE MINORE, EUTANASIA PASSIVA e TESTAMENTO BIOLOGICO
Ciò che si trova alla base dell’esigenza di avere una legge ad hoc, proveniente soprattutto da esponenti di area cattolica, è ancora una volta il “male minore”: la legalizzazione del testamento biologico consentirebbe di contrastare le derive eutanasiche poste in atto dalle “sentenze creative” e il “far west” dei registri comunali dei biotestamenti, proliferati in tutta Italia grazie alle iniziative dei Radicali.
In realtà, il disegno di legge italiano sulle Dat presenta gli stessi difetti che sono stati rilevati nei Paesi che hanno già introdotto il biotestamento, e ha tutte le caratteristiche per far ritenere che, anziché fermare le sentenze creative eutanasiche, sarà proprio esso, se verrà approvato, a porre le basi in Italia per la “buona morte” legalizzata.
INDICE:
1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?
Male minore e “nuovi diritti” legalizzati
2) Male minore e aborto
3) Male minore e fecondazione extracorporea
4) Male minore e divorzio
5) Male minore e contraccezione artificiale
Male minore e “nuovi diritti” reclamati
6) Male minore e matrimonio gay
7) Male minore e droga libera
8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito
9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico
10) Conclusione
Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi
9) MALE MINORE, EUTANASIA PASSIVA e TESTAMENTO BIOLOGICO
Il Testamento Biologico è un documento nel quale una persona capace manifesta la propria volontà circa i trattamenti medici ai quali desidera oppure no essere sottoposta nel caso in cui, a seguito di una malattia o di un trauma, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato. Secondo i suoi promotori, la sottoscrizione di un testamento biologico dovrebbe servire a proteggersi dall’accanimento terapeutico, in realtà le norme che garantiscono la tutela da accanimento (e abbandono) terapeutico esistono già: nella Costituzione, nel Codice Civile e Penale, nel Codice Deontologico e nella Convenzione di Oviedo. La sospensione delle terapie è, infatti, consentita in tutti quei casi in cui il loro prolungamento si trasformi in un trattamento medico (terapie di rianimazione, somministrazione di farmaci, operazioni chirurgiche…) gravemente sproporzionato e privo di efficacia clinica rispetto alla reale situazione del malato prossimo alla fine, che gli procuri una continuazione precaria e penosa della vita in modo forzato e macchinoso.
Ora, se le tutele contro l’accanimento terapeutico esistono già, perché fare una legge che introduca la possibilità di sottoscrivere un documento per proteggersi da tale accanimento? Per rispondere a questa domanda è sufficiente risalire alle origini del biotestamento, cioè a chi l’ha ideato e perché. Il “Living Will” (“Testamento Biologico”) viene progettato nel 1967 dall’“Euthanasia Society of America” con l’obiettivo di dare una spinta alla discussione sull’eutanasia poiché, da quando nel 1938 l’organizzazione era stata fondata, non era ancora riuscita a raggiungere alcun risultato importante in vista della legalizzazione delle pratiche eutanasiche. Successivamente, grazie all’ingresso del linguaggio politically correct, il “living will” muterà la sua denominazione in “advance directives” (“direttive anticipate”), ma nella sostanza sempre della stessa cosa si tratta.
In altre parole, viste le grandi difficoltà incontrate tra la popolazione nel trovare consensi verso l’eutanasia, i paladini americani della morte autodeterminata misero a punto un nuovo piano, impostato sulla necessità di “camminare prima di poter correre”. Il testamento biologico nasce nell’ambito di questa nuova strategia quale strumento per eradicare le resistenze, facendo accettare alle persone, intanto le forme passive di eutanasia e, poi, in seguito l’eutanasia vera e propria. Le forme passive di eutanasia si differenziano da quelle attive per il fatto di lasciare morire il malato, o tramite la rinuncia all’attivazione delle cure, o mediante l’interruzione dei sostegni che lo tengono in vita (acqua, cibo, aria). Emblematica al riguardo è la seguente affermazione fatta dalla filosofa australiana Helga Kuhse, durante la conferenza mondiale delle società eutanasiche del 1984:
“Se riusciamo a far accettare alla gente la rimozione di ogni trattamento e assistenza, specialmente del cibo e dei liquidi, ci si accorgerà di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, accetteranno l’iniezione letale”.
In sostanza, così come la legalizzazione delle droghe leggere a scopo terapeutico è il passaggio per arrivare alla legalizzazione di tutte le droghe, il testamento biologico è diventato lo strumento per spuntare la legalizzazione dell’eutanasia. Con lo slogan di “no all’accanimento terapeutico” e l’invocazione del “diritto di autodeterminare” il proprio fine-vita, si instilla nelle persone la necessità di tutelare anzitempo la fine della propria vita dallo “strapotere” dei medici, mediante la sottoscrizione di un testamento biologico che dovrà, perciò, essere legalizzato dallo Stato. Esso servirà, in realtà, per arrivare alla legalizzazione dell’eutanasia attiva, dopo il passaggio intermedio del riconoscimento delle forme di eutanasia passiva. Come rivela Kuhse, questo obiettivo si deve raggiungere puntando sulla rimozione del cibo e dei liquidi, poiché morire di fame e di sete è estremamente doloroso perciò, per il bene del malato, apparirà di gran lunga preferibile una veloce e “indolore” iniezione letale.
