Dai bassi fondi la fulgida Luce
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Sette Opere di Miseficordia, 1606-1607.
Olio su tela, 390 x 260 cm. Napoli, Pio Monte della Misericordia
Luce e buio; luce e tenebre; luce e oscurità. Michelangelo Merisi, uomo dalla vita sconsiderata ed estrema, ha sempre voluto rappresentare la realtà come lui, uomo della terra, riusciva a vederla. Vittorio Sgarbi direbbe che «Caravaggio introduce un elemento che prima non c’era. Questo elemento è il male, è il tempo, è il peccato»[1]anche se, per esempio, nella Madonna di Loreto, dove a rappresentarla «rimangono solo lo scalino, lo stipite di marmo e il muro, che riveste interamente l’interno lauretano, elementi nascosti in quella che il popolo poteva meglio riconoscere come casa romana …»[2] risulta forte la pietà di gente umile e insignificante per il mondo, ma apprezzata, invisibilmente da Dio.
Michelangelo, come il Re Davide dei libri 1 e 2 di Samuele, è pronto a peccare e pronto a pentirsi e proprio questo contrasto del cuore conosce bene e vuole rappresentare. Per questo il Merisi abbandona «… il Cristo benedicente, il Cristo Giustiziere, tutto quello che avete visto fin qui, i grandi filosofi della Scuola di Atene, tutte queste figure assolute, stabili, eroiche o no: ora c’è un ragazzo qualunque, e addirittura ammalato»[3], ma questo per rendere presente là, dove sembrerebbe assente, proprio quell’assoluto che si è voluto rendere partecipe della vita dei giusti e degli ingiusti indistintamente. E’ quel tentativo, non totalmente nuovo, ma visto a tratti anche in precedenza, di illustrare la faticosa risposta dell’uomo a Dio, che si rivela nella condizione dell’uomo stesso. Michelangelo vuole liberare la verità della fede dell’uomo terreno, con la quale si trovò sempre in contrasto.
Vita dissoluta, quella del Caravaggio, come di moltissimi artisti d’Occidente, particolarmente italici; irosa, passionale, eppure incantata dal Mistero, veramente invisibile, di Cristo.
Egli volle umanizzare il sacro, venendo accusato di dipingere in modo indecoroso. Non voleva trasfigurare la realtà sensibile e, spesso, urtante, ma raffigurarla nel suo anelito al bene.
I visi delle sue Madonne (come in questo meraviglioso particolare del Riposo durante la fuga in Egitto, 135 x 166 cm. Roma, Galleria Doria Pamphilj, 1595-1596) sono visi di prostitute, da lui frequentate e scelte come modelle. Voleva osare ritrarre in loro proprio coloro che ci precederanno in paradiso.
Quest’artista, quest’epoca, vivono il contrasto di sentimenti, di concezioni ideali religiose, di contrapposizioni sociali.
Con grande delicatezza, di opera in opera, Caravaggio rimira l’incantevole bellezza di ciò che il mondo non sa nominare, né, tanto meno, servire: Dio, Cristo, Maria, la virtù. Sempre inseguendo il vizio, ha nostalgia del Bene attraverso il Bello.
È un’arte assai lontana dalla rivelazione luminosa dei Misteri divini nella fissità delle pitture o dei mosaici di Oriente ed Occidente, ma che non può perdere per un solo attimo l’anelito al Cielo, al quale si protende nelle visioni di gesti quotidiani sottolineati da simboliche luci.
Nei numerosi particolari, Michelangelo, che porta il nome dell’Arcangelo Michele, compie la sua vocazione combattente, che ritroveremo proprio nel pellegrinaggio interiore di San Matteo, la cui vocazione Michelangelo non ritrae solo nella tela intitolata Vocazione di Matteo. Essa prosegue nelle altre tele, che ritraggono il pellegrinaggio, sì, di Matteo, ma dello stesso Caravaggio. L’Arcangelo, attraverso il pennello, che in questo artista è proprio una spada, guida il proprio protetto al compimento della sua vocazione: rialzarsi ogni volta da terra, pentito, benché peccatore. Milite umile, dunque, che negli umili vede l’umanità spoglia dell’orgoglio dell’epoca, e si affida col cuore a Maria, che non smette di essere, per lui, la Madre di Dio, benché in vesti dimesse, in luoghi anche abbietti.
