Perchè sposarsi in Chiesa? Note a margine di una disputa cardinalizia

Perché venite a sposarvi in Chiesa? Questa la domanda che un parroco saggio dovrebbe porre alla coppia che va a prender contatti per combinar la data. Oggi sarebbe più corretto chiedere perché si sceglie di sposarsi, visto che non è così scontato, ma fermiamoci alla domanda iniziale. 

Recentemente il Card. Maradiaga, capo degli 8 porporati consiglieri del Papa, si è rivolto al Prefetto della Dottrina della Fede, l’Arcivescovo e prossimo Cardinale Muller, dicendo: “È un tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile, quando ascolti altre voci”. La flessibilità richiesta a Muller è sul tema della crisi del matrimonio e in particolare sulla questione della comunione ai divorziati risposati che, ultimamente, sembra essere diventata l’ombelico del mondo ecclesiale. A questo proposito il cardinale sud americano rimprovera al tedesco di avere poca sensibilità pastorale: «La Chiesa è tenuta ai comandamenti di Dio» e a ciò che Gesù «dice sul matrimonio: ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo. Però ci sono diversi approcci per chiarire questo. Dopo il fallimento di un matrimonio ci possiamo per esempio chiedere: gli sposi erano veramente uniti in Dio? Lì c’è ancora molto spazio per un esame più approfondito”.

Maradiaga sembra farsi paladino di una posizione “misericordiosa”, rispetto ad un’altra più “dottrinale”. In altre parole, secondo lui, prima di mettere paletti è necessario anteporre una certa “flessibilità” per trovare nuove soluzioni. Quali? Maradiaga non lo dice, si limita a ricordare che forse occorre riflettere sul fatto che tanti si sposano in chiesa senza avere consapevolezza del sacramento. La domanda iniziale – perchè venite a sposarvi in Chiesa? – diventa quindi fondamentale.

Ma, visto il fallimento di tanti matrimoni, si fa ancora questa domanda? Anche questa, infatti, sembrerebbe misericordia, di quella che potremmo ascrivere alla categoria “prevenire è meglio che curare”.

Da anni ormai si propinano ai promessi sposi i cosiddetti “corsi prematrimoniali”, un continuo cantiere dall’efficacia piuttosto scarsa. Sono state schierate truppe di psicologi, visione di film e documentari stile Quark, eppure questo corso, salvo eccezioni, viene vissuto spesso come un peso, oltre che dagli aspiranti sposini, anche dagli stessi parroci. Non c’è bisogno di grandi analisi sociologiche per avvertire che tante coppie vanno a sposarsi in chiesa semplicemente perché “la mamma (o la nonna) ci tiene tanto”, perché “fa scena”, o perché “credo in Dio, ma mica quello della Chiesa.”

In fondo S.E. Muller sull’Osservatore romano aveva semplicemente sottolineato che non si può confondere la misericordia verso casi di sofferenza, con la realtà di un sacramento. La misericordia di Dio – ha scritto – non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste.”

Quindi tra le nuove soluzioni pastorali richiamate da Maradiaga, prima di chissà quali “flessibilità”, sarebbe opportuno darsi da fare per chiarire ai promessi sposi cos’è un sacramento e per rianimare un malato in gravissime condizioni: il fidanzamento.

Il “corso pre-matrimoniale”, il più delle volte una specie di cartellino da timbrare, per essere una cosa seria dovrebbe poter suscitare domande forti: chi è Dio?, cosa centra la Chiesa con il mio matrimonio?, cosa è la castità?, cosa significa amarsi “finché morte non ci separi”? Se non è così, meglio andare dal sindaco o al bar. Questioni psicologiche di dinamica di coppia vengono dopo queste domande, invece, la Chiesa, troppe volte, più che un ospedale da campo qui sembra essere un centro di counseling.

Di fronte all’innegabile crisi del matrimonio sarebbe bello sentir parlare anche di soluzioni pastorali che si preoccupino innanzitutto di far capire davanti a chi ci si sposa. Vanno beni i convegni, i Master in famiglia e dintorni, le conferenze, i libri, ma poi sul campo bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo, senza paura di impopolarità. E imparare a dire qualche no a chi va in canonica per fissar la data. Anche questa potrebbe essere “flessibilità pastorale”.

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