“I nostri fratelli sono l’immagine del Padre nostro, e sotto le loro spoglie s’asconde il Salvatore. Vi è bisogno di più per esercitare la nostra tenerezza?”. Così scriveva, oltre un secolo orsono, uno dei grandi laici cattolici dell’Ottocento, il beato Contardo Ferrini.
Oggi il nome di questo studioso, proclamato dalla Chiesa patrono dell’Università, è piuttosto dimenticato, ma molti sarebbero i motivi per riandare alla sua vita e ai suoi scritti. Contardo Ferrini nasce a Milano il 4 aprile 1859. Ancora giovane dimostra facilità negli studi, ed è iniziato, dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana, allo studio delle lingue orientali (tra cui l’ebraico, il siriaco, il caldeo, il greco). Gli serviranno per accostarsi al Diritto Romano e Bizantino, con acume, capacità storica e filologica fuori dal comune (Marco Invernizzi, “Il beato Contardo Ferrini”). Theodor Mommsen ha scritto di lui: “Come il XIX secolo per gli studi romanisti s’intitolava dal Savigny, così il XX si sarebbe intitolato dal Ferrini”. Mentre l’amico Luigi Olivi, ricordandolo nel 1905 a Pavia, affermava che la sua figura “si levò all’ammirazione dei dotti, e in particolare dei romanisti, che salutarono in lui il pensatore profondo e geniale, il perfetto giurista, l’indagatore e il ricostruttore storico di teorie e di scuole in parte almeno inesplorate”.
Ferrini fu dunque un grande giurista, professore presso le università di Modena, Messina, e, soprattutto, Pavia, dove il suo nome è ancora oggi onorato e la sua storia ricordata dalla locale sezione dei Giuristi cattolici (che gli ha dedicato, per i tipi di Cantagalli, una silloge di pensieri intitolata “Il catechismo di Contardo Ferrini”).
Oltre che insigne studioso, il “santo in frack”, come lo definì Benedetto XV, fu un uomo di fede e carità: condivise con il Toniolo l’urgenza di una azione sociale, pur essendo la sua indole portata ad una vita riservata e schiva; fu membro di una conferenza di San Vincenzo e terziario francescano come altri celebri giuristi prima di lui (Cino di Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, detto lucerna iuris, e il frate minore Baldo degli Ubaldi, professore di diritto presso varie università, tra cui proprio Pavia).
Ferrini amava il silenzio e la pace dei monti: “E’ bello sentire da una cima solitaria di monte quasi il solenne avvicinarsi di Dio e contemplare anco nella natura selvaggia e severa il perennemente giovane sorriso di Lui”. Riguardo alla preghiera, annotava: “Io non saprei concepire una vita senza preghiera; uno svegliarsi al mattino senza incontrare il sorriso di Dio, un reclinare la sera il capo, ma non sul petto di Cristo. Una tal vita dovrebbe somigliare a notte tenebrosa, piena di avvilimento e di sconforto, arida, incapace a resistere alle prove, abbandonata al reprobo senso, ignara delle gioie sante dello spirito”. Riguardo all’Incarnazione: “E’ come una impazienza di Dio di darsi alla creatura, è come una divina impazienza di comunicare agli uomini i disegni dell’eterna misericordia. Dall’Eden fino a Daniele, da Daniele fino a Elisabetta e Simeone è tutta una serie di reiterate promesse: s’annuncia il nato da Vergine, l’Emmanuele: s’annuncia l’angelo del gran consiglio e il padre del secolo venturo, il benedetto frutto di Maria e il salvatore del mondo. Anche in questi giorni devo pensare alla divina impazienza del Cristo, che vorrebbe annunciarsi di nuovo all’umanità, che pur ne ha tanto bisogno. Ma ove sono ora i profeti suoi?”
Il papa di Ferrini fu senza dubbio Leone XIII, di cui apprezzò la Rerum Novarum, l’Inimica vis, la De conditione opificum. Leone XIII, scriveva, è riuscito a “demolire il pregiudizio che essa (la Chiesa) sia nemica della scienza e del progresso”. Argomentando però sul suo possibile successore, in un dialogo con l’Olivi, in occasione del conferimento della porpora cardinalizia al patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, nel 1894, auspicava un cambiamento: “Ma alla morte di Leone XIII può la Chiesa avere necessità di un Capo Supremo che la riconduca più spiccatamente alle virtù evangeliche dei tempi apostolici, alla bontà, alla carità, alla povertà di spirito, alla mansuetudine; può aver d’uopo d’illuminarsi di un carattere più rigorosamente acceso di amore pei poveri ed umili per spiegare più larghi influssi sulle masse popolari, e in questo senso potrebbe parere opportunissima la scelta del Sarto che si mostra circondato dalla fama di tali virtù in sommo grado”.
Alcuni anni dopo, nel 1903, Giuseppe Sarto, secondo di dieci figli di una povera famiglia veneta, sarebbe diventato papa, nonostante sino ad allora non avesse svolto alcuna attività di curia o diplomatica. Il vescovo che aveva venduto la pietra dell’ anello per dare i soldi ai poveri; che da cardinale girava per Venezia vestito da prete; che “sbrigava da sé molti affari della Curia e persino la corrispondenza”; che invitava a prediche semplici, senza voli pindarici; che si occupava degli emigranti, degli orfani, dei malati… una volta divenuto papa riformò la Chiesa nei costumi e la fortificò nella dottrina, con una forza mansueta e semplice, evangelica, che gli procurò tanto affetto, e non pochi nemici. Ma il Ferrini era già morto, l’anno precedente alla nomina del papa che aveva desiderato.
Il Foglio, 11 dicembre 2013