Ella conserva e mostra, nella sua candida bellezza, presa a prestito da donne di strada, profonda diversità e somiglianza. Il suo materno sguardo, che è per tutti, proprio per questo è divino e non più umano, visto che umano i più pensano significhi essere dimentichi di Dio.
Dalla Madonna di Loreto, alla Madre dormiente con il Bimbo in braccio della Fuga in Egitto, il medesimo interiore sguardo, che induce speranza nell’artista che accetta la prova, la sfida. Vi si getta a capofitto, senza timore di essere frainteso e molti, effettivamente, lo fraintenderanno e cercheranno di emarginarlo, se facciamo eccezione per alcuni illuminati. Ma egli indulge con orgoglio alla propria convinzione pur di non perdere ciò che altri ancora non hanno colto.
La società cambia e Caravaggio cerca di portare il mistero a quelle masse che si affacciano sempre più sulla scena del consorzio umano, premendo da ogni parte e chiedono al Mistero di entrare nelle proprie strade, case, vite. E proprio la Vergine di Loreto, o Madonna dei pellegrini, in Roma, a sant’Agostino (1604-1606) ci coinvolge in questa estasi inattesa.
Ella si presenta sporgendosi dal portone di casa con in braccio Gesù, sotto le spoglie di un paffuto bambino di quartiere. I due pellegrini, una vecchia ed il figlio già adulto, lerci all’inverosimile, in netto contrasto con il collo luminoso, candido, della Vergine. La Vergine mostra loro il Figlio.
Se si nota, dal capo di Gesù, all’alluce del sozzo piede destro del pellegrino, si può tracciare una diagonale. Frequente nelle sue opere la diagonale[4], dalla nostra sinistra, in alto, a destra in basso, a dire il filo diretto tra il divino e l’umano, laddove meno ce lo aspettiamo. I due congiungono le mani in fervida preghiera traboccante amore, speranza, implorazione, confidenza tali da lasciare senza parole e, come nota il Filippetti, -così abile a cogliere l’incanto dei particolari-, «le mani del pellegrino, che sfiorano il piedino di Gesù, ricordano lo sfiorarsi di indici inventato dall’altro Michelangelo nella Creazione della Sistina»[5]. Dio e l’uomo vicini, nonostante tutto.
Vocazione di San Matteo
Vocazione di San Matteo, 322 x 340 cm. Roma, San Luigi dei Francesi, 1599-1600
Nella Vocazione di San Matteo, ancora una volta, il raggio di luce, dalla destra di Dio, fonte di ogni bene. La luce giunge, inattesa, ad un uomo, chino sui propri denari, sciorinati sul banco, gli unici argomenti dei quali egli sia capace; su un banco più abituato agli spruzzi di vino, agli sputi di denti, che si aprono più a risa sgangherate, che a parole oneste. Veramente la scena somiglia ad una de’ Bravi di Don Rodrigo. Tutta si muove verso destra. E tutti mirano l’indice destro di Cristo, che invita proprio Matteo, un uomo dalla vita senza speranza, prostrato da un sonno, da una melanconia invincibili. Solo, della solitudine di chi possiede ricchezze accumulate ingiustamente, da pubblicano, tradendo la fiducia del proprio popolo, il popolo d’Israele! Esattore delle tasse disonesto, prezzolato dai Romani, come Zaccheo. Eppure, Cristo, che vicino a sé ha Pietro, gli chiede di alzare il capo, di cambiare padrone.
