Inghilterra, a “post-Christian” country

L’ultimo sondaggio parla chiaro, i sudditi di Sua Maestà la Regina sono ormai “post-Christian”. In Inghilterra solo il 14% si dichiara cristiano praticante, mentre il restante 86% oscilla tra un perentorio “non essere assolutamente religioso” e un laconico “non essere praticante”.

Rowan Williams, ex arcivescovo di Canterbury, lo ha detto senza mezzi termini: “Siamo in una fase post-Christian”. Ma, ancor più preciso lo era stato il suo predecessore – Lord Carey – al recente sinodo anglicano di novembre 2013: “Siamo a una generazione dall’estinzione”.

Il dibattito in Inghilterra è caldo, alimentato da alcune recenti dichiarazioni del premier Cameron che aveva ribadito la necessità di valorizzare le radici cristiane del Regno, con l’obiettivo di innestare nella società la forza del vangelo, una forza di “benevolenza”. Nessuno mette in dubbio le buone intenzioni del premier di fede anglicana, ma il suo progetto politico, denominato “The Big Society”, pare innanzitutto avere l’obiettivo di scaricare lo Stato di diversi problemi sociali. E dei relativi costi.

Tuttavia, queste prese di posizione di Cameron hanno aperto il solito coro di lamentazioni nel campo laicista. Richiamare l’Inghilterra alle sue radici cristiane sarebbe un operazione capace solo di creare “divisione fra i cittadini”. E’ quanto sostengono cinquanta personalità del mondo intellettuale e artistico inglese che, lo scorso 20 aprile, hanno pubblicato la solita lettera-messaggio. “Noi rispettiamo il diritto del premier ad avere le proprie credenze religiose (…), tuttavia – scrivono sul Telegraph – ci opponiamo alla caratterizzazione della Gran Bretagna come un paese cristiano e le conseguenze negative per la politica e la società che così si generano”.

Il vice-primo ministro e leader dei Lib-Dem, Nick Clegg, a suo modo ha rincarato la dose, perchè si è spinto a voler mettere in discussione perfino la stessa specificità religiosa del Regno Unito, ossia il fatto che la Regina sia alla testa della Chiesa Anglicana. E’ così da quando Enrico VIII, non ottenendo dalla Chiesa Cattolica la benedizione per il suo divorzio, portò la Chiesa inglese in stato di scisma. “Sarebbe meglio per il nostro Paese, – ha detto Clegg alla radio LBC – gli Inglesi, e tutti i credenti, che la Chiesa e lo Stato fossero separati”.

Le prese di posizione dei cinquanta intellettuali inglesi, o le dichiarazioni di Clegg, non sono nuove e le possiamo trovare a diverse latitudini, ad esempio nella laicissima Francia, ma anche in casa nostra. Le radici di questa mentalità però si trovano proprio nel Regno Unito, radici di un albero che poi si è ben sviluppato in ogni dove.

Soprattutto in campo religioso gli effetti di questo “liberalismo” si sono fatti sentire con particolare virulenza nel frutto amaro dell’indifferentismo: tutte le religioni sono uguali e tutte vanno bene nell’intimo della coscienza, l’importante è che stiano fuori dalla piazza pubblica.

Il Beato J.H. Newman, celebre anglicano che divverrà cardinale cattolico, lo scrisse molto chiaramente nel famoso “discorso del biglietto”, pronunciato proprio in occasione della sua nomina a cardinale avvenuta nel maggio del 1879 a Roma. “Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni.”

In effetti questa pungente osservazione del Beato Newman è quanto di più scomodo possa esservi per la nostra cultura. Eppure è a partire dalla questione della verità positiva nella religione che si potrebbe approdare ad un serio concetto di distinzione tra Chiesa e Stato. Cercasi disperatamente capitani coraggiosi da una parte e dall’altra, perchè anche questa è missione.

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