Sono un attento lettore delle paginate storiche di Paolo Mieli sul Corriere. In esse trovo il pregio della chiarezza e di una certa originalità e libertà. Martedì Mieli si è dedicato alla figura di Attila, prendendo in esame molti testi, in particolare Attila e gli Unni di Edina Bozoki. La Bozoki cerca di fare due operazioni, piuttosto forzate, dimostrando che il revisionismo storico può divenire, talora, molto pericoloso. Cerca infatti di proporre una visione di Attila e degli Unni diversa da quella che abbiamo studiato tutti, facendone un sovrano non particolarmente crudele né barbaro. Con buona pace di tutte le testimonianze tradizionali, compresa quella dello storico pagano Ammiano Marcellino (il quale, vissuto prima di Attila, descrive però la rozzezza e la barbarie degli Unni di cui Attila sarà re).
Inoltre, la Bozoki cerca di ridurre a pia invenzione il ruolo di Leone I Magno nell’impedire, dopo i saccheggi e la distruzione di innumerevoli città come Aquileia, anche quello di Roma, nel 452. Scrive Mieli: “Come che sia l’imperatore Valentiniano III ebbe paura di lui (Attila), abbandonò Ravenna e si rifugiò a Roma, mettendosi sotto al protezione di Papa Leone I. Quel Leone I che ‘in un incontro provvidenziale’ con Attila nei pressi di Mantova (nel 452) avrebbe convinto il sovrano barbaro a desistere dall’intenzione di invadere la città eterna. Il racconto di questo ‘miracolo’ è di Paolo Diacono ed è stato fatto nel IX secolo, cioè 400 anni dopo il presunto accaduto. Un lasso di tempo che induce a qualche dubbio circa la veridicità della ricostruzione storica”.
Fermiamoci un attimo: non è vero che Paolo Diacono sia stato il primo a parlare dell’accaduto. Abbiamo almeno la testimonianza coeva di Prospero d’Aquitania, morto nel 463 (“Egli intraprese questa missione… Attila ricevette la legazione con grande dignità e si rallegrò tanto della presenza del sommo pontefice che decise di rinunciare alla guerra e di ritirarsi al di là del Danubio, dopo aver promesso la pace“) e quella del vescovo Idazio. Abbiamo poi, nel VI secolo, il resoconto di Jordanes, storico di origine gotica, che, citando anche altri storici precedenti, come Prisco, descrive l’incontro tra Attila e il papa, avvenuto “nel campo veneto detto Ambuleio, dove il fiume Mincio è attraversato da molti viaggiatori” (Jordan Getica XLI-XLII, 222-223 ed Th. Mommsen). Più avanti anche Paolo Diacono racconterà l’episodio nella sua Historia Romana, localizzando l’incontro “nel luogo dove il Mincio entra ne Po”. Paolo Diacono, però, non è affatto del IX secolo, come vuole la Bozoki: scrive, infatti, verso il 770 d.C.(se ne deduce che Bozoki confonda Paolo Diacono con lo storico, del IX secolo, Giovanni Diacono!).
Prosegue Mieli, continuando nella recensione: “strana storia, soprattutto se si pensa che due anni dopo la morte di Attila, nel 455, Roma fu invasa dai Vandali di Genserico a dispetto dell’intercessione di quello stesso papa, Leone Magno”. Nulla di “strano”, al contrario: proprio perché aveva avuto un qualche successo con Attila, Leone ci provò anche con Genserico. E anche stavolta, in parte, riuscì. Racconta Elena Cavalcanti nell’ Enciclopedia dei Papi (Treccani, 2000): “la città era in stato di totale confusione e di rivolta. Mancava qualsiasi potere in grado di imporsi. Genserico, il condottiero dei Vandali, giudicò il momento favorevole per tentare l’avanzata… La flotta vandalica comparve quasi di sorpresa ad Ostia (Porto) il 3 maggio 455; le truppe avanzarono fino a Roma… La città rimase priva di ogni difesa. Leone, circondato dal clero, uscì alla “Porta Portuensis” per trattare con l’invasore, che però non riuscì a fermare del tutto: il saccheggio non fu evitato; Leone ottenne però che Roma non sarebbe stata incendiata e che gli abitanti sarebbero stati risparmiati. Dal saccheggio inoltre vennero risparmiate le tre basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni in Laterano; in esse cercò scampo la popolazione durante quattordici terribili giorni”.
Mieli continua ribadendo, sulla scorta degli storici da lui citati, che esisterebbero “storie ricostruite attorno al X secolo (poco sopra era il IX), 400 anni dopo la morte di Attila”, e le definisce “storie edificanti a gloria della Chiesa”, atte a tramandare “il mito dei ‘vescovi resistenti’”. Tra i miti da archiviare anche l’ azione di papa Gregorio Magno che nel 593 fermò il barbaro longobardo Agilulfo. Anche qui, troppa fretta e revisionismo eccessivo: sia perché Paolo Diacono, nell’Historia Langobardorum, come Giovanni Diacono, in Vita S. Gregorii Magni, attestano che l’assedio a Roma fu tolto da Agilulfo (dietro pagamento di un tributo), grazie alla tregua proposta dal papa (con ripercussioni documentate sul rapporto tra papa e imperatore d’Oriente); sia perché il ruolo di supplenza di molti vescovi nel medioevo, per quanto inevitabilmente la storia si sia talora mescolata con la leggenda, è dimostrabile in mille circostanze; sia, infine, perché esso si è ripetuto in epoca recente, quando, per stare in Italia, fu anche per intervento dei vescovi di Genova e Trieste che i nuovi barbari in ritirata, i nazisti, risparmiarono inutili carneficine alle rispettive città. Il Foglio, 23/1/2013