Anche Pietro leva l’indice destro, sembra incoraggiarlo, confermare l’invito del Maestro. Ma un terzo uomo, un anziano, accanto ad un disincantato giovane, ben vestito, con lo stesso gesto sembra invece chiedere: «Ma, chiamate proprio lui? Sapete che razza di uomo sia costui»? E, forse si appresta a dire a Matteo: «Sì, chiama te, non altri! ».
Un altro uomo anziano, da dietro gli occhiali, osserva le monete. Vorrà assicurarsi se siano davvero buone, o abbastanza? Pensa solo al gioco. E quello di schiena? Quello riceve pienamente la luce sul lato destro. Sembra che da Matteo agli altri quattro uomini, tutti rappresentino un aspetto della vita di Matteo. Già: In Matteo vediamo la tenebra sul volto; nel vecchio con gli occhiali, l’interesse solo per i beni; nell’anziano interrogativo, la domanda sorpresa; nel giovane ben vestito, pago solo di gioie effimere, l’incapacità di stupirsi, ma, nel cavaliere di schiena, l’accenno ad alzarsi, tutto preso dal nuovo incontro. Forse in lui non è azzardato intravvedere lo stesso Matteo, quasi pronto a muoversi, a dire sì alla nuova opportunità!
Là dove Matteo sembrava alla fine, comincia la vita, una volta messi a confronto, nel discernimento interiore, i pesi e le ubriachezze con l’invito dolce e fermo di Cristo.
E quella luce diagonale, che entra sempre dove non la aspetteremmo, insiste verso il Caravaggio. È la sua caratteristica. Un interrogativo che lo accompagna in tutta la sua vita di artista e di fede. Poiché, in lui, il combattimento è spietato e continuo e sembra non trovare requie, fine.
Certo, credere che questa per Caravaggio sia la vocazione di Matteo, tutta qui –e non sarebbe poco- non è abbastanza. No, questo percorso interiore attraversa la sua arte di soggetto religioso, poiché sa bene che la vocazione non è solo la chiamata di Dio, ma anche la risposta dell’uomo. Essa, quando è cominciata, non cessa di continuare. Comunque vada, fino all’ultimo respiro, il dialogo non si interrompe più, nemmeno se ci fosse un rifiuto. Sì, nemmeno nel rifiuto, ché, se anche cominciasse quarant’anni prima di una morte, la risposta non cesserebbe, il dialogo non cesserebbe. Una volta iniziato, aperto, non termina più!
San Matteo e l’Angelo ispiratore
San Luigi dei Francesi, 296 x 195 cm. Roma 1602
Dalla vocazione ad Apostolo, alla vocazione ad Evangelista, passano diversi anni. Matteo ha l’aspetto di un uomo saggio. È stato testimone del cammino di Gesù verso Gerusalemme, verso la croce. Ma ha anche visto e toccato il Verbo fatto carne, morto e risorto. Ha avuto modo di annunciare a più riprese la Sua parola, i suoi gesti. Di ripercorrerne letteralmente i passi nella sua terra. Ora dà sistematicità al racconto evangelico, collegandolo direttamente alla storia d’Israele attraverso quella famosa genealogia che vede nel tempo, espresso dai tre cicli di quattordici generazioni, ovvero, sette generazioni per sei, la creazione nel tempo di quel popolo che giunge a maturazione in Cristo.
Matteo conosceva bene le Scritture, la tradizione giudaica. Compone il suo scritto proprio per i suoi fratelli nella fede, gli Ebrei, per i giudei neoconvertiti. Suo intento, sottolineare la continuità tra il primo Mosé ed il secondo, Gesù. Proprio questa sua audace interpretazione, che rompe l’equilibrio di Scribi e Farisei, viene evidenziata da Michelangelo, da un lato, dall’Angelo che lo ispira, dalla saggezza, frutto di riflessione e preghiera, dall’altro dalla posizione rischiosa assunta da Matteo: un equilibrio precario, reso tale dall’implicito movimento, progresso, dal poggiare il ginocchio su uno sgabello, il cui quarto piede è sul nulla, sull’incertezza.