Arrivati a questo punto, però, i paladini della “dolce morte” hanno ancora un ostacolo da superare, il fatto che idratazione e nutrizione non rientrano nel campo degli interventi sproporzionati, dal momento che non sono terapie mediche ma sostegni vitali, e perciò passibili di rimozione solo nel caso in cui il malato non sia in grado di assimilarli o gli arrechino danno. Come fare, allora, per legittimare sempre l’interruzione anche di cibo e liquidi? Niente di più facile, basta cambiare la realtà modificando il significato delle parole: con un agile equilibrismo linguistico i sostegni vitali sono trasformati in mere cure mediche, dopodiché anch’essi potranno essere inseriti nel testamento biologico tra i trattamenti sanitari che si intende rifiutare e sarà, altresì, possibile chiedere la loro sospensione appellandosi al dovere di evitare l’accanimento terapeutico. Osserva al riguardo Giovanni battista Guizzetti, responsabile dell’Unità Operativa Stati vegetativi del Centro Don Orione di Bergamo:
“Il tentativo di equiparare l’alimentazione ed idratazione ad una terapia ha come unico scopo quello di poterla giudicare sproporzionata ed eventualmente inefficace per aprire la strada alla sua sospensione. Vale la pena ricordare una riflessione di Keith Andrews: ‘È curioso che l’unico motivo per cui la sonda dell’alimentazione sia considerata “trattamento” è perché possa essere rimossa. La gran parte del dibattito riguarda la questione che la sonda sia un trattamento inutile. Io dico che la sonda è un trattamento estremamente efficace in quanto realizza il compito che noi ci aspettiamo che compia. Ciò che in realtà si pone è l’inutilità della vita del paziente – di qui il bisogno di trovare una strada per porre la fine a quella vita… Il desiderio della medicina di non sembrare apertamente a favore dell’eutanasia ha prodotto un ragionamento tortuoso per dimostrare che non siamo responsabili di quella morte’”.
Il dottor Marco Maltoni scrive:
“Esiste una posizione, apparentemente più sfumata e ‘subdola’, che considera eutanasica solo una accelerazione della morte dovuta ad un atto attivo, e non eutanasiche le interruzioni di supporto vitale”. Tale posizione si declina nel “tentativo in atto di ‘allargare’ sempre più la definizione di ‘accanimento terapeutico’ (più le azioni sono considerate ‘accanimento’, più sono legittimamente e doverosamente da sospendere), e [nel] ‘restringere’ sempre più la definizione di ‘eutanasia’ solo a quella attiva effettuata su richiesta di un adulto consenziente…
L’attribuire ad atti di supporto vitale il carattere di ‘terapia’ giustifica la doverosità (nel caso siano giudicate ‘sproporzionate’) o comunque la legittimità (nel caso in cui siano considerate ‘proporzionate’) del loro rifiuto, senza che ciò sia chiamato eutanasia. È evidente, invece, che anche le azioni omissive, non solo quelle commissive, possono, in certi casi, configurarsi come eutanasiche, in base all’intenzione, alla procedura, e al risultato che prevedono; per cui, checché venga oggi proposto, non tutte le ‘omissioni’ sono innocenti.
Nella letteratura scientifica (e, in quanto tale, ‘oggettiva’) è in atto, come lo è stato per altri eventi, una revisione ‘terminologica’ che descrive atti violenti con parole sempre più neutre e rassicuranti per l’opinione pubblica: dal ‘Physician Assisted Suicide’ (PAS) (Suicidio Assistito dal Medico) si è passati alla ‘Physician Assisted Death’ (PAD) (Morte Assistita dal Medico). Il principio della ‘china scivolosa’, però, fa prevedere che anche in questa visione, a parole non eutanasica, ma nei fatti criptoeutanasica, del Testamento Biologico, la cruda realtà emergerebbe ben presto. In primo luogo, la morte per fame e sete può rappresentare un’opportunità da non perdere per una società con risorse limitate e con età media troppo elevata: ‘il rifiuto della nutrizione può diventare, nel lungo termine, il solo modo efficace per assicurarsi che un largo numero di pazienti biologicamente resistenti venga effettivamente a morte. Considerato il crescente serbatoio di anziani resi disabili dall’età, cronicamente ammalati, fisicamente emarginati, la disidratazione potrebbe diventare a ragione il non trattamento di elezione’. Secondariamente, la morte per fame e per sete è talmente tremenda, che ben presto, in una visione utilitaristica, viene ritenuto più pietoso un intervento attivo, rapido, e indolore”.
Negli Stati che hanno introdotto il testamento biologico, il terreno è stato preparato dalle cosiddette “sentenze creative”. Negli USA, i principi contenuti nella sentenza del famoso “caso Quinlan” costituiscono la base per la regolamentazione, nel 1976 in California, del primo testamento biologico (“Natural Death Act”). Subito dopo, altri Stati ne seguono le orme: Illinois, Louisiana, Tennessee, Texas, Virginia, ecc. L’introduzione del testamento biologico a livello federale è anch’esso preparato da una “sentenza creativa”, il noto “caso Cruzan”, che nel 1991 porta all’approvazione del “Patient Self-Determination Act”. La legge federale USA stabilisce che una persona in grado di intendere e di volere gode della libertà, protetta costituzionalmente, di non acconsentire a cure mediche non desiderate e di formulare dichiarazioni anticipate di volontà. Rientrano tra le cure passibili di rifiuto anche i sostegni vitali di nutrizione e idratazione. Impone a tutti i centri ospedalieri finanziati da fondi federali di chiedere ai pazienti, al momento del ricovero, se dispongono di “direttive anticipate”, che andranno incluse nella cartella clinica. In caso negativo, dispone che i pazienti siano informati del loro diritto di sottoscrivere tale documento, ricevendone il dovuto orientamento. Il testamento biologico prevede anche la possibilità di nominare un rappresentante, che dovrà prendere le decisioni circa l’assistenza e le cure nel caso in cui la persona si trovi nell’incapacità di esprimere la propria volontà.