Chissà, forse proprio per questo, non molto dopo, e, cioè, nel 1603, Caravaggio dipingerà Il Sacrificio di Isacco, ravvisando, nelle sembianze di Abramo, un volto assai simile al volto di San Matteo. In Abramo avrà visto il tipo, la prefigurazione di quanto sarebbe accaduto in ogni vocazione? Lasciare tutto, ogni sicurezza, sempre effimera, fidando in Dio? Avrà capito che quella luce, che da sinistra illumina l’angelo, la fronte di Abramo, irradiandosi sul coltello nella robusta mano, fino al collo teso di Isacco, illuminava anche la soluzione del dramma nella presenza dell’ariete?
Sacrificio di Isacco, 104 x 135 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi, 1603 circa.
D’altro canto, non riconosciamo lo sgabello? Non è identico a quello del cavaliere illuminato da destra nella Vocazione? Pronto a partire su un invito che riserverà innumerevoli sorprese, senza sicurezze umane, sull’incertezza?
Morte della Vergine
Morte della Vergine, 369 x 245 cm. Parigi, Louvre, 1605-1606
La morte della Vergine viene raffigurata con un’umanissima morte, al punto di ritrarre in Lei le fattezze di una donna trovata annegata nel Tevere, a gambe scoperte. Ma tutta la scena dice da un lato dolore, dall’altro pensosità e desiderio di capire. La critica e la divulgazione si sono soffermate sulla rappresentazione del dolore espresso da gente povera. Già Sgarbi insiste nel suo Il sogno della pittura, 80 e 81: «… Caravaggio sembra capire le ragioni più autentiche del Cristianesimo in questa sua radicale visione dell’umanità, degli strati più umili … con intensità mai più vista dopo il Compianto di Niccolò dell’Arca, i popolani del quartiere, che l’hanno appena accolta dal fiume …». Diversamente Antonella Lippo, sempre in un libro compilazione di Sgarbi[6], che parla esplicitamente di Apostoli da non confondere con semplici popolani, benché anch’essi siano umile gente ed ancora il Prof. Roberto Filippetti in Caravaggio. l’urlo e la luce, 49.
Riconosciamo gli Apostoli, le cui teste sono congiunte, dalla consueta luce, al capo di Maria. A destra, solo Giovanni, in manto verde scuro, con la guancia poggiata sul dorso della mano sinistra, sembra essere al di sopra, lui, l’Evangelista dallo sguardo penetrante il mistero.
Al centro Pietro e, subito, accanto a lui, Matteo, il cui volto è uguale a quello dei personaggi rintracciati in quelle tele qui commentate. Matteo è vicino al mistero della vita e della morte. Benché morire sia ordinario, egli ne fa motivo di interrogazione e di meditazione. Caravaggio afferma che anche la morte di una abbandonata è posta nelle mani di Dio come quella della Vergine, che, della morte, non ha subito, però, la corruzione.
Martirio di San Matteo
San Luigi dei Francesi, 323 x 343 cm. Roma 1599-1600
Vi è un forte contrasto tra la vita di Caravaggio e quella di San Matteo. Mentre l’artista si distinguerà per aver insidiato la virtù di molte fanciulle, Matteo, Apostolo dell’Etiopia, muore per mano di un sicario del re, per proteggere la verginità che Ifigenia aveva consacrato a Dio. Nella pala, Caravaggio si ritrae in secondo piano, a sinistra, al limite della scena. In quell’uomo dai capelli arruffati, la barba lunga, come quella di colui che da tempo va ponendosi l’interrogativo su tutto quanto stia accadendo. Gli occhi sono interdetti ed esterrefatti: «Fino a questo punto? Ed io, io, di cosa sono capace?».
Il sogno della pittura
Così Sgarbi intitola un suo testo nel quale, indagando le opere di trentotto artisti, cerca di ricondurre la lettura dell’opera d’arte a questo assunto:
«Credo che nessuna immagine si guardi, se non nel distacco più totale, nell’assenza di interesse e di esigenza conoscitiva. Le immagini in realtà si pensano, cercando di catturarle in una maglia precostituita, che è fatta della somma di migliaia di loro, in una progressiva consapevolezza che ci consente di vedere sempre di più; e, in sostanza, di prevedere … Per migliaia di immagini noi siamo trasparenti: ci sono passate davanti senza che ce ne accorgessimo: gran parte di loro sono le più reali, la realtà quotidiana … Non diverso è il rapporto con l’immagine: alla visione di un quadro, lo smarrimento iniziale diviene confidente sicurezza, non appena ne abbiamo colto le caratteristiche formali che ce lo rendono familiare … siamo quindi noi a determinare l’immagine, a costituirla, per poterla guardare»[7].
Questo breve cammino con Caravaggio ci dice che, benché esista una trama di elementi noti, che rende possibile il riconoscimento iniziale dell’opera, tuttavia, man mano che la si penetra, l’inatteso appare sempre più e ci stupisce. Se l’opera risultasse meramente all’interno di quanto ci aspettiamo, la costruissimo, cioè, noi, cosa che sostiene Sgarbi, alla fine morirebbe nel novero delle cose scontate. Invece, quanto mai la grammatica e la sintassi dell’artista, che via via ci appaiono, possono stupirci e superare quelle nostre precomprensioni, quei nostri canoni!
L’ispirazione del Caravaggio
Caravaggio si ispira alla natura sia nel dipingere oggetti che persone, ma non come se fossero equivalenti, senza mostrare la diversità tra cose e persone, con un livello morale e spirituale proprio, ma tenendosi fedele ad esse, a ciò che significano. Di sé come artista diede una descrizione, una volta che era in carcere, e fu chiamato per deporre: l’esercizio mio è di pittore. Ed indicò anche i requisiti per esserlo: quella parola valent’ huomo appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così in pittura valent’ huomo che sappi dipingere bene e imitare bene le cose naturali. Ma tra cose e persone vi è diversità di natura e, quindi, il Caravaggio, ricopiando le persone, per esempio nella Vocazione di San Matteo, sì, le ricopia, ma le ricompone secondo la propria ispirazione per raggiungere il fine della interpretazione della risposta di Matteo a Cristo.
Da quale testo parta il Caravaggio, nella sua Vocazione di Matteo, ce lo dice proprio il suo dipinto. Parte dal Vangelo nel suo dato oggettivo, storico, e dalla interpretazione personale esistenziale. I testi di riferimento sono Mt 9, 9 ; Mc 2, 14; in particolare Lc 5, 27-28, precisamente ove Luca dice:
27Dopo questo egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». 28Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.
Proprio il si alzò è l’anello di congiunzione che Caravaggio sottolinea tra Matteo sonnolento e Cristo che chiama, attraverso il cavaliere di schiena, dal volto illuminato.
Nulla di scontato in Caravaggio, né di improvvisato. E più entriamo nella sua conoscenza formale, tanto meglio notiamo che essa obbedisce non a ciò che ci aspettiamo, ma a quanto colui vuole intendere.
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[1] Sgarbi V., Da Giotto a Picasso. Discorso sulla pittura, Rizzoli libri illustrati- Gruppo Skira, Ginevra-Milano, 2002,152.
[2] Sgarbi V., Caravaggio, Skira, Ginevra-Milano, 2005, 128.
[3] Sgarbi V., Da Giotto a Picasso, o.c., 152.
[4] Cf Filippetti R., Caravaggio. L’urlo e la Luce, Itaca, Castel Bolognese, 20072.
[5] Filippetti R., Ibidem, 44.
[6] Antonella Lippo in Caravaggio di V. Sgarbi, o.c., 134.
[7] Sgarbi V., Il sogno della pittura. Come leggere un quadro, Marsilio, Venezia 19952, 13-14.
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