Dopo la legge è partito puntuale il “piano inclinato”. In principio l’interruzione dei sostegni vitali era autorizzata solo nei confronti di chi ne aveva fatto esplicita richiesta nella propria direttiva anticipata, ma se la richiesta mancava prevaleva il favor vitae, si presumeva cioè che il paziente avesse interesse a restare in vita. Poi, in assenza di una decisione, si è permessa la ricostruzione della volontà “presunta” del paziente (“caso Cruzan”, in Italia una cosa analoga è avvenuta con il “caso Englaro”). Quindi è arrivato il “miglior interesse del paziente”, cioè: in mancanza di una volontà esplicita, o nell’impossibilità di ricostruire la volontà presunta, la sospensione dei sostegni vitali può essere autorizzata se il rappresentante legale o il giudice lo ritengano opportuno “nel miglior interesse del paziente”. Nell’“interesse del paziente” si possono quindi sospendere i sostegni vitali anche in mancanza di volontà esplicita o presunta, e persino contro il volere dei familiari, come è successo a febbraio 2011, nel Maryland, a Rachel Nyirahabiyambere, sottoposta a interruzione forzata dei sostegni vitali su ordine del magistrato, perché i familiari non potevano pagare le sue cure. Da ultimo è arrivata la proposta della dottoressa Catherine Constable, della New York University, che sulla rivista Bioethics di marzo 2012 ha sostenuto che nutrizione e idratazione “artificiali” dovrebbero essere sospese a tutti i pazienti in stato vegetativo permanente, salvo evidenza della volontà di essere tenuti in vita. In questo modo l’onere della prova viene ribaltato: chi non vuole morire deve averlo lasciato detto con chiarezza.
In altre parole, il principio del favor vitae viene rovesciato nel suo contrario: anziché presumere che il paziente voglia vivere, salvo dimostrazione del contrario, si presume che voglia morire, salvo dimostrazione del contrario. Per la Constable, la presunzione a favore del mantenimento della nutrizione e idratazione non sarebbe nell’interesse del paziente e causerebbe inutili costi per la società.
In conclusione, l’introduzione del testamento biologico in America non ha affatto fermato gli abusi: se lo sottoscrivi stai pur certo che, alla prima occasione, rispetteranno la tue volontà e ti lasceranno morire; se non lo sottoscrivi, nel tuo “migliore interesse”, ti lasceranno morire lo stesso.
L’“Illinois Right to Life Committee” (“Comitato per il Diritto alla Vita dell’Illinois”), ha osservato che il testamento biologico può elidere le disposizioni dei pazienti e dei propri cari sulla propria salute e fine-vita. Bill Beckman, direttore esecutivo del Comitato, scrive:
“Sapevamo che la spinta verso il testamento biologico dopo il caso Terri Schiavo sarebbe stata pericolosa per le persone che avrebbero abboccato. Recentemente alcuni casi che stanno venendo alla luce confermano i nostri timori circa i pericoli di tali documenti. Un testamento biologico non ha nulla a che fare con la vita, ma ha tutto a che fare con la morte…
Un caso avvenuto in Florida può dimostrare il serio rischio che il testamento biologico e la teoria delle cure inutili hanno sui pazienti. Alla fine del 2004, Hanford Pinette è stato ricoverato con urgenza in un ospedale di Orlando, in Florida, a causa di un’insufficienza cardiaca congestizia. Ed è stato posto sotto ventilazione meccanica e dialisi. I medici hanno comunicato alla moglie Alice che la sua condizione era ‘senza prospettive di miglioramento’. Quindi le hanno detto che avevano intenzione di ‘attenersi al suo testamento biologico’ con la rimozione dei dispositivi di ventilazione e dialisi. La signora Pinette si è opposta perché il marito era vigile e lucido, non vi era alcuna prognosi che stabilisse che la sua morte fosse imminente, parlava (sporadicamente, ma era in grado di farlo) e rispondeva ai comandi e al contatto fisico. Stava lottando per vivere. Secondo la signora Pinette, Hanford Pinette non aveva chiaramente intenzione di morire. L’ospedale si è allora rivolto al tribunale per ottenere l’autorizzazione a rimuovere i dispositivi di ventilazione e dialisi, scavalcando le obiezioni del delegato (sua moglie Alice) incaricato dall’uomo ad ‘attuare il suo testamento biologico’. Vinsero, e quei trattamenti medici indispensabili gli furono tolti. Dopo due ore di lotta per l’aria, Hanford Pinette – un uomo non malato terminale, cosciente e vigile – si è arreso ed è stato dichiarato morto. L’applicazione a favore della morte del suo testamento biologico, da parte dell’ospedale, ha prevaricato persino la disposizione chiaramente indicata secondo cui sarebbe stata la moglie a prendere le decisioni mediche nei suoi riguardi”.
L’“Illinois Right to Life Committee” esorta quindi le persone a non sottoscrivere alcun testamento biologico e, per una maggior sicurezza, visti i rischi che si corrono anche in sua mancanza, a proteggersi con la sottoscrizione del “Patient Self-Protection Document” (“Documento di Autodifesa del paziente”) che hanno predisposto:
“Se non hai firmato un Testamento Biologico, non farlo! Se hai già un testamento biologico, strappa tutte le copie in tuo possesso e quelle dei componenti della tua famiglia. Quindi contatta tutte le agenzie mediche che potrebbero averne fatto una copia e avvisali che il documento non è più valido. Poi firma solo una versione a favore della vita [come] il Patient Self-Protection Document”.
E quando un paziente verrà ricoverato in una qualsiasi struttura sanitaria finanziata da fondi federali e gli verrà chiesto se ha firmato una direttiva anticipata, non dovrà far altro che presentare il Patient Self-Protection Document che “è chiaro ed efficace per rispondere a questa esigenza”. Nella sezione del documento “Istruzioni per le mie cure mediche”, si legge:
“Poiché la vita umana è intrinsecamente buona e non meramente strumentale ad altri beni, nulla deve essere fatto che possa causare direttamente la mia morte, e niente deve essere omesso se questa omissione dovesse essere la causa diretta e primaria della mia morte. L’eutanasia, sia per omissione che per commissione, non è permessa. Istruisco il mio rappresentante e il mio medico ad assistermi nella conclusione dei giorni della mia vita fino alla morte naturale… Desidero che mi siano forniti cibo e liquidi per via orale, venosa, tramite sondino, o altri mezzi nella misura pienamente necessaria per preservare la mia vita e prevenire la morte per disidratazione e/o fame, a meno che la morte non sia davvero imminente a seguito di una malattia mortale di base, o a meno che io non sia in grado di assimilare cibo e liquidi. Nel caso in cui io sia stato diagnosticato come malato terminale, il sollievo dal dolore e l’assistenza di base, inclusi in particolar modo cibo e liquidi come già osservato, dovrebbero essere forniti, così come l’assistenza sanitaria ordinaria e le cure mediche adeguate alla mia condizione. Anche se può essere necessario l’alleviamento del dolore, esso non dovrebbe mai essere diretto a causare la morte tramite soppressione della respirazione o sedazione terminale. Queste istruzioni sono vincolanti, non solo per il rappresentante nominato, ma per tutto il personale sanitario o istituto che prenda una decisione circa le mie cure e/o trattamenti”.
Pare, insomma, che in America la proposta “rovesciata” della dottoressa Constable sia già una realtà: dopo l’introduzione del testamento biologico, il cittadino americano che non vuole correre il rischio – secondo il suo “migliore interesse” – di essere lasciato morire anzitempo, si trova costretto a compilare un contro-biotestamento. Alla fine il living will ha manifestato la sua vera natura di strumento di morte, come i suoi ideatori (Euthanasia Society of America) avevano concepito.
Se dagli USA ci spostiamo in Europa, nei Paesi che hanno introdotto il testamento biologico, vediamo che i pazienti non se la passano meglio. Invece di autodeterminare il fine-vita, anche nel Vecchio Continente il biotestamento espone ad abusi e al rischio di una condanna a morte anticipata.
In Francia, al pari dell’America, è il clamore suscitato da diversi casi giudiziari controversi, ad aprire la discussione sulla necessità di regolamentare il testamento biologico e l’“eutanasia passiva”. Nel 2003 il presidente Jacques Chirac istituisce una commissione ad hoc per discutere la questione, che due anni dopo (22 aprile 2005) porterà all’introduzione della “legge Leonetti” sui “diritti del malato e alla fine della vita”. Tra i vari aspetti che la legge Leonetti disciplina vi è l’istituto del testamento biologico. Benché la legge vieti fermamente il “far morire”, cioè il procurare attivamente la morte (eutanasia attiva), introduce tuttavia il concetto ambiguo di “lasciar morire”, con la motivazione di proteggere il paziente dall’accanimento terapeutico.
È riuscito il legislatore francese a mettere ordine nelle questioni del fine-vita e a tutelare i pazienti dagli abusi? Sulla base delle osservazioni rese nel 2008 a Le Monde dalla dottoressa Véronique Fournier – direttrice del Centro d’etica clinica dell’ospedale Cochin di Parigi -, sembra proprio di no. Il centro di Cochin è una struttura unica in Francia, che illumina operatori sanitari e pazienti in caso di dilemma medico. Da quando la legge Leonetti è entrata in vigore, il centro si è confrontato con almeno sei situazioni estreme in cui si è discussa l’ipotesi di arrestare alimentazione e idratazione in risposta a una richiesta di morte anticipata. Osserva Fournier:
“Se la legge ha esplicitamente negato le pratiche eutanasiche, tali pratiche possono comunque aver luogo sotto la sua copertura”: l’arresto di alimentazione e idratazione può, infatti, essere deciso con l’intenzione di “far morire” piuttosto che “lasciar morire”. Pertanto, “se applicata in modo improprio, questa pratica [“lasciar morire”] è potenzialmente fonte di derive etiche”.
Con il divieto di accanimento terapeutico – scrive Le Monde -, la legge Leonetti ha messo i medici al riparo da azioni penali quando decidono di interrompere i trattamenti, anche se questo significa la morte dei loro pazienti. Nella quasi totalità dei casi la decisione è stata facilitata quando le famiglie e gli operatori sanitari erano d’accordo sul fatto di fermare ogni escalation medica. Si tratta di persone che non sono in fin di vita, ma che dipendono, quale unico trattamento, dall’alimentazione artificiale tramite sonda, come nel caso del giovane Hervé Pierra, che versava in uno stato di coma neurovegetativo. Ha impiegato sei giorni a morire dopo la sospensione dell’alimentazione, in condizioni estremamente difficili. I pazienti, infatti, non reagiscono tutti allo stesso modo all’arresto della sonda e ai sedativi: al quinto e sesto giorno della sua agonia, Pierra era scosso da convulsioni così violente da farlo sobbalzare dal letto.
I responsabili del centro d’etica di Cochin – continua Le Monde – hanno constatato che molte équipes mediche si rifiutano di applicare questa forma di “lasciar morire”. Inoltre, quando gli operatori sanitari accettano di interrompere i sostegni vitali, le cattive pratiche non sono rare, a causa della mancanza di conoscenze. “Alcuni si lanciano senza preoccuparsi minimamente di sapere come fare perché ciò avvenga nel modo più dignitoso e umano possibile”, afferma Fournier. Le équipes mediche sono spesso disarmate, devono adattarsi a reazioni, a volte impressionanti, che non avevano immaginato.
Molti limiti presenta anche la legge spagnola n. 41 del 14 novembre 2002, con la quale il governo ha regolato, fra i numerosi aspetti, anche il “consenso informato” e le direttive anticipate, qui chiamate “istruzioni previe”. Eva Maria Martin Azcano – professoressa di Diritto Civile all’Università Rey Juan Carlos di Madrid – osserva che con l’approvazione di questa legge “non sembra che gli obiettivi siano stati raggiunti”:
“Il consenso informato non si è modificato a tal punto da poter affermare che a seguito della sua regolazione e adozione il rapporto medico-paziente sia migliorato in modo sostanziale. Il consenso informato è, invece, diventato uno strumento medico difensivo e un elemento di litigio giudiziario nel rapporto medico-paziente. Il medico riconosce la necessità di richiedere il consenso al paziente solo per evitare strategicamente denuncie e responsabilità professionali…
Inoltre, adempiere le direttive anticipate solleva gravi problemi ai professionisti della salute di fronte alla difficoltà di interpretazione della chiara volontà del paziente”.
La direttiva anticipata, infatti, può diventare obsoleta, visto che “la scienza medica, le tecniche di cura e i trattamenti sanitari sono in continua evoluzione”. Può pertanto accadere che i trattamenti sanitari da applicare nella situazione concreta siano diversi da quelli a suo tempo autorizzati dal paziente, ormai superati. A questo proposito – fa notare Azcano – ciò che “risulta inammissibile è la richiesta del paziente di somministrargli uno specifico trattamento quando la persona idonea per decidere le opzioni possibili è il medico”. Ma può anche accadere che il paziente “cambi la sua volontà alla luce della nuova circostanza”. Le istruzioni previe prevedono anche che si possa “rifiutare un trattamento che allunghi artificialmente la vita”, per cui se il Codice Penale spagnolo condanna espressamente l’eutanasia attiva, “di fatto non condanna l’eutanasia passiva”.
Queste e molte altre problematiche (“scarsa qualità del testo scritto che implica seri problemi di interpretazione”; “mancanza di dettagli quando si regolarizzano certi aspetti, vedi le diverse ipotesi sulla scelta di rifiutare determinati trattamenti medici”; ecc.) presenti nella legge spagnola, ottengono il risultato di peggiorare il rapporto medico/paziente e rendono più complesse e confuse le questioni di salute e di fine-vita. Allora, forse, non è un caso se la Azcano rileva che “dai dati forniti dalle Comunità Autonome emerge che il numero di documenti concessi e registrati presso i rispettivi registri autonomi è inferiore all’1% della popolazione”. Insomma, il popolo spagnolo non ha mostrato il benché minimo interesse verso le nuove “opportunità” offerte dalla legge sulle “Istruzioni previe”, non ha avvertito l’esigenza di autodeterminare per iscritto i problemi di salute futuri, né il proprio fine-vita. Ciò porta a concludere che, in Spagna come altrove, la “buona morte” legale sia una questione che infiamma solo le lobby politiche e ideologiche.
Il 1 settembre 2009, il Bundestag tedesco (Parlamento Federale) modifica la legge che regolamenta la figura dell’amministratore di sostegno, riconoscendo l’istituto del testamento biologico scritto vincolante, oppure un succedaneo di esso costituito dall’individuazione delle “volontà presunte” del paziente, ricostruite sulla base di “indizi concreti”. Rientrano tra le cure passibili di rifiuto anche i sostegni vitali (idratazione e alimentazione) dai quali dipende la sopravvivenza del paziente. Tuttavia, appena nove mesi dopo le modifiche di legge, si assiste a un significativo passo avanti rispetto a quanto giuridicamente previsto, quando Wolfagang Putz – avvocato esperto in diritto sanitario – viene assolto dalla Corte di Cassazione.
La vicenda che vede coinvolto Putz risale al 2007, quando consiglia alla figlia di Erika Küllmer – una 71enne in stato vegetativo dall’ottobre 2002 a causa di un’emorragia cerebrale – di reciderle con le forbici il sondino dell’alimentazione. Ottemperando al volere della madre che – secondo quanto riferito dalla figlia – aveva in passato espresso verbalmente la volontà di non essere mantenuta in vita artificialmente, le taglia la sonda, ma nella casa di riposo dove la donna è ricoverata se ne accorgono, le inseriscono un nuovo sondino e avvisano la polizia. Due settimane dopo la donna muore per un arresto cardiocircolatorio. La figlia e l’avvocato sono accusati di omicidio colposo, ma nell’aprile 2009 la prima viene assolta, mentre Putz è condannato a nove mesi di libertà vigilata e al pagamento di 20mila euro. Finché, il 25 giugno 2010, non arriva anche per lui la sentenza di proscioglimento della Cassazione, con la motivazione secondo la quale “l’interruzione del mantenimento in vita, operata in conformità alla volontà espressa dal paziente, non è punibile” e “l’accanimento terapeutico non può essere esercitato nemmeno su pazienti che non abbiano firmato il testamento biologico”. Ecco cosa succede quando i sostegni vitali sono equiparati alle “cure mediche”: basta invocare l’accanimento terapeutico per giustificare la loro interruzione, indipendentemente dal fatto che via sia oppure no un testamento biologico validamente sottoscritto.
La “sospensione” dei sostegni vitali alla signora Küllmer è stata considerata lecita nonostante mancassero sia il testamento biologico scritto, che un suo succedaneo basato su “indizi concreti”, come espressamente previsto dalla legge. Si è semplicemente deciso di dare credito alle dichiarazioni di un parente stretto, come avvenuto in Italia con Eluana Englaro, ma con una differenza sostanziale tra i due Paesi: la Germania, al contrario dell’Italia, la legge sul biotestamento ce l’ha, e nonostante ciò i casi “Eluana” si verificano lo stesso.
La pericolosità del testamento biologico si profila anche oltremanica. Il 7 aprile 2005 l’Inghilterra introduce il testamento biologico (“Mental Capacity Act”), con il quale una persona maggiorenne può indicare i trattamenti medici che intende rifiutare, sostegni vitali inclusi. I medici sono tenuti per legge a rispettare le direttive espresse dai pazienti, se non lo fanno rischiano di essere radiati o, addirittura, incriminati. Grazie a quest’ultima prospettiva una donna inglese di 26 anni ha potuto “portare a termine” il proprio tentativo di suicidio. Nel settembre 2007, Kerrie Wooltorton, affetta da sindrome depressiva, tenta il suicidio con una sostanza nociva, ma arrivata viva in ospedale muore il giorno seguente, a causa della non attivazione delle azioni di soccorso da parte dei medici, per il timore di essere denunciati se non avessero rispettato il testamento biologico che la donna aveva compilato prima di ingerire il veleno. I suoi familiari hanno protestato, dicendo che i medici avevano il dovere di salvarla. Altri hanno osservato che la sua storia di malattia mentale faceva sorgere dubbi circa la sua capacità di rifiutare le cure. E c’è chi ha fatto notare che il testamento biologico era stato introdotto per i malati terminali, non per le persone che intendevano suicidarsi. Ma i medici hanno ribadito la loro posizione: il non rispetto delle volontà della donna avrebbe significato “infrangere la legge” e rischiare la radiazione dall’Ordine. La questione della non attivazione di cure salvavita in presenza di direttive anticipate, è stata sollevata molte volte negli Stati che hanno introdotto il biotestamento, e rimane tuttora controversa e di non facile risoluzione.
Anche in Italia è grazie alle sentenze creative se a un certo punto la politica subisce un’accelerazione verso la disciplina del testamento biologico. A luglio 2007 viene prosciolto il medico che aveva rimosso la ventilazione meccanica a Piergiorgio Welby, mentre il 9 febbraio 2009 muore Eluana Englaro, dopo l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione che la tenevano in vita. Il via libera a rimuovere i sostegni vitali era arrivato il 25 giugno 2008, dalla Corte d’Appello di Milano, alla fine di un lungo e tortuoso percorso giudiziario.
L’eutanasia passiva di Eluana, avvenuta per sentenza, fa sentire forte la percezione di trovarsi di fronte a un pericoloso vuoto normativo, cui fa seguito la necessità di colmare quel vuoto. Il 26 marzo 2009, in sessione straordinaria, il Senato licenzia il progetto di legge “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.
Ciò che si trova alla base dell’esigenza di avere una legge ad hoc, proveniente soprattutto da esponenti di area cattolica, è ancora una volta il “male minore”: la legalizzazione del testamento biologico consentirebbe di contrastare le derive eutanasiche poste in atto dalle “sentenze creative” e il “far west” dei registri comunali dei biotestamenti, proliferati in tutta Italia grazie alle iniziative dei Radicali. Il tentativo di forzare la legge – afferma Eugenia Roccella:
“È evidente e si fa sempre più spavaldo. Quello che vogliono i radicali è creare una situazione di fatto capace, attraverso mille scappatoie e mille canali alternativi, di condizionare le decisioni del Parlamento”. Il quale, per questo motivo, “deve arrivare al più presto ad approvare finalmente la norma sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento capace di metterci al riparo dal far west dei registri comunali e dal proliferare delle singole dichiarazioni”.
Il deputato cattolico Enzo Carra, intervistato dal Corriere della Sera, dichiara:
“Io avrei preferito non votare alcuna legge ma una volta deciso che la legge doveva esserci non potevo che approvarla… Questa legge è frutto di un cambiamento improvviso del dibattito su questo tema avvenuto dopo la sentenza Englaro. Sarebbe stato meglio nessuna legge”.
Il testo è stato votato “perché si è trattato del male minore. Dopo il caso Englaro c’è stata una psicosi collettiva che ha portato all’esigenza immediata di mettersi al riparo, di mettere in sicurezza questo valore fondamentale. Soprattutto sulla questione dell’idratazione e dell’alimentazione, i veri punti sui quali c’è stato contrasto. La deriva eutanasica andava scongiurata”.
A marzo 2001, il quotidiano della Cei pubblica in prima pagina un “Appello al Parlamento” di dodici intellettuali cattolici in cui lo si sollecita a porre
“per legge limiti e vincoli precisi a quella giurisprudenza ‘creativa’ che sta introducendo surrettiziamente nel nostro Paese arbitrarie derive eutanasiche. Rilevanti e gravi decisioni giudiziarie hanno infatti reso possibile interrompere la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, a persone non più in grado di esprimere il proprio consenso, e hanno ridotto il consenso informato alla ricostruzione ex post delle volontà di una persona, dedotte persino dai suoi ‘stili di vita’, ignorando la necessità di una volontà attuale basata su un’informazione medica adeguata”.
I dodici auspicavano, quindi, l’approvazione in “tempi rapidi” del disegno di legge sulle Dat – definito come “una proposta ragionevole, condivisibile, realmente liberale e oggi non più rinviabile” – per evitare che non diventi “sempre più difficile drenare una giurisprudenza orientata a riconoscere il ‘diritto’ a una morte medicalmente assistita, in altre parole all’eutanasia trasformata in atto medico”.
In realtà, il disegno di legge italiano sulle Dat presenta gli stessi difetti che sono stati rilevati nei Paesi che hanno già introdotto il biotestamento, e ha tutte le caratteristiche per far ritenere che, anziché fermare le sentenze creative eutanasiche, sarà proprio esso, se verrà approvato, a porre le basi in Italia per la “buona morte” legalizzata.
Osserva il professore Guido Vignelli:
“Qual è la ragion d’essere del ‘testamento biologico’ e dove conduce la sua logica? Esso si basa sulla seguente premessa: l’individuo deve diventare pienamente padrone della propria vita; egli ha diritto di decidere se tale vita ha una ‘qualità’ sufficientemente alta da valer la pena di mantenerla, o se è tanto bassa da richiedere di sopprimerla; se quindi l’adeguata ‘qualità vitale’ viene a mancare, egli ha diritto di suicidarsi preferendo la morte ad una vita compromessa nelle sue relazioni, soddisfazioni, piaceri.
Ma tale premessa è appunto quella stessa che giustifica l’eutanasia; la logica del ‘testamento biologico’ è quindi chiaramente eutanasica e conduce per coerenza al ‘suicidio assistito’. Se il centro del problema non è più salvare la vita umana ma tutelare una decisione soggettiva, o al massimo bilanciare la volontà del medico con quella del paziente, allora l’unico criterio decisionale diventa puramente soggettivo e lo scopo puramente utilitaristico. Una volta che la vita umana diventa un bene disponibile e mercanteggiabile nell’ambito del sistema sanitario, il confine con l’eutanasia diventa talmente labile dall’essere facilmente superabile.
Insomma, promuovere il ‘testamento biologico’ comporta promuovere una mentalità che conduce per coerenza all’eutanasia; legalizzarlo, non solo non impedirà ma anzi la faciliterà l’autorizzazione dell’eutanasia, preparandole la strada nell’opinione pubblica e nella pratica sanitaria. Accettare oggi il ‘testamento biologico’ è la premessa per dover domani accettare anche quella sua logica conseguenza che è l’eutanasia ‘libera, assistita e gratuita’”.
Dietro la promozione del testamento biologico si nasconde la solita trappola del “male minore”. Scrive Vignelli:
“Il ‘testamento biologico’ è insomma inammissibile. Ma i fautori del ‘cedere per non perdere’ non se la sentono di condannarlo; essi sostengono che bisogna accettarlo, almeno in una sua forma moderata, come alternativa all’eutanasia; secondo loro, questo sarebbe l’unico modo per arginare oggi la spinta propagandistica che reclama il ‘suicidio assistito’, evitando così di doversi domani piegare alle pressioni di chi, non avendo ottenuto il minimo, reclamerà il massimo”.
Ma così facendo si finisce per cadere nel tranello teso dai nemici della vita:
“La strategia avanzata dallo stesso Veronesi ce lo conferma. Egli da tempo propaganda tenacemente l’eutanasia; ma accorgendosi che la gente non è ancora disposta ad accettarla, ha ripiegato sul promuovere il ‘testamento biologico’, nella speranza che la gente, quando si sarà abituata a decidere sulle proprie terapie terminali, vorrà decidere anche sulla propria morte.
Nel frattempo, Veronesi incoraggia esperti, politici e giornalisti a parlare di eutanasia, affinché i moderati si spaventino e, nella illusione di evitarla, accettino il ‘testamento biologico’. Egli sa bene che la rivoluzione biologica può vincere solo se procede per gradi, se attua una strategia progressiva, chiedendo oggi quel poco che gli permetterà domani di ottenere molto e, dopodomani, tutto.
Si accorgeranno gli italiani della trappola? Sfuggiranno a quel rovinoso sofisma, secondo cui oggi bisogna concedere il minimo per domani evitare il massimo? Riusciranno a spezzare quella malefica spirale che, facendo accettare oggi il ‘male minore’, prepara a subire domani quello maggiore?”.
La convinzione di molti cattolici secondo cui, dopo le sentenze creative, ci si trovi nella condizione di dover per forza scegliere il “male minore” (biotestamento/Dat) per prevenire il “male maggiore” (eutanasia), è solo un abbaglio poiché questa materia è già ampiamente presidiata dall’ordinamento giuridico italiano. Scrive il Comitato Verità e Vita:
“Nonostante alcune apparenze e alcuni espedienti linguistici, l’approvazione della cosiddetta ‘legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento’ costituirebbe un ulteriore passo nella direzione della cultura della morte, e aprirebbe la strada all’eutanasia legalizzata.
La legge sul fine vita è un successo. Ma è un successo per coloro che in questi anni si sono impegnati nella costruzione di casi mediatici – su tutti la vicenda di Eluana Englaro, fatta morire di fame e di sete – allo scopo di ‘costringere’ il Parlamento a legiferare in una materia già ampiamente presidiata dall’ordinamento giuridico, mediante il principio costituzionale di indisponibilità del diritto alla vita.
Oggi, in Italia non è lecito togliere la vita anche a chi ne faccia richiesta (omicidio del consenziente); non è lecito togliere la vita a chi non abbia potuto o voluto chiederlo (omicidio volontario); non è lecito aiutare qualcuno a uccidersi (istigazione al suicidio). Di più: il legislatore – ben consapevole che rendere efficace la volontà di farsi uccidere spalanca la porta ad uccisioni che prescindono da qualunque manifestazione di volontà – ha comunque reso del tutto inefficaci le richieste di morte provenienti da soggetti incapaci o in stato di deficienza psichica o minacciati, ingannati o suggestionati.
Come aggirare, allora, questo solido ostacolo alla discriminazione nei confronti delle categorie di uomini in stato di debolezza? La soluzione è una, anche se ha molti nomi: testamento biologico, dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), living will. L’idea è semplice: approvare una qualunque legge che, pur dichiarando nei suoi preamboli il divieto di ogni eutanasia, preveda l’efficacia giuridica di volontà espresse in precedenza. In questo modo viene svuotato dall’interno il divieto di suicidio assistito, così da permettere che certi malati non siano curati e nemmeno nutriti e idratati.
Così – senza nemmeno usare le parole ‘omicidio’ o ‘suicidio’ – diventerà possibile procurare la morte di pazienti che si trovano in determinate condizioni. La fittizia autodeterminazione porta automaticamente in sé la sostanza di ciò che si vuole ottenere: l’eutanasia dei malati. Anche in assenza della loro volontà”.
Un aspetto che emerge anche quando ci si cala all’interno dei singoli articoli del Ddl. Per esempio, al punto 2 dell’art. 6 inerente alla figura del “fiduciario”, si trova scritto:
“Il fiduciario, se nominato, è l’unico soggetto legalmente autorizzato ad interagire con il medico e si impegna ad agire nell’esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata”.
Ora, come abbiamo precedentemente notato, il “miglior interesse del paziente” è un termine generico “letale” che spunta fuori ogni qualvolta si vuole che un paziente muoia. Nel Maryland, la rimozione del sondino a Rachel Nyirahabiyambere è avvenuta nel “suo interesse” su decisione del legale rappresentante nominato dal giudice, contro la volontà di tutti i suoi familiari. In Inghilterra una cosa analoga è accaduta a Anthony Bland, in stato vegetativo da quattro anni, morto a seguito della sospensione di alimentazione e idratazione, dopo che l’Alta Corte ha stabilito che lo stato vegetativo persistente non rientra nel “miglior interesse” del paziente giacché non gli arreca “alcun beneficio”. Sempre in Inghilterra, all’ospedale per bambini “Alder Hey”, i neonati con anomalie congenite e poche speranze di vita vengono fatti morire di fame e di sete, secondo il protocollo “Liverpool Pathway for the Dying Child”, in accordo con i loro genitori, dopo che i medici hanno comunicato loro che si tratta di una soluzione adeguata nel “miglior interesse” dei piccoli, visto che la loro sopravvivenza è “inutile”. In Belgio, il 17% dei medici ad aver praticato eutanasie senza il consenso dei pazienti, ha dichiarato di averlo fatto perché si trattava del “miglior interesse del paziente”. Insomma, ogni volta che si sente invocare il “miglior interesse” dopo c’è sempre qualcuno che muore.
Per questo motivo, Gian Luigi Gigli manifesta la necessità “di interrogarsi sui poteri del ‘fiduciario’” contenuti nel disegno di legge italiano, in particolare sul fatto
“importantissimo che nel testo sulle Dat sia mantenuto fermo il concetto che l’azione del legale rappresentante deve avere ‘come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace’, invece che il suo ‘miglior interesse’”. Infatti, se questa clausola non dovesse passare, “potremmo presto accorgerci che, invece del ‘migliore interesse’ (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita”.
Vi è poi da dire che il Ddl non prevede alcun divieto di sospensione della respirazione artificiale – che è sostegno vitale al pari di nutrizione e idratazione – alle persone disabili in stato di incoscienza. O il fatto che il testo prevede la possibilità per il dichiarante di “rinunciare a ogni forma di trattamento terapeutico” ritenuto “di carattere sproporzionato”, una “rinuncia” che potrà spianare la strada alla non attivazione di terapie salvavita da parte del personale medico, com’è accaduto in Florida a Hanford Pinette, o in Inghilterra a Kerrie Wooltorton. Anche il disegno di legge italiano conduce alla burocratizzazione del rapporto medico-paziente, con tutte le conseguenze che ne derivano, come quelle verificatesi in Spagna in dieci anni di applicazione della legge, evidenziate dalla professoressa Azcano.
Questi e ad altri aspetti negativi – scrive il Comitato Verità e Vita – portano a concludere che:
“Il testo approvato alla Camera fallisce proprio nel suo obiettivo originario: mai più l’uccisione di un’altra Eluana Englaro. Con una normativa così complessa ed equivoca, i Tribunali si riempiranno di cause dirette a forzare i limiti della norma o a sostenere interpretazioni in senso eutanasico.
L’Italia non ha bisogno di questa legge: auspichiamo che venga respinta, consapevoli che – a prescindere dalle intenzioni di chi la sostiene e da alcune dichiarazioni di principio condivisibili – essa introduce l’eutanasia legale nel nostro Paese.
Il testo proclama di ‘riconoscere e tutelare la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile’ (articolo 1 comma 1 lettera a), ma vi è in questo un’inquietante analogia con il legislatore della legge 194, che affermava di ‘tutelare la vita dal suo inizio’, e poi rendeva lecito l’aborto a richiesta.
Non esiste nessun male minore da evitare: per impedire il ripetersi di altri casi come quello di Eluana Englaro basterebbe una legge che vietasse l’interruzione di alimentazione e idratazione artificiale ai soggetti incoscienti, che siano in grado di riceverla con beneficio.
Solo mantenendo integro il divieto di omicidio del consenziente e di suicidio assistito, e valorizzando l’arte e la professionalità dei nostri medici, potremo davvero rispettare la vita e la dignità di ogni uomo”.
Più chiaro